Contenzioso

La prova del danno da demansionamento professionale

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Danno da demansionamento professionale
Riposi del padre lavoratore dipendente e indennità di maternità della lavoratrice autonoma
Procedura di licenziamento collettivo/1
Procedura di licenziamento collettivo/2

Licenziamento per giusta causa

Danno da demansionamento professionale

Cass. Sez. Lav. 5 settembre 2018, n. 21677

Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich; Ric. G.L.F.; Controric. O.S.N. S.p.A.;

Lavoro subordinato – Danno da demansionamento professionale – Difetto di allegazione e prova circa il danno subito – Possibilità di respingere la domanda in base a tale carenza – Sussistenza – Necessità di analizzare preliminarmente la domanda circa l'accertamento dell'inadempimento – Esclusione

Lavoro subordinato – Danno alla Professionalità da inattività del lavoratore – Allegazione di un'attività soggetta ad evoluzione – Allegazione di vantaggi professionali destinati a venir meno in conseguenza al mancato esercizio – Necessità

Nel caso in cui sia proposta, da un lavoratore subordinato, domanda di risarcimento danni da demansionamento professionale, il giudice, che ritenga evidente il difetto di allegazione e prova in ordine alla natura ed entità del danno subito, può - in applicazione del principio della cd. “ragione più liquida” - invertire l'ordine delle questioni e, in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio valorizzate dall'art. 111 Cost., respingere la domanda sulla base di detta carenza, posto che l'accertamento sulla sussistenza dell'inadempimento, anche se logicamente preliminare, non potrebbe in ogni caso condurre ad un esito del giudizio favorevole per l'attore.
Il riconoscimento di un danno alla professionalità discendente dall'inattività del lavoratore presuppone da parte del ricorrente, la tempestiva allegazione dell'espletamento di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque, caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo
NOTA
Il caso in esame riguarda la richiesta da parte di un lavoratore di risarcimento del danno alla professionalità derivante dalla sua totale inattività per un certo periodo di tempo.
Le domande del lavoratore venivano rigettate tanto in primo quanto in secondo grado.
Con specifico riferimento alle domande relative al demansionamento per inattività, la Corte d'Appello rilevava come il lavoratore avesse proposto le stesse senza indicare alcun elemento di fatto idoneo a configurare un pregiudizio concreto alla professionalità la quale, al contrario, non appariva contraddistinta da un bagaglio di conoscenze e capacità a rapida obsolescenza.
Il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione contro la decisione della Corte d'Appello, sulla base di vari motivi. In particolare e per quanto qui interessa lo stesso lamentava violazione dell'art. 2103 c.c. in relazione al diritto del lavoratore all'espletamento delle mansioni contrattualmente attribuitegli nonché insufficiente motivazione su un punto decisivo della causa, rilevando peraltro di aver depositato tempestivamente tutte le buste paga per la quantificazione del danno.
La Suprema Corte ha ritenuto infondate le censure mosse dal lavoratore e rigettato il ricorso.
In particolare la Suprema Corte ha affermato che «nel caso in cui sia proposta, da un lavoratore subordinato, domanda di risarcimento danni da demansionamento professionale, il giudice, che ritenga evidente il difetto di allegazione e prova in ordine alla natura ed entità del danno subito, può - in applicazione del principio della cd. “ragione più liquida” - invertire l'ordine delle questioni e, in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio valorizzate dall'art. 111 Cost., respingere la domanda sulla base di detta carenza, posto che l'accertamento sulla sussistenza dell'inadempimento, anche se logicamente preliminare, non potrebbe in ogni caso condurre ad un esito del giudizio favorevole per l'attore».
Correttamente dunque, secondo la Suprema Corte, la Corte d'Appello ha ritenuto che la carenza di allegazione e prova in ordine al pregiudizio subito rendesse superfluo l'accertamento circa la sussistenza in concreto dell'inadempimento (demansionamento).
Sotto il profilo del pregiudizio alla professionalità del lavoratore, infatti, la Cassazione ha ribadito il proprio orientamento secondo cui lo stesso non discende automaticamente dall'inadempimento. Nel caso di specie, infatti, non vi era stata alcuna allegazione da parte del ricorrente circa «l'espletamento di una “attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque, caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo» e, conseguentemente, non poteva ritenersi sussistente un pregiudizio alla professionalità del lavoratore discendente dall'inattività dello stesso.

