Contenzioso

Rassegna di giurisprudenza

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento collettivo e criteri di scelta
Appalto e infortunio sul lavoro
Danno da malattia professionale
Forma della contestazione disciplinare
Sullo svolgimento di altra attività lavorativa durante la malattia


Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 19 marzo 2019, n. 7642

Pres. Napoletano; Rel. Marchese; P.M. Celentano; Ric. I.C. e E.E; Controric. S.S. S.r.l.;

Licenziamento collettivo – Soppressione o riduzione dell'attività di un determinato reparto – Ambito di applicazione dei criteri di scelta – Fungibilità delle mansioni – Violazione dei criteri di scelta – Prova dell'effettivo pregiudizio derivante dalla violazione – Necessità – Interesse ad agire.

In tema di licenziamento collettivo, quando la riduzione di personale si riferisce in modo esclusivo ad un reparto o settore specifico, la platea dei lavoratori interessati può essere limitata ai soli addetti al settore soppresso o ridotto, esclusivamente sulla base di oggettive esigenze aziendali, coerenti con il progetto di ristrutturazione aziendale. Di conseguenza, non può essere ritenuta legittima la scelta dei soli lavoratori nel reparto soppresso o ridotto, quando questi siano in possesso di professionalità equivalente a quella degli addetti ad altre unità organizzative.
L'annullamento del licenziamento irrogato al termine di una procedura collettiva per violazione dei criteri di scelta non può essere domandato indistintamente da tutti i lavoratori licenziati, ma soltanto da coloro che abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della lamentata violazione, perché avente rilievo determinante rispetto al licenziamento.
NOTA
Due dipendenti agivano avanti al Tribunale di Nocera Inferiore per sentir accertare l'illegittimità dei recessi intimati nell'ambito di una procedura di licenziamento collettivo, connessa ad un programma di riconversione industriale che aveva comportato, tra l'altro, la soppressione dell'attività di alcune specifiche aree produttive. A sostegno della domanda di reintegrazione i ricorrenti deducevano la violazione dei criteri di scelta, per aver il datore di lavoro erroneamente attribuito un peso preponderante al criterio delle esigenze tecniche, produttive ed organizzative.
Il Tribunale, sia nella fase sommaria, sia in quella di opposizione, accoglieva i ricorsi dei lavoratori.
La Corte d'Appello di Salerno, in accoglimento del reclamo della società, escludeva invece che fosse stato dato un peso disomogeneo ai criteri di cui all'art. 5 della legge 223/1991. Sul punto, sottolineava che il datore di lavoro, proprio al fine di evitare di selezionare i soli lavoratori impiegati nei reparti da sopprimere, avesse valutato il criterio tecnico-produttivo sulla base di quattro sottocriteri (a. presenza; b. posizioni dichiarate in esubero; c. polivalenza; d. provenienza da attività precedentemente dismesse). In ogni caso, i lavoratori non avevano dedotto che, in mancanza della lamentata violazione dei criteri di scelta, non sarebbero stati licenziati.
Avverso la sentenza di appello i dipendenti ricorrevano in Cassazione; la società resisteva con controricorso.
I ricorrenti lamentavano che la Corte territoriale avesse eluso il principio secondo cui, quando i dipendenti sono in possesso di professionalità equivalenti, la riduzione di personale deve investire l'intero ambito aziendale, non potendo essere limitata ai soli dipendenti dei reparti in esubero. In particolare, ad avviso dei lavoratori, era stato erroneamente sottovalutato il peso attributo ai parametri delle «posizioni dichiarate in esuberi» e della «provenienza da attività dismesse negli ultimi due anni» che, di fatto, pur a parità di professionalità, finivano per privilegiare i lavoratori addetti ai reparti non soppressi.
La Corte Suprema ha anzitutto ribadito il principio di diritto (già affermato, tra le altre, in Cass. 203/2015) secondo cui è illegittima la scelta dei soli lavoratori addetti al reparto soppresso o ridotto, quando questi siano in possesso di professionalità equivalente a quella degli addetti alle altre unità organizzative.
Il ricorso è stato comunque rigettato in forza del rilievo assorbente della mancata deduzione da parte dei ricorrenti che proprio la lamentata violazione dei criteri di scelta aveva determinato la loro inclusione tra lavoratori da licenziare. Ed infatti, come già affermato da altre pronunce, l'annullamento del licenziamento per violazione dei criteri di scelta può essere domandato soltanto dai lavoratori che vi abbiano interesse, per aver subito in concreto un pregiudizio in conseguenza della lamentata violazione, vale a dire solo dai dipendenti che deducono che in caso di corretta applicazione dei criteri di scelta avrebbero conservato il rapporto di lavoro.

