Contenzioso

La condotta illecita consapevole vale il licenziamento

di Giulia Bifano e Massimiliano Biolchini

Il fatto che la condotta illecita sia stata tenuta dal dipendente in esecuzione di un ordine impartito da un superiore gerarchico non vale a far venire meno la giusta causa di licenziamento, se il lavoratore era in grado di comprendere l'illegittimità dell'ordine ricevuto. Lo ha chiarito la Corte di cassazione con la sentenza 23600/2018, decidendo sul ricorso proposto da una società che si era vista condannata alla reintegra nel posto di lavoro di un dipendente che, licenziato per avere contabilizzato di alcuni lavori non eseguiti, aveva addotto a giustificazione del proprio illecito di avere ricevuto un ordine in tal senso dal proprio superiore gerarchico nell'ambito di una riunione a cui avevano partecipato altri colleghi.

In sede di merito, le corti territoriali avevano accolto il ricorso del lavoratore, rilevando come l'errata contabilizzazione di lavori non eseguiti fosse conseguita a un ordine impartito dal superiore al fine di inserire alcuni metri di tubature lineari all'interno della cartografia aziendale e nel patrimonio della stessa, in quanto unica possibilità di aggiornamento tardivo di queste informazioni che non erano state registrate al tempo dell'effettiva esecuzione dei lavori di ristrutturazione.

Alla luce di queste circostanze, la Corte d'appello di Roma confermava l'illegittimità del licenziamento rilevata in sede di primo grado, rilevando come le circostanze sottese alla condotta del dipendente valessero a rivelare l'assenza di colpa o dolo da parte di quest'ultimo, che si era invece limitato a eseguire alcune direttive del superiore senza qualsivoglia intento di danneggiare il datore di lavoro.

Investita della questione, la Corte di cassazione ha anzitutto ribadito l'inapplicabilità ai rapporti tra soggetti privati dell'articolo 51 del codice penale, che scrimina la condotta di chi commette fatti illeciti nell'esecuzione di un ordine ricevuto dalla pubblica autorità: neppure nell'ambito di un rapporto di lavoro, infatti, sussiste un rapporto di supremazia, inteso quale potere superiore conferito dalla legge in capo ad un soggetto nei confronti di un altro. Pertanto, ha proseguito la corte nell'accogliere il ricorso del datore di lavoro, quello che le corti di merito avrebbero dovuto indagare non era il solo rapporto gerarchico tra chi aveva dato e ricevuto un ordine, quanto anche il grado di divergenza dello stesso ordine rispetto ai principi e ai vincoli dell'ordinamento e il fatto che lo stesso fosse o meno conosciuto e conoscibile dal dipendente.

Nel caso specifico, hanno osservato i giudici di legittimità, il lavoratore era evidentemente in grado di riconoscere autonomamente la natura illegittima della condotta richiestagli dal superiore e, pertanto, avrebbe potuto (e dovuto) porre a tale richiesta un rifiuto, o quantomeno un ostacolo. A nulla in questo senso rileva il fatto che non vi fosse una procedura alternativa idonea a consentire l'aggiornamento tardivo della cartografia e del patrimonio aziendali in quanto, sottolinea la Corte, l'intervento umano può modificare il funzionamento delle tecnologie informatiche preposte a tali tipi di registrazioni. Ben avrebbe potuto il dipendente, dunque, suggerire un intervento sui dispositivi tecnologici aziendali piuttosto che ottemperare a un ordine avente natura illecita.

È confermato dunque il licenziamento per giusta causa comminato al lavoratore, sul quale infatti la società non può essere effettivamente in grado di riporre fiducia per il corretto adempimento delle proprie prestazioni, essendosi quest'ultimo «posto supinamente, ove anche non intenzionalmente, in condizioni di violare in modo ripetuto i doveri di diligenza e fedeltà», violando le procedure definite dal datore di lavoro allo scopo di dare seguito ad un ordine al quale, invece, avrebbe dovuto opporre un legittimo rifiuto.

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