Contenzioso

Licenziamento per giusta causa

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

La comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo
Licenziamento per giusta causa
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Illiceità del distacco
Natura retributiva di contributo per le spese di viaggio


La comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo

Cass. Sez. Lav. 6 settembre 2018, n. 21718

Pres. Nobile; Rel. Marotta; P.M. Fresa; Ric. A.B.; Controric. F. S.r.l.;

Licenziamento Collettivo – Comunicazione di avvio della procedura – Omessa o erronea indicazione della collocazione aziendale di un dipendente – Irrilevanza ai fini del controllo sindacale – legittimità del licenziamento.

La comunicazione preventiva con cui il datore di lavoro avvia la procedura di licenziamento collettivo ha essenzialmente la finalità di consentire all'interlocutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale. Non ogni incompletezza o inesattezza di tale comunicazione comporta automaticamente la violazione dell'obbligo di trasparenza, essendo a tal fine necessario che sia stata limitata la funzione sindacale di controllo e che sussista un rapporto causale fra la carenza della lettera di apertura e la limitazione della controllo sindacale.
NOTA
Una casa di cura avviava una riorganizzazione aziendale finalizzata alla riduzione dei costi mediante l'esternalizzazione di tutti i servizi accessori e comunque estranei alle attività sanitarie (quali pulizie, amministrazione, cucina, manutenzione, accettazione, centralino ecc). La società indicava 48 esuberi complessivi, di cui tutto il personale «addetto ai servizi» e quello «amministrativo» e una parte del «personale addetto all'assistenza». Nella comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo venivano inoltre riportati i profili professionali, la collocazione aziendale (come ad esempio «ausiliari, impiegati amministrativi, addetti al centralino/telefonia, ecc.) e il livello di inquadramento di tutti i dipendenti. Dopo diversi incontri, veniva raggiunto un accordo sindacale che prevedeva il licenziamento, senza applicazione dei criteri di scelta, di tutti i lavoratori addetti ai «servizi/amministrazione» e, con applicazione dei criteri di scelta, di nove unità addette all'assistenza diretta dei pazienti.
Alcuni dipendenti impugnavano il licenziamento, deducendo che nella comunicazione di apertura della procedura collettiva il responsabile amministrativo fosse stato erroneamente collocato tra gli infermieri.
Il Tribunale di Roma, all'esito della fase a cognizione sommaria, rigettava le domande dei ricorrenti. L'ordinanza veniva riformata nella successiva fase di opposizione con condanna dell'impresa al pagamento dell'indennità risarcitoria di cui all'art. 18, co. 4 L. 300/1970 a favore dei ricorrenti. La Corte d'Appello di Roma, in sede di reclamo, rigettava le domande dei dipendenti, ritenendo che la comunicazione di avvio fosse sufficientemente specifica e completa in merito alle ragioni della programmata riorganizzazione e dei profili eccedenti e ciò, nonostante l'erronea indicazione della posizione rivestita dal responsabile amministrativo (rimasto poi in servizio), non avendo tale omissione impedito la proficua partecipazione alla cogestione della crisi da parte del sindacato che aveva poi stipulato un accordo sulla base della completa esternalizzazione delle funzioni di «servizio e amministrazione» in conseguenza della quale anche il responsabile amministrativo sarebbe stato licenziato.
Avverso tale decisione ricorreva in Cassazione un dipendente; il datore di lavoro resisteva con controricorso.
Tra gli altri motivi di ricorso si denunciava violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5 della legge 223/199 per aver la Corte territoriale ritenuto completa e conforme alle indicazioni legislative la comunicazione di apertura, nonostante l'omessa indicazione, tra gli addetti all'amministrazione, del responsabile amministrativo che, invece, era stato inserito nella graduatoria delle infermiere.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso principale, ritenendo infondato anche tale motivo.
Sul punto, è stato ribadito il principio di diritto (già affermato, tra le altre, in Cass. 5034/2009 e Cass. 7490/2015) secondo cui la comunicazione di apertura della procedura di licenziamento collettivo ha essenzialmente la finalità di consentire alle organizzazioni sindacali di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale, con la conseguenza che essa si può ritenere in contrasto con l'obbligo normativo di trasparenza quando: a) i dati comunicati dal datore di lavoro siano incompleti o inesatti; b) la funzione sindacale di controllo e valutazione sia stata limitata; c) sussista un rapporto causale fra l'indicata carenza e la limitazione della funzione sindacale.
La sufficienza dei relativi contenuti – prescritti dall'art. 4, co. 3, legge 223/1991 – deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, in relazione ai quali, il datore di lavoro può anche limitarsi all'indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, avuto riguardo alle unità addette al servizio esternalizzato, coinvolto dall'esigenza di riduzione di personale, senza che occorrano altre e più specifiche indicazioni.
In conclusione la Suprema Corte ha confermato che le lamentate omissioni o inesattezze della comunicazione preventiva non siano state tali da determinare una falsa o incompleta rappresentazione della realtà, tale da compromettere il corretto svolgimento dell'esame congiunto con il sindacato, e quindi, da incidere sulla legittimità dei licenziamenti.