Riposi del padre lavoratore dipendente e indennità di maternità della lavoratrice autonoma

Cass. Sez. Lav. 12 settembre 2018, n. 22177

Pres. Berrino; Rel. Riverso; Ric. I.N.P.S.; Contr. G.D.L.;

Art. 40 d. lgs. n. 151/2001 – Madre lavoratrice autonoma – Indennità di maternità – Padre lavoratore dipendente – Riposi giornalieri – Alternatività – Esclusione.

L'art. 40, d. lgs. n. 151/2001, prevede l'alternatività nel godimento dei riposi giornalieri da parte del padre solo nell'ipotesi in cui la madre, lavoratrice dipendente, non se ne avvalga; al contrario, la norma riconosce in maniera ampia il diritto del padre ai permessi nel caso in cui la madre “non sia lavoratrice dipendente”, senza prevedere alcuna alternatività. La distinzione si giustifica in ragione della diversa condizione lavorativa della lavoratrice autonoma, per la quale è prevista una differente tutela economica rispetto a quella garantita alla lavoratrice dipendente e alla quale è consentito di rientrare al lavoro in ogni momento, dopo il parto, anche mentre fruisce dell'indennità di maternità.
NOTA
La Corte di appello di Torino, confermando la sentenza di primo grado, riconosceva il diritto di un lavoratore dipendente, di fruire dei riposi giornalieri ex art. 40, d. lgs. n. 151/2001, sino al compimento di un anno di vita della figlia, nata il 28 settembre 2009, mentre la moglie, lavoratrice autonoma, riprendeva il lavoro sin dall'8 ottobre 2009, usufruendo del trattamento di maternità previsto dall'art. 66, del medesimo decreto.
A fondamento della decisione, la Corte di appello rilevava come dovesse ritenersi errata l'interpretazione dell'istituto previdenziale che voleva equiparare la situazione della madre lavoratrice autonoma a quella della madre lavoratrice dipendente.
Avverso tale pronuncia l'INPS propone ricorso per cassazione denunciando la violazione del d. lgs. n. 151/2001, ritenendo che, pur con le differenze esistenti tra le madri lavoratrici autonome e lavoratrici subordinate, i c.d. riposi giornalieri e l'indennità di maternità non potevano cumularsi.
La Cassazione respinge il ricorso e, dopo aver richiamato il contenuto della previsione di cui all'art. 40, d. lgs. n. 151/2001, chiarisce come l'alternatività nel godimento dei riposi giornalieri da parte del padre è prevista in relazione “alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga”; mentre il diritto del padre ai permessi “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”, non prevede alcuna alternatività.
La distinzione si giustifica in ragione della diversa condizione lavorativa della lavoratrice autonoma, per la quale è prevista una differente tutela economica rispetto a quella garantita alla lavoratrice dipendente e alla quale è consentito di rientrare al lavoro in ogni momento, dopo il parto, anche mentre fruisce dell'indennità di maternità. E poiché i riposi giornalieri hanno lo scopo di garantire l'assistenza e la protezione della prole, la legge prevede, nel caso della lavoratrice autonoma, la possibilità per la madre di rientrare al lavoro subito dopo il parto, e per il padre lavoratore dipendente, il diritto di fruire dei riposi giornalieri nel medesimo periodo. La Corte conclude affermando il principio secondo cui, nel caso di lavoratrice madre autonoma e padre lavoratore dipendente, potendo, entrambi i genitori, rientrare al lavoro subito dopo la maternità, risulta maggiormente funzionale affidare agli stessi la facoltà di organizzarsi nel godimento dei benefici previsti dalla legge per una gestione familiare e lavorativa meglio rispondente alle esigenze di tutela del complessivo assetto di interessi perseguito dalla legge; consentendo perciò ad essi di decidere le modalità di fruizione dei permessi giornalieri, salvo il rispetto dei soli limiti temporali previsti dalla normativa.
Per un commento si veda anche Guida al Lavoro n. 38/2018.

