Contenzioso

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Infortunio e responsabilità del datore di lavoro
Illegittimo il licenziamento basato su fatti già contestati
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Sanzione disciplinare e immediatezza della contestazione
Appalto di servizi e intermediazione di manodopera


Infortunio e responsabilità del datore di lavoro

Cass. Sez. Lav. 24 ottobre 2018, n. 27034

Pres. Bronzini; Rel. Patti; P.M. Sanlorenzo; Ric. T. S.p.a.; Controric. B.L.;

Lavoro subordinato - Infortunio sul lavoro - Responsabilità del datore di lavoro - Limiti - Comportamento colposo del lavoratore - Esclusione della responsabilità del datore di lavoro - Condizioni - Abnormità ed imprevedibilità della condotta del lavoratore - Necessità - Fattispecie.

In materia di tutela dell'integrità fisica del lavoratore, il datore di lavoro è esonerato da responsabilità soltanto quando la condotta del dipendente abbia assunto i caratteri dell'abnormità, dell'imprevedibilità e dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo “tipico” ed alle direttive ricevute. Ne consegue che, qualora non ricorrano detti caratteri, l'imprenditore è integralmente responsabile dell'infortunio che sia conseguenza dell'inosservanza delle norme antinfortunistiche, non rilevando in alcun grado il concorso di colpa del lavoratore.
NOTA
Il caso di specie riguarda un infortunio occorso a un dipendente durante lo svolgimento della propria attività lavorativa, consistente, nello specifico, nello scivolamento da una passerella di accesso ad un rimorchiatore.
La Corte d'Appello di Trieste, confermando la sentenza di primo grado, aveva riconosciuto la responsabilità esclusiva della società datrice di lavoro con riferimento all'infortunio de quo, condannandola, quindi, al risarcimento del danno biologico e morale subito dal lavoratore.
Nello specifico, la Corte di merito escludeva un qualsiasi concorso di colpa del lavoratore, ritenendo invece che la datrice di lavoro non avesse adottato le necessarie misure di sicurezza.
La Corte di Cassazione, adita dalla società datrice di lavoro, ha rigettato il ricorso, rilevando innanzitutto che, ai sensi dell'art. 2087 c.c., il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, anche qualora esso sia ascrivibile non soltanto ad una disattenzione, ma anche ad imperizia, negligenza e imprudenza di quest'ultimo. Il datore di lavoro può essere, infatti, totalmente esonerato da ogni responsabilità solo laddove il comportamento del lavoratore assuma caratteri di abnormità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo “tipico” ed alle direttive ricevute, in modo da porsi quale causa esclusiva dell'evento, così integrando il cd. “rischio elettivo”, ossia una condotta del lavoratore esercitata e intrapresa volontariamente in base a ragioni e motivazioni del tutto personali, al di fuori dell'attività lavorativa e prescindendo da essa, e come tale idonea ad interrompere il nesso eziologico tra prestazione lavorativa ed attività assicurata (cfr. da ultimo Cass. n. 10319/2017).
Qualora detti caratteri non ricorrano, l'imprenditore è invece integralmente responsabile dell'infortunio che dipenda dall'inosservanza delle norme antinfortunistiche, poiché in tal caso la violazione dell'obbligo di sicurezza integra l'unico fattore causale dell'evento, non rilevando in alcun grado il concorso di colpa del lavoratore, posto che il datore di lavoro è tenuto a proteggerne l'incolumità nonostante la sua imprudenza e negligenza (cfr. ex plurimis Cass. n. 27127/2013).
Ed infatti, prosegue la Corte, le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente corretto uso da parte del dipendente.
Ciò premesso, la Corte ha rilevato che tali principi sono stati correttamente applicati dalla Corte di merito, che ha ritenuto di escludere un concorso di colpa del lavoratore sulla base di una valutazione delle risultanze istruttorie ed un accertamento in fatto adeguatamente motivato e, come tale, insindacabile in sede di legittimità.
Per tali motivi, la Corte di Cassazione, come anticipato, ha concluso per il rigetto del ricorso.

Illegittimo il licenziamento basato su fatti già contestati

Cass. Sez. Lav. 23 ottobre 2018, n. 26815

Pres. Patti; Rel. Marchese; P.M. Fresa; Ric. B.C.; Controric. S.E.