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 13 settembre 2018, n. 22382

Pres. Nobile; Rel. Marotta; P.M. Mastroberardino; Ric. G.N.; Controric. D.M.O.G. s.p.a.;

Giusta causa - Reiterato abbandono del posto di lavoro - Tempo tuta autoassegnato - Rifiuto di adempiere alle disposizioni aziendali - Grave insubordinazione - Sussistenza

Il comportamento reiteratamente inadempiente del lavoratore - come l'abbandono per un'ora e mezzo del posto di lavoro, l'uscita dal lavoro in anticipo e la mancata osservanza delle disposizioni datoriali e delle prerogative gerarchiche - è contraddistinto da un costante e generale atteggiamento di sfida e di disprezzo nei confronti dei vari superiori gerarchici e della disciplina aziendale tale da far venir meno il permanere dell'indispensabile elemento fiduciario. In questo contesto l'insubordinazione si rende evidente dalla somma di tutti i comportamenti che possono essere tali da integrare una giusta causa di licenziamento.
NOTA
Con ricorso al Tribunale di Nocera Inferiore un lavoratore ha chiesto di accertarsi l'illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli per abbandono, in plurime occasioni, del posto di lavoro prima della fine del turno, successivo rifiuto di riprenderlo, nonostante espresso invito, nonché per la minaccia di “scatenare una guerra in azienda” rivolta in una di tali occasioni al capo reparto.
La domanda è stata parzialmente accolta, con condanna della società al pagamento dell'indennità risarcitoria quantificata in 18 mensilità - elevate a 24 in sede di opposizione - escludendosi la natura discriminatoria del recesso (invocata in ricorso) e ritenendosi il fatto addebitato sussistente, ma sanzionato in modo sproporzionato. A seguito di reclamo proposto da ambo le parti, la Corte d'appello di Salerno, in totale riforma della decisione del Tribunale, ha respinto l'originaria domanda, dichiarando la legittimità del recesso.
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione affidato a quattro motivi, tutti rigettati.
Con la decisione in commento la Suprema Corte definisce, ribadendo concetti già espressi (Cass. 30 marzo 2012, n. 5112 che afferma il principio di cui alla massima), che la nozione di insubordinazione va intesa in senso ampio e non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma implica anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l'esecuzione ed il corretto svolgimento di tali disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale (Cass. 27 marzo 2017, n. 7795; Cass. 11 maggio 2016, n. 9635; Cass. 2 luglio 1987, n. 5804; da ultimo Cass. 19 aprile 2018, n. 9736 con riferimento ad un rapporto di lavoro pubblico). Ciò che conta, dunque, ai fini della corretta individuazione di una condotta di insubordinazione, è l'aggancio al sinallagma contrattuale, nel senso che rilevano solo comportamenti suscettibili di incidere sull'esecuzione e sul regolare svolgimento della prestazione sotto il profilo dell'esattezza dell'adempimento e dell'ordine e della disciplina su cui si basa l'organizzazione complessiva dell'impresa, comportamenti che possono risultare anche da una somma di diverse condotte e non necessariamente da un singolo episodio.
Alla luce di tali principi viene ritenuta corretta la decisione della Corte territoriale, che ha ritenuto proporzionata la sanzione espulsiva, essendo essa conseguita non al semplice abbandono del posto di lavoro, ma alla grave insubordinazione dimostrata dal lavoratore attraverso il comportamento tenace ed ostinato di contrapposizione rispetto ai richiami datoriali.
La Suprema Corte ricorda, inoltre, che il lavoratore può chiedere giudizialmente l'accertamento della legittimità di un provvedimento datoriale che ritenga illegittimo, ma non è autorizzato a rifiutarsi aprioristicamente, e senza un eventuale avallo giudiziario, di eseguire la prestazione lavorativa richiesta, essendo tenuto ad osservare le disposizioni impartite dall'imprenditore, pertanto può legittimamente invocare l'eccezione di inadempimento solo nel caso in cui l'inadempimento datoriale sia totale (Cass. 19 gennaio 2016, n. 831; Cass. 26 settembre 2016, n. 18866). Sulla base di tale principio viene confermata la decisione di appello che aveva ritenuto illegittimo ed ingiustificato l'abbandono del posto di lavoro effettuato dal ricorrente in modo sistematico sul presupposto di un preteso, autoassegnato, “tempo tuta”, senza che vi fosse alcuna autorizzazione datoriale in tal senso ed in mancanza delle caratteristiche necessarie per potersi parlare di un uso o prassi aziendale.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 6 settembre 2018, n. 21715