Procedura di licenziamento collettivo/1

Cass. Sez. Lav. 6 settembre 2018, n. 21717

Pres. Nobile; Rel. Marotta; P.M. Fresa; Ric. S.P.P.; Controric. V.&R. S.r.l.;

Licenziamento collettivo - Comunicazione alle organizzazioni sindacali ex art. 4, co. 2, L. 223/1991 - Funzione sindacale di controllo e valutazione della completezza della comunicazione di avvio - Firma accordo - Rilevanza

La conclusione di un accordo sindacale al termine della procedura di mobilità, pur non determinando la sanatoria di eventuali vizi della procedura, è elemento sintomatico dell'adeguatezza della precedente comunicazione di avvio.
NOTA
La Corte d'Appello di Ancona, decidendo sul reclamo proposto dal lavoratore, ha confermato la pronuncia del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato la domanda del lavoratore di impugnazione del licenziamento intimatogli dalla società nell'ambito della procedura di cui alla L. 223/1991.
In particolare, ad avviso della Corte territoriale, la società aveva compiutamente individuato nella comunicazione preventiva le ragioni che avevano determinato la contrazione del personale ed altresì specificamente indicato il numero, la collocazione aziendale e i profili del personale eccedente, dando atto, in relazione a ciascun reparto aziendale, del numero dei dipendenti impiegati, della qualifica e del livello di ciascuno di essi e dei tempi di attuazione del programma di riduzione del personale. La Corte d'appello evidenziava inoltre che una conferma del fatto che la comunicazione di cui all'art. 4, comma 2, L. 223/1991 contenesse tutti i necessari requisiti di specificità, poteva ricavarsi dal fatto che era successivamente intervenuta la sottoscrizione dell'accordo con le organizzazioni sindacali.
Il lavoratore ha presentato ricorso per Cassazione contestando la decisione impugnata, tra l'altro, nella parte in cui ha ritenuto legittimo l'accordo sindacale siglato dalle organizzazioni sindacali ai sensi dell'art. 4, comma 5, L. 223/1991, essendosi tale accordo, ad avviso del ricorrente, sostanziato in una «mera presa d'atto della circostanza di cui alla comunicazione preventiva senza alcuna pur sintetica valutazione delle stesse», con ciò concretizzando di fatto un'elusione nell'esercizio dei poteri di controllo preventivo sindacale.
Circa la comunicazione preventiva con cui il datore di lavoro avvia la procedura di licenziamento collettivo, la Suprema Corte ha ricordato che la stessa ha la finalità di «consentire all'interlocutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale» (in questo senso, ex pluribus, Cass. 7 settembre 2002, n. 13031, Cass. 11 aprile 2003, n. 5770, Cass. 11 luglio 2007, n. 15479, Cass. 2 marzo 2009, n. 5034).
La Corte di Cassazione ha proseguito evidenziando che spetta invece al giudice del merito verificare l'adeguatezza della comunicazione di avvio della procedura di cui all'art. 4, comma 2, L. 223/1991 e che il datore di lavoro incorre nella violazione dell'obbligo normativo di trasparenza nel caso in cui i dati comunicati siano incompleti o inesatti, la funzione sindacale di controllo e valutazione sia stata limitata e sussista un rapporto causale tra l'indicata carenza e la limitazione della funzione sindacale (così, Cass. 16 marzo 2007, n. 6225, Cass. 16 gennaio 2013, n. 880, Cass. 14 aprile 2015, n. 7490).