Lavoro subordinato - Esercizio del potere disciplinare per determinati fatti – Seconda contestazione per gli stessi fatti - Divieto - Precedenti inadempimenti rilevanti a fini disciplinari - Considerazione - Ammissibilità - Condizioni - Fattispecie

L'esercizio del potere disciplinare in relazione alla condotta complessiva contestata al lavoratore (abituale e reiterata) impedisce di sanzionare successivamente i segmenti costitutivi di quella condotta, ovvero quelli che integrano l'abitualità e la reiterazione, sia pure quando, singolarmente considerati, costituiscano essi stessi inadempimento rilevante sul piano disciplinare. In ipotesi siffatte trova applicazione il divieto di esercitare due volte il potere disciplinare per un stesso fatto, sotto il profilo di una sua diversa valutazione o configurazione giuridica.
NOTA
La Corte di appello respingeva il reclamo proposto dalla società avverso la sentenza del Tribunale che dichiarava la nullità del recesso.
Per la Corte, infatti, il licenziamento del lavoratore si era fondato su fatti precedentemente contestati dalla società (e che avevano già portato al licenziamento del lavoratore, poi annullato dal Tribunale), con la conseguenza che il potere disciplinare doveva intendersi già consumato. In concreto, la prima contestazione aveva riguardato l'abituale condotta del lavoratore di incaricare i colleghi di fare la spesa per suo conto, durante l'orario di servizio, ovvero di timbrare la sua presenza in ufficio nonostante l'assenza. La nuova contestazione, faceva riferimento a comportamenti meramente esplicativi di quella abitualità originariamente addebitata; per la Corte si trattava dei medesimi fatti.
Avverso la sentenza della Corte di appello ha proposto ricorso la società ma la Cassazione ha rigettato il ricorso.
Ed infatti, aderendo al consolidato orientamento giurisprudenziale sul punto, per la Suprema Corte, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, la società non può esercitare una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere, ormai consumato, essendogli consentito soltanto di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva, nonché dei fatti non tempestivamente contestati o contestati ma non sanzionati - ove siano stati unificati con quelli ritualmente contestati - ai fini della globale valutazione, anche sotto il profilo psicologico, del comportamento del lavoratore e della gravità degli specifici episodi addebitati.
Per la Cassazione, la Corte di appello avrebbe correttamente accertato che i fatti oggetto della seconda contestazione, altro non erano che mere specificazioni di quelle condotte abituali già enunciate nella prima contestazione.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 13 novembre 2018, n. 29165

Pres. Di Cerbo; Rel. Balestrieri; P.M. Celeste; Ric. C.V.S; Controric. P.C.D.P soc coop.;