Appalto e infortunio sul lavoro

Cass. Sez. Lav. 25 febbraio 2019, n. 5419

Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich; Ric. S.B.; Controric. A.

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Infortunio sul lavoro - Dipendente d'impresa appaltatrice - Responsabilità del committente, del datore di lavoro e dei dipendenti del datore di lavoro - Configurabilità

In tema di infortuni sul lavoro, l'art. 2087 cod. civ., espressione del principio del "neminem laedere" per l'imprenditore e l'art. 7 del d.lgs 19 settembre 1994 n. 626, che disciplina l'affidamento di lavori in appalto all'interno dell'azienda, prevedono l'obbligo per il committente, nella cui disponibilità permane l'ambiente di lavoro, di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità e la salute dei lavoratori, ancorché dipendenti dall'impresa appaltatrice. Pertanto l'omissione di cautele da parte dei lavoratori non è idonea ad escludere il nesso causale rispetto alla condotta colposa del committente che non abbia provveduto all'adozione di tutte le misure di prevenzione rese necessarie dalle condizioni concrete di svolgimento del lavoro, non essendo né imprevedibile né anomala una dimenticanza dei lavoratori nell'adozione di tutte le cautele necessarie, con conseguente esclusione, in tale ipotesi, del cd. rischio elettivo, idoneo ad interrompere il nesso causale ma ravvisabile solo quando l'attività non sia in rapporto con lo svolgimento del lavoro o sia esorbitante dai limiti di esso.
NOTA
La Corte di appello in riforma della pronuncia del Tribunale accoglieva la domanda proposta dal lavoratore e condannava, in solido tra loro, la società datrice di lavoro (appaltatore) e la società committente, al pagamento di una somma a titolo di danno non patrimoniale differenziale per l'infortunio subito dal lavoratore (prima dell'entrata in vigore del T.U. del 2008) durante l'esecuzione delle proprie mansioni.
La Corte distrettuale accertava la responsabilità, ex art. 2087 c.c. della società datrice di lavoro e della società committente rilevando che il sinistro non era stato determinato da alcuna manovra maldestra del dipendente bensì da un difetto di manutenzione della macchina e dall'omessa vigilanza del datore di lavoro e della società proprietaria dei locali.
Avverso la sentenza proponeva ricorso in Cassazione la società ma la Suprema Corte lo ha rigettato.
Secondo la Cassazione va preliminarmente chiarito che nel caso in esame anche la società committente era onerata dell'obbligo di sicurezza di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7 e all'art. 2087 c.c. nei confronti di tutti i lavoratori che operavano all'interno dei suoi locali. Ed infatti, ai sensi del summenzionato decreto legislativo che disciplina l'affidamento di lavori in appalto all'interno dell'azienda, il committente, nella cui disponibilità permanga l'ambiente di lavoro, è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità e la salute dei lavoratori, ancorché dipendenti dell'impresa appaltatrice.
La Suprema Corte dopo aver confermato la responsabilità delle società in solido tra loro, ha inoltre ribadito il costante insegnamento in materia di rischio elettivo per cui la responsabilità dell'infortunato sorge esclusivamente in presenza di condotte del tutto anomale, inopinabili e imprevedibili, che esulano dai sistemi e dai procedimenti di lavoro e sono con essi incompatibili, oppure qualora vi sia stata una violazione, da parte del prestatore di lavoro, di precise disposizioni antinfortunistiche o di specifici ordini.
Nella vicenda in oggetto, conclude la Corte, non è emerso alcun comportamento del lavoratore estraneo od esorbitante dal normale svolgimento delle mansioni assegnate; da nessuna fonte di prova è emerso come il sinistro possa esser stato causato da un urto o da un'altra manovra maldestramente posta in essere dal lavoratore sicché deve ritenersi