In tema di verifica del rispetto delle regole procedurali per i licenziamenti collettivi per riduzione di personale, la Suprema Corte ha altresì ribadito che «la sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva di cui alla l. n. 223 del 1991, art. 4, co. 3, deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, che restano sottratti al controllo giurisdizionale», per cui, in relazione agli stessi, «l'imprenditore può limitarsi all'indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso tra i diversi profili professionali previsti dalla classificazione del personale occupato nell'azienda, senza che occorra l'indicazione degli uffici o reparti con eccedenza» (cfr. Cass. 18 novembre 2016, n. 23526, Cass. 5 maggio 2016, n. 9061, Cass. 3 luglio 2015, n. 13794).
I commi 4 e 5 della L. 223/1991, prevedono poi un controllo preventivo delle organizzazioni sindacali dell'iniziativa imprenditoriale di ridimensionamento dell'impresa. Tale controllo viene quindi effettuato ex ante rispetto a quello giurisdizionale, che è invece deputato al solo controllo della correttezza procedurale dell'operazione e di adeguatezza della comunicazione.
Ebbene, ad avviso della Suprema Corte l'accordo sindacale sottoscritto dalla società con le organizzazioni sindacali ha costituito un ulteriore indice del fatto che la comunicazione preventiva di avvio della procedura fosse completa e contenesse i necessari requisiti di specificità, indicando adeguatamente i motivi della situazione di eccedenza di personale, le ragioni organizzative ostative all'adozione di misure conservative, il numero, la collocazione aziendale e i profili del personale eccedente, nonché i tempi di attuazione del programma di riduzione (Cass. 14 aprile 2015, n. 7490, Cass. 5 marzo 2014, n. 5195 e Cass. 5 aprile 2011, n. 7744).
I sindacati erano pertanto stati messi nelle condizioni di esercitare i poteri di controllo preventivo loro attribuito dalla legge.
Ad avviso della Suprema Corte, quindi, una volta definiti e giustificati gli ambiti spaziali e/o delle singole lavorazioni o settori produttivi entro cui operare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità, il datore di lavoro ben ha potuto, una volta raggiunto l'accordo con le organizzazioni sindacali, decidere di preferire il criterio delle “esigenze tecnico – produttive ed organizzative” ai criteri “sociali” di anzianità e carichi di famiglia. Tali esigenze hanno così giustificato una specifica e più ristretta localizzazione della scelta datoriale di riduzione del personale, ovvero la predeterminazione di una serie di graduatorie che prevedessero l'accorpamento di mansioni identiche ed omogenee in ragione della loro maggiore o minore fungibilità (in questo senso, Cass. 9 maggio 2006, n. 11886, Cass. 25 gennaio 2006, n. 1405, Cass. 7 giugno 2003, n. 9153, Cass. 6 aprile 2002, n. 4949, Cass. 3 febbraio 2000, n. 1201, Cass. 10 giugno 1999, n. 5718, Cass. 24 marzo 1998, n. 3133).
La Corte di Cassazione ha quindi concluso per il rigetto del ricorso.