Pres. Bronzini; Rel. Pagetta; P.M. Visonà; Ric. C.B.; Controric. B.A.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Giustificato motivo oggettivo - Repêchage - Sindacabilità da parte del giudice - Limiti - Impossibilità di reimpiego del lavoratore con altre mansioni - Prova - Onere a carico del datore di lavoro

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, compete al giudice - che non può, invece, sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'articolo 41 della Costituzione - il controllo in ordine all'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale il datore di lavoro ha l'onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte.
NOTA
Nel caso in esame, la Corte di appello, in riforma della sentenza di primo grado, annullava il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e ordinava la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro.
Per la Corte, la sola chiusura del cantiere cui il dipendente era addetto non era idonea a giustificare il recesso occorrendo la prova della totale mancanza di attività rientranti nell'oggetto sociale della società. Nel giudizio era inoltre emerso che la società avrebbe dovuto assumere 40 lavoratori a tempo determinato per lo svolgimento di attività manutentive (diverse rispetto a quelle per cui era stato assunto il lavoratore licenziato).
Avverso la sentenza della Corte di appello proponeva ricorso in Cassazione la Società contestando l'illogicità della motivazione relativa al mancato assolvimento dell'obbligo di repêchage.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso.
Per la Cassazione, la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo presuppone, da un lato, l'esigenza di soppressione di un posto di lavoro, dall'altro, l'impossibilità di diversa collocazione del lavoratore licenziato (repêchage), consideratane la professionalità raggiunta, in altra posizione lavorativa analoga a quella soppressa. Con riferimento a tale ultimo punto, il datore di lavoro ha l'onere di fornire la prova della veridicità di quanto allegato circa l'impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale.
Ciò posto, secondo la Suprema Corte l'ambito del sindacato giurisdizionale in tema di giustificato motivo oggettivo è limitato da una parte alla verifica dell'effettività delle ragioni tecniche, produttive e organizzative integranti il giustificato motivo oggettivo e dall'altra alla verifica dell'effettiva impossibilità di una collocazione alternativa del dipendente senza che tali considerazioni sfocino in una sostanziale valutazione delle scelte imprenditoriali, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'articolo 41 della Costituzione.
Con riferimento al caso in esame, per la Cassazione il parametro utilizzato dalla Corte di appello per verificare la possibile ricollocazione del dipendente si è posta in contrasto con il principio della libertà di iniziativa economica tutelata dall'articolo 41 della Costituzione. Non rileva, infatti, l'ipotetica possibilità di ricollocazione di un lavoratore in quanto astrattamente utilizzabile dal datore di lavoro ma è necessario che la verifica della possibilità di utile ricollocazione lavorativa tenga conto del concreto assetto organizzativo della società.

Illiceità del distacco

Cass. Sez. Lav. 12 settembre 2018, n. 22179

Pres. Di Cerbo; Rel. Ponterio; P.M. Fresa; Ric. B.L; C.P.; P.V.; I.C.; Controric. A.C. s.p.a.

Distacco - Illiceità - Sostituzione ex lege dell'effettivo utilizzatore delle prestazioni al datore di lavoro interposto - Licenziamento intimato dal distaccante/interposto - Inesistente