Giustificato motivo oggettivo - Obbligo di repechage in mansioni inferiori - Sussistenza solo in caso di mansioni promiscue - Onere prova repechage - dovere di cooperazione del lavoratore nell'allegazione di posti disponibili - Insussistenza
In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo per soppressione del posto di lavoro cui era addetto il dipendente, solo qualora questi svolgeva ordinariamente in modo promiscuo mansioni inferiori, oltre quelle soppresse, sussiste a carico del datore di lavoro l'obbligo di repechage anche in ordine a mansioni inferiori.
NOTA
Il Tribunale di Lodi ha dichiarato illegittimo sia il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad una lavoratrice per soppressione del posto sia il licenziamento per giusta causa successivamente intimatole durante il periodo di preavviso, condannando la società alla reintegra ed al risarcimento del danno. Secondo il primo giudice, nonostante fosse stata accertata la soppressione della posizione lavorativa occupata, non era stato rispettato il principio di buona fede nella scelta della lavoratrice, essendovi altra dipendente che svolgeva mansioni del tutto sovrapponibili presso altra struttura che aveva minore anzianità di servizio e minori carichi di famiglia. Quanto al licenziamento per giusta causa il Tribunale riteneva non provati gli addebiti mossi alla lavoratrice. La Corte d'Appello di Milano, in parziale riforma della sentenza impugnata, ha dichiarato l'illegittimità del solo licenziamento per giusta causa, respingendo per il resto l'originaria domanda.
Avverso tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso per Cassazione affidato a tre motivi, cui ha resistito la società proponendo anche ricorso incidentale.
Con il principio di cui alla massima - riferito ad una fattispecie ante riforma dell'art 2103 c.c. - la Suprema Corte riprende alcuni precedenti (Cass. 26 maggio 2017, n.13379) discostandosi, tuttavia, in parte, da altre pronunzie in cui si è affermato che in caso di licenziamento per GMO, il lavoratore è tenuto ad allegare l'esistenza di altri posti di lavoro presso cui poter essere ricollocato, inclusi quelli determinanti una dequalificazione manifestando la disponibilità a ricoprire questi ultimi, gravando poi sul datore l'onere di provare l'impossibilità di assegnarlo a mansioni diverse (Cass. 16 maggio 2016, n.10018). L'opinione attualmente prevalente ritiene, infatti, che, prima di intimare il licenziamento, grava sempre sul datore di lavoro - a prescindere dalle mansioni svolte - l'obbligo di ricercare possibili soluzioni alternative anche fra le mansioni inferiori e di rappresentare al prestatore il demansionamento, divenendo l'imprenditore libero di recedere dal rapporto solo qualora la soluzione alternativa non sia stata accettata. La positiva volontà del lavoratore continua a rappresentare, pertanto, un presupposto essenziale della sua legittima adibizione a mansioni inferiori; nondimeno, viola l'obbligo di repêchage il datore di lavoro che manchi di attivarsi nella ricerca di mansioni, anche inferiori, cui adibire il lavoratore, con conseguente illegittimità del licenziamento intimato per motivo oggettivo (Cass. 11 novembre 2016, n. 22798).
Nella sentenza la Cassazione coglie, inoltre, l'occasione per ribadire altri principi in tema di GMO, ricordando che quando la ragione del recesso consiste nella soppressione di uno specifico servizio e non si identifica nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, il nesso causale tra detta ragione e la soppressione del posto di lavoro è idoneo di per sé a individuare il personale da licenziare, senza che si renda necessaria la comparazione con altri lavoratori dell'azienda (Cass. 27 ottobre 2017, n. 25653). Parimenti, in tema di ripartizione degli oneri probatori sul repechage, aderendo all'impostazione assunta da ultimo, la Cassazione precisa che non sussiste un onere di allegazione da parte del lavoratore circa altre posizioni lavorative utili e disponibili, gravando esso interamente sul datore di lavoro (Cass. 22 marzo 2016, n. 5592; Cass. 13 giugno 2016, n.12101; Cass. 20 ottobre 2017, n.24882).
In accoglimento del motivo inerente tale ultimo aspetto la sentenza viene cassata con rinvio, avendo la Corte d'Appello deciso la controversia valorizzando, in contrasto con il predetto principio, la mancanza di allegazioni da parte della lavoratrice di altre utili posizioni di lavoro in azienda.

Sanzione disciplinare e immediatezza della contestazione

Cass. Sez. Lav. 16 novembre 2018, n. 29627

Pres. Napoletano; Rel. Curcio; P.M. Mastroberardino; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. D.D.C.

Sanzione disciplinare – Contestazione degli addebiti – Tempestività – Conoscenza dei fatti – Dichiarazione confessoria del lavoratore – Illegittimità