Procedura di licenziamento collettivo/2

Cass. Sez. Lav. 7 settembre 2018, n. 21907

Pres. Nobile; Rel. Ponterio; Ric. C.; Controric. L.Z.

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento collettivo - Art. 4, comma 9, legge n. 223/1991 - Comunicazione del recesso da parte del datore di lavoro - Comunicazione al singolo lavoratore - Comunicazione ai competenti uffici dell'impiego - Contestualità - Mancanza - Conseguenze - Fattispecie.

In tema di licenziamenti collettivi, la lettera della disposizione di cui all'art. 4, comma 9, della legge n. 223 del 1991 e la sua ratio – che è quella di rendere visibile e quindi controllabile dalle organizzazioni sindacali la corretta applicazione dei criteri di scelta - portano a ritenere che il requisito della contestualità della comunicazione del recesso ai competenti uffici del lavoro (e ai sindacati) rispetto a quella al lavoratore sia da valutare, in una procedura temporalmente cadenzata in modo rigido e analitico, e con termini ristretti, nel senso di una necessaria contemporaneità la cui mancanza vale ad escludere la sanzione della inefficacia del licenziamento solo se dovuta a giustificati motivi di natura oggettiva da comprovare da parte del datore di lavoro.
NOTA
Nel caso di specie, un lavoratore agiva in giudizio nei confronti del proprio datore di lavoro chiedendo di dichiarare l'illegittimità del licenziamento intimatogli nell'ambito della procedura di licenziamento collettivo con la conseguente condanna della Società al pagamento di un'indennità risarcitoria pari a quattordici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori di legge.
Entrambi i giudici di merito accoglievano la domanda del lavoratore. In particolare, la Corte d'Appello riteneva che «la comunicazione alle organizzazioni sindacali e agli organismi amministrativi di cui all'art. 4, comma 9, L. n. 223 del 1991, in quanto contenente l'elenco dei lavoratori, l'indicazione dei criteri di scelta e delle modalità di applicazione degli stessi, dovesse avere carattere universale, riferibile cioè a tutte le posizioni lavorative interessate dalla procedura, indipendentemente dalla data di comunicazione del recesso al singolo dipendente e, nel caso di specie, anche dalla scadenza del termine per l'adesione dei singoli lavoratori agli accordi individuali incentivanti».
La Società proponeva ricorso per Cassazione, per violazione e falsa applicazione del combinato disposto dell'art. 4, commi 9 e 12, e dell'art. 5, L. n. 223 del 1991, in relazione ai criteri di computo del termine di sette giorni per la comunicazione dell'elenco dei lavoratori licenziati e in relazione alle conseguenze del decorso del termine sull'efficacia dei licenziamenti.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso, ribadendo l'orientamento prevalente secondo cui: «il requisito della contestualità della comunicazione del recesso alle organizzazioni sindacali e alle indicate amministrazioni pubbliche, comunicazioni sicuramente richieste a pena di inefficacia del licenziamento, non può non essere valutato, in una procedura temporalmente cadenzata in modo rigido ed analitico, e con termini decisamente ristretti, nel senso di una necessaria contemporaneità la cui mancanza vale ad escludere la predetta sanzione della inefficacia del licenziamento solo se dovuta a giustificare motivi di natura oggettiva da comprovare dal datore di lavoro».
La Suprema Corte ha confermato la valutazione effettuata dalla corte territoriale che ha ritenuto che la comunicazione alle organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi, per assolvere alla funzione ad essa attribuita dalla legge, non può che essere unica, cioè tale da esprimere l'assetto definitivo sull'elenco dei lavoratori da licenziare e sulle modalità di applicazione dei criteri di scelta, che ove invece destinati a mutare nel tempo, come preteso dalla società ricorrente, renderebbero alquanto difficile qualsiasi attività di controllo.
Pertanto, conclude la Corte, «a fronte della sequenza temporale stringente che la legge impone per la procedura, nessuna norma prevede sanatorie di sorta in caso di suo inadempimento, neppure se l'atto abbia raggiunto lo scopo. Proprio perché il controllo giudiziale è limitato alla osservanza della procedura e poiché l'art. 5, comma 3, prevede l'inefficacia del recesso in tutti i casi in cui tale osservanza non vi sia stata, senza operare distinzioni, il recesso non può che considerarsi inefficace nel caso in cui la comunicazione alle organizzazioni sindacali sia avvenuta senza il rispetto dei termini e della sequenza di cui all'art. 4, comma 9».

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 10 settembre 2018, n. 21958

Pres. Bronzini; Rel. Negri Della Torre; Ric. R. S.p.A.; Controric. D.L.

Lavoro - Lavoro subordinato - Licenziamento per giusta causa - Maltrattamenti nei confronti di familiari - Incidenza sul rapporto lavorativo - Inadempimento o condotta illecita - Rapporto fiduciario - Accertamento - Esclusione - Fatto extra-lavorativo - Conseguenze.