L'effetto di sostituzione ex lege dell'effettivo utilizzatore delle prestazioni al datore di lavoro interposto deve ritenersi operante anche nelle ipotesi di distacco realizzate in violazione del comma 1 dell'art. 30 del D.Lgs. n. 276/2003, con la conseguenza che l'eventuale licenziamento intimato dal datore di lavoro interposto deve considerarsi giuridicamente inesistente.
NOTA
Alcune lavoratrici - distaccate a lavorare presso un diversa società -, dopo aver ottenuto sentenza pronunciata ex art. 30, comma 4 bis, D.Lgs. n. 276/2003, con la quale era stata accertata l'illiceità del distacco, e l'esclusiva imputabilità del rapporto di lavoro intrattenuto con le stesse in capo al distaccatario, proponevano ricorso diretto ad ottenere l'annullamento del licenziamento intimato dalla società distaccante.
La Corte di appello rigettava i ricorsi, ritenendo che il rapporto di lavoro intercorso con la società distaccante dovesse ritenersi risolto ipso iure per effetto della succitata sentenza - pronunciata ai sensi dell'art. 30, comma 4 bis, D.Lgs. n. 276/2003 - e che, attesa l'unicità del rapporto di lavoro alle dipendenze della distaccataria, il licenziamento intimato dalla società distaccante dovesse considerarsi giuridicamente inesistente.
Le lavoratrici proponevano ricorso avverso la sentenza della Corte territoriale, fondato su cinque motivi.
Le ricorrenti sostenevano che, contrariamente alla regola di diritto enunciata dalla Corte territoriale, il rapporto di lavoro con la distaccante non dovesse considerarsi risolto ipso iure per effetto della sentenza emessa ai sensi dell'art. 30, comma 4 bis, D.Lgs. n. 276 del 2003, bensì a causa della costituzione del rapporto di lavoro con la distaccataria.
Le ricorrenti denunciavano, altresì, la violazione e falsa applicazione dell'art. 1362 c.c. e degli artt. 1 e 3, L. n. 604 del 1966, sostenendo che la Corte territoriale aveva malamente interpretato le comunicazioni inviate alle lavoratrici dalla società distaccante. Ed infatti, atteso che tali comunicazioni consideravano risolti i rapporti di lavoro per comportamento concludente delle dipendenti, e considerato inoltre che non esisteva una volontà delle stesse di risolvere il rapporto di lavoro con la distaccante, le comunicazioni de quibus non potevano che considerarsi alla stregua di atti di licenziamento.
Secondo quanto sostenuto dalle ricorrenti, inoltre, la Corte territoriale aveva errato nell'individuare un unico rapporto di lavoro alle dipendenze della distaccataria, non potendosi escludere la coesistenza di distinti rapporti di lavoro rispettivamente intercorrenti col distaccante e col distaccatario.
Le lavoratrici sostenevano, pertanto, che la Corte territoriale aveva erroneamente escluso l'illegittimità dei licenziamenti loro intimati dalla società distaccante, sebbene non sorretti da giusta causa e/o giustificato motivo.
La Suprema Corte rigettava il ricorso.
La Suprema Corte ha innanzitutto rilevato che la statuizione contenuta nella sentenza impugnata in ordine all'unicità del rapporto di lavoro delle ricorrenti, come facente capo unicamente alla distaccataria, per effetto della sentenza emessa su ricorso delle medesime lavoratrici, ai sensi dell'art. 30, comma 4 bis, D.Lgs. n. 276 del 2003, trova riscontro nella giurisprudenza unanime formatasi in materia di interposizione di manodopera, a cui vanno assimilate le ipotesi di somministrazione irregolare e di distacco illegittimo.
Ed infatti, le Sezioni Unite della Suprema Corte (cfr. Cass. S.U. 22 ottobre 2002, n. 14897), pronunciandosi sul versante processuale, e negando la configurabilità di un litisconsorzio necessario nel processo di accertamento dell'interposizione vietata, hanno osservato come la struttura del rapporto di lavoro subordinato, quale risulta dalla normativa sostanziale (art. 2094 c.c.), è bilaterale e non plurilaterale. Il lavoratore che, agendo in giudizio, afferma l'esistenza di un rapporto con un certo datore di lavoro e ne nega uno diverso con altra persona, non deduce in giudizio alcun rapporto plurisoggettivo, né alcuna situazione di contitolarità (vedi Cass., S.U. 21 marzo 1997, n. 2517) ma tende ad un'utilità (il petitum) ottenibile rivolgendosi ad una sola persona, ossia al vero datore di lavoro. L'accertamento negativo del rapporto fittizio con il datore di lavoro interposto - rapporto che per lo più è frutto di accordo simulatorio fra interponente e interposto -, costituisce oggetto di questione pregiudiziale, conosciuta dal Giudice in via soltanto incidentale (cfr. anche Cass. 29 luglio 2009, n. 17643).
I giudici di legittimità hanno ulteriormente precisato che in presenza di fenomeni di interposizione nelle prestazioni di lavoro, l'effettivo utilizzatore delle prestazioni lavorative si sostituisce all'interposto nell'unico rapporto di lavoro, cosicché l'eventuale licenziamento intimato da quest'ultimo deve considerarsi giuridicamente inesistente (cfr. Cass. 16 giugno 1998, n. 5995; Cass., SU, 21 marzo 1997, n. 2517).
La Suprema Corte ha, dunque, chiarito che l'effetto di sostituzione ex lege dell'effettivo utilizzatore delle prestazioni al datore di lavoro interposto deve ritenersi operante in relazione a tutti i fenomeni interpositori, sia nelle ipotesi di somministrazione avvenuta al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli artt. 20 e 21, comma 1, lett. a), b), c), d) ed e), D.Lgs. n. 276 del 2003 (applicabile ratione temporis), sia nelle ipotesi di distacco realizzato in violazione del comma 1, dell'art. 30 di cui al medesimo decreto legislativo.
Alla luce di tali principi, la Suprema Corte ha concluso affermando che le deduzioni delle ricorrenti tese a negare l'effetto estintivo ipso iure del loro rapporto di lavoro con la società distaccante, prodotto dalla sentenza del Tribunale di Roma pronunciata ai sensi dell'art. 30, comma 4 bis, D.Lgs. n. 276 del 2003, e a sostenere la necessità, ai fini della risoluzione del rapporto di lavoro con la distaccante, di una apposita manifestazione negoziale di volontà, in quanto prive di un substrato logico e giuridico, ed in totale contrasto con i principi enunciati dalla costante giurisprudenza di legittimità, non potevano trovare accoglimento.

Natura retributiva di contributo per le spese di viaggio

Cass. Sez. Lav. 13 settembre 2018, n. 22387

Pres. Manna; Rel. Bellé; P.M. Visonà; Ric.V.G.; Controric. I.S. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Retribuzione - Reiterato e costante pagamento - Natura retributiva - Presunzione - Configurabilità - Fattispecie.

Le erogazioni di cui si assume la natura indebita, che si inseriscono nell'ambito di un rapporto di durata, assumono conformazione identica a quella delle obbligazioni pecuniarie tipiche di esso, per cui, conformemente ad un principio più generale, la corresponsione continuativa di un emolumento al dipendente è generalmente sufficiente a farlo considerare, salvo prova contraria, come elemento della retribuzione.
NOTA
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla natura (retributiva o meno) dell'erogazione di un contributo mensile per le spese di viaggio, che il datore di lavoro aveva riconosciuto ad un proprio dipendente in ragione di un distacco presso altra sede dell'impresa, ma che aveva continuato a corrispondere anche dopo la cessazione del distacco e fino alla fine del rapporto di lavoro.
In particolare, il lavoratore adiva il giudice di merito chiedendo che si tenesse conto di tale emolumento continuativo nel calcolo del trattamento di fine rapporto e nella determinazione della pensione integrativa aziendale.
La Corte d'Appello di Torino, in riforma della sentenza di primo grado, respingeva le richieste del lavoratore, accogliendo invece la domanda riconvenzionale formulata dal datore di lavoro e volta alla restituzione dei pagamenti mensilmente eseguiti, in quanto indebiti. Nello specifico, la Corte d'Appello rilevava che il pacifico venir meno della causa originaria del pagamento rendeva di per sé fondata l'azione di ripetizione dell'indebito, spettando al lavoratore dimostrare, al contrario, il sopravvenire di un nuovo titolo che giustificasse le erogazioni, prova che non poteva ritenersi raggiunta.
La Corte di Cassazione, adita dal lavoratore, ha accolto il ricorso, deducendo che era pacifico, nel caso di specie, che la causa originaria del pagamento era venuta meno addirittura da diversi anni e che ciò non poteva comportare, tuttavia, che per i pagamenti intervenuti successivamente spettasse al lavoratore dimostrare una diversa causa debendi.
Il principio applicato dal giudice di merito, prosegue la Corte, mal si adatta, infatti, al caso di specie, in cui i presunti indebiti emolumenti si inseriscono nell'ambito di un rapporto di durata. In tale ipotesi si deve quindi presumere la natura retributiva del reiterato e costante pagamento, spettando al datore di lavoro, al contrario, dimostrare l'insussistenza di tale natura.
Tale affermazione, secondo la Cassazione, appare del resto coerente con il parallelo e più generale principio secondo cui la corresponsione continuativa di un assegno al dipendente è generalmente sufficiente a farlo considerare, salvo prova contraria, come elemento della retribuzione (Cass. n. 7154/2003).
In conclusione, la Corte di legittimità ha affermato il principio secondo cui va presunta la natura retributiva di un reiterato e costante pagamento che si verifichi nell'ambito di un rapporto di lavoro, spettando invece al solvens (cioè a colui che paga) dimostrare l'insussistenza di essa. Per tali motivi, la Corte ha cassato con rinvio la sentenza impugnata.

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