Il requisito dell'immediatezza della contestazione è posto a tutela del lavoratore ed ha la finalità di consentire una difesa adeguata in relazione agli addebiti contestati. Lo svolgimento di più approfondite indagini da parte del datore di lavoro sui fatti passibili di responsabilità disciplinare non ostacola la difesa effettiva del lavoratore, ma il datore di lavoro deve contestare i fatti addebitati al dipendente non appena ne venga a conoscenza e gli stessi appaiano ragionevolmente sussistenti.
NOTA
La Corte di Appello di Brescia confermava la sentenza del giudice di primo grado, che aveva respinto la domanda formulata dalla società datrice di lavoro, diretta ad ottenere la declaratoria di legittimità della sanzione disciplinare della multa di quattro ore inflitta alla dipendente.
La Corte territoriale, confermando l'iter argomentativo del giudice di prime cure, riteneva tardiva la contestazione disciplinare adottata dalla società datrice di lavoro, in ragione del tempo trascorso - oltre tre mesi - dalla conoscenza dei fatti sostanzialmente ammessi dalla lavoratrice in sede di indagini, escludendo che nel caso di specie potessero ravvisarsi esigenze istruttorie in relazione ai fatti contestati, in ragione sia delle dichiarazioni confessorie rese dalla dipendente, sia dell'assenza di qualsiasi ulteriore indagine effettuata da parte della società.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società datrice, affidato a tre motivi.
In particolare, la società ricorrente deduceva la violazione dell'art. 113 c.p.c., degli artt. 1418 e 2106 c.c., nonché dell'art. 7 legge n. 300/1970, sostenendo che nessuna di tali disposizioni di legge stabilisce il dies a quo ed il dies ad quem da osservare nell'adozione dell'atto di contestazione, né sancisce una qualche forma di invalidità per il mero decorso del tempo, con la conseguenza che doveva ritenersi erronea la sentenza impugnata nella parte in cui aveva dichiarato invalida la sanzione comminata alla lavoratrice per la violazione del canone della tempestività.
La società ricorrente deduceva, inoltre, che contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di appello, il semplice ritardo nell'esercizio di un proprio diritto, non finalizzato a produrre un danno alla controparte, non poteva ritenersi idoneo ad integrare una violazione dei principi di correttezza e buona fede.
La Suprema Corte rigettava il ricorso.
La Suprema Corte ha innanzitutto premesso che il potere disciplinare deve essere esercitato nell'osservanza dei canoni di correttezza e buona fede, nonché nel rispetto di alcuni presupposti imprescindibili che lo legittimano, quali l'immutabilità della contestazione e la sua tempestività.
La Suprema Corte ha altresì rilevato (cfr. per tutte Cass. 8 giugno 2009, n. 13167) che il requisito dell'immediatezza della contestazione è posto a tutela del lavoratore, ed ha la finalità di consentire una difesa adeguata in relazione agli addebiti contestati, nonchè di tutelare il legittimo affidamento del medesimo dipendente - in presenza di un ritardo nella contestazione -, sulla mancanza di rilievo disciplinare attribuito dal datore alla condotta inadempiente.
Uno dei fondamenti del principio di immediatezza della contestazione disciplinare è costituito dal rispetto del concreto esercizio del diritto di difesa del lavoratore; sicché più approfondite indagini del datore di lavoro sui fatti passibili di responsabilità disciplinare non contraddicono tale esercizio, anzi lo rafforzano, ma il datore di lavoro deve contestare i fatti addebitati al dipendente non appena ne venga a conoscenza e gli stessi appaiano ragionevolmente sussistenti (così, da ultimo, cfr. anche Cass. 29 marzo 2018, n.7839).
Conseguentemente, il ritardo nella contestazione degli addebiti può costituire un vizio del procedimento disciplinare solo ove sia tale da determinare un ostacolo alla difesa effettiva del lavoratore, tenendo anche conto che il prudente indugio del datore di lavoro, ossia la ponderata e responsabile valutazione dei fatti, può e deve precedere la contestazione anche nell'interesse del prestatore di lavoro, che sarebbe palesemente colpito da incolpazioni avventate, o comunque non sorrette da una sufficiente certezza, da parte del datore di lavoro (Cass. 3 maggio 2017, n. 10688; Cass. 18 gennaio 2007, n. 1101; Cass. 11 gennaio 2006, n. 241; Cass. 22 aprile 2000, n. 5308).
Con specifico riferimento al caso di specie la Suprema Corte ha rilevato che la Corte territoriale si è attenuta a tali principi laddove, con motivazione incensurabile sia nel merito che sotto il profilo della coerenza logica, ha ritenuto intempestiva la contestazione disciplinare adottata dalla società datrice ad oltre tre mesi di distanza di tempo dalla conoscenza dei fatti - acquisita anche grazie alle dichiarazioni confessorie rese dalla lavoratrice -, tenuto conto peraltro che il tempo trascorso non era neppure giustificato dalla necessità di svolgere ulteriori indagini.

Appalto di servizi e intermediazione di manodopera

Cass. Sez. Lav. 16 novembre 2018, n. 29628

Pres. Nobile; Rel. Curcio; P.M. Patrone; Ric. T. S.p.A.; Controric. F.G. e F.G.;

Appalto di servizi endoaziendale – Intermediazione di manodopera – Criteri distintivi – Svolgimento di attività non rientranti nell'oggetto dell'Appalto – Rilevanza – Condizione – Imputabilità nei confronti del committente.

Per affermarsi la natura fraudolenta dell'appalto non è sufficiente che il personale del committente impartisca ordini al personale dell'appaltatrice e che quest'ultima tolleri lo svolgimento di mansioni diverse da quelle oggetto dell'appalto (nel caso di specie, attività di manutenzione anziché di pulizia), essendo necessaria una manifestazione di volontà dei competenti organi del committente o comunque la conoscenza e l'accettazione implicita da parte di quest'ultimo dello svolgimento di attività diverse da quelle appaltate.
NOTA
Alcuni dipendenti di imprese appaltatrici convenivano in giudizio avanti al Tribunale di Pisa il relativo committente al fine di ottenere l'imputazione del proprio rapporto di lavoro nei confronti di quest'ultimo, previo accertamento dell'illiceità dei contratti di appalto aventi ad oggetto servizi di pulizia.
Il Tribunale riteneva non raggiunta la prova dell'interposizione di manodopera, in quanto i ricorrenti risultavano essere sempre stati diretti dai responsabili delle appaltatrici.
La Corte d'Appello di Firenze, in riforma di tale pronuncia, riteneva non genuini i contratti di appalto per la cui esecuzione erano stati impiegati i ricorrenti, accertando i rapporti di lavoro direttamente in capo al committente, con conseguente condanna alla regolarizzazione dei rapporti a fini sia retributivi, sia contributivi. Secondo i giudici di appello dall'istruttoria svolta era emersa la prova che i ricorrenti fossero stati adibiti non già ad attività di mera pulizia, come previsto nei relativi contratti di appalto, bensì di manutenzione, in ausilio ai dipendenti del committente addetti a tale attività, i quali ne dirigevano regolarmente la prestazione, mentre i responsabili delle appaltatrici si limitavano a ricevere le richieste di presenza al lavoro dei ricorrenti nei vari luoghi ove andava svolta la suddetta attività manutentiva.
Avverso tale decisione il committente ricorreva in Cassazione; i lavoratori resistevano con controricorso.
Con l'unico motivo di ricorso non considerato inammissibile, il committente lamentava, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., l'omesso esame di una circostanza pacifica per il fatto che la Corte distrettuale non avrebbe dato alcun rilievo all'oggetto dell'appalto nonché omesso di verificare da chi provenissero le direttive che avevano determinato lo svolgimento di attività diverse da quelle appaltate.
La Suprema Corte, anzitutto, ha ribadito il principio di diritto (già affermato in Cass. 8863/2014 e Cass. 9139/2018) secondo cui al fine di accertare la non genuinità di un contratto di appalto non è sufficiente che il personale dell'appaltatore svolga attività diverse da quelle appaltate, essendo necessario che tale circostanza sia imputabile all'impresa committente in quanto conseguente alla manifestazione di volontà dei rispettivi organi competenti ovvero dalla stessa conosciuta ed accettata, anche solo implicitamente.
Ciò posto, la Corte ha rigettato il ricorso avendo escluso che nel caso di specie si fosse in presenza di un vizio di omesso esame, atteso che i giudici di merito, alla luce delle risultanze istruttorie, hanno ritenuto che i lavoratori ricorrenti avessero svolto attività di manutenzione, diversa da quella di pulizia oggetto dei contratti di appalto, ricevendo le direttive dai dipendenti del committente addetti a tale attività e senza alcun intervento delle ditte appaltatrice. Lo svolgimento di attività non oggetto dell'appalto è stato imputato alla volontà negoziale del committente in ragione del fatto che il costante utilizzo del personale delle appaltatrici con le modalità sopra descritte aveva, di fatto, comportato che l'oggetto dell'appalto era divenuto la mera forza lavoro utile ad integrare i lavoratori addetti all'attività manutentiva.

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