Anche una condotta illecita extra-lavorativa del prestatore è suscettibile di rilievo disciplinare, e pertanto anche di dar luogo alla più grave delle sanzioni, poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta, ma anche a non porre in essere, fuori dell'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o da compromettere il rapporto fiduciario, comportamento il cui apprezzamento in concreto è rimesso al giudice di merito.
NOTA
Un lavoratore, con ricorso proposto innanzi al Tribunale, aveva chiesto l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento intimatogli dal datore di lavoro a seguito di sentenze penali di condanna in relazione a condotte di maltrattamenti poste in essere nei confronti di propri familiari. Il giudizio di primo grado si concludeva con il rigetto del ricorso.
Il dipendente proponeva, quindi, impugnazione innanzi alla Corte d'Appello per ottenere la riforma della sentenza emessa dal Tribunale, sostenendo l'inidoneità di tali condotte extra-lavorative ad incidere sul rapporto lavorativo.
La Corte territoriale, in integrale riforma della decisione del giudice di primo grado, condannava il datore a reintegrare il lavoratore ed a pagare in suo favore un'indennità risarcitoria pari a dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, rilevando l'insussistenza di un fatto idoneo ad essere qualificato come inadempimento o condotta illecita incidente sul rapporto di lavoro ex art. 2119 cod. civ. Difatti - argomentavano i Giudici del merito - «nel quadro di un'ampia e articolata valutazione della fattispecie concreta la Corte ha, in primo luogo, osservato come, nel lungo periodo compreso tra l'assunzione (nel 1996) e i fatti che hanno condotto all'intimazione del licenziamento, L.D. non avesse mai avuto comportamenti aggressivi e violenti né la datrice di lavoro gli avesse mai contestato di aver tenuto nei confronti dei colleghi o degli utenti condotte sconvenienti, prepotenti o litigiose mostrando una personalità irrispettosa e rissosa». La Corte di merito, a supporto della propria decisione, poneva le predette considerazioni in relazione alla funzione ricoperta dal dipendente di «capostazione», evidenziando come la società datrice «non fosse mai stata danneggiata da scelte incompatibili con il ruolo riconosciuto» al lavoratore e come le condotte penalmente rilevanti, per la loro iscrizione all'ambito strettamente privato e personale, non fossero idonee «a riversarsi sul diverso piano del rapporto di lavoro», non potendo così compromettere la fiducia del datore circa il suo futuro corretto svolgimento.
Contro tale pronuncia della Corte territoriale, la società proponeva ricorso per Cassazione, cui resisteva il dipendente con controricorso.
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte è stata, quindi, chiamata a valutare la sussistenza di una giusta causa di recesso con riferimento all'ipotesi di condanna penale riportata dal dipendente per maltrattamenti perpetrati ai propri familiari.
In particolare, la società datrice, con tre diversi motivi, censurava la sentenza impugnata per aver la Corte d'Appello errato nel circoscrivere alla sfera strettamente personale del lavoratore i fatti per i quali egli era stato condannato in sede penale, per aver omesso di valutare le specifiche mansioni di capostazione assegnategli e per non aver valutato il danno che da tale condotta era derivato alla Società.
La Suprema Corte rigetta il ricorso enunciando, anzitutto, il precetto per cui «la giusta causa di licenziamento, quale fatto che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro, è una nozione che la legge configura con una disposizione di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa (..). Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento del fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo (..) e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito».
In relazione a tale principio, la Suprema Corte - pur riconoscendo che «anche una condotta illecita extra-lavorativa del prestatore è suscettibile di rilievo disciplinare, e pertanto anche di dar luogo alla più grave delle sanzioni, poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta, ma anche a non porre in essere, fuori dell'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o da compromettere il rapporto fiduciario, comportamento il cui apprezzamento in concreto è rimesso al giudice di merito» - ritiene, con specifico riferimento alle caratteristiche del caso de quo, non ravvisabile una giusta causa di licenziamento, sul fondamentale assunto che, da un lato, le condotte penalmente rilevanti contestate al lavoratore si inserivano in un peculiare e temporaneo contesto familiare (una delicata fase di separazione coniugale), e che, dall'altro, la società datrice non aveva subito alcun pregiudizio, neppure d'immagine, per effetto delle stesse, tenuto anche conto della «portata esclusivamente locale delle notizie di stampa e la genericità dei riferimenti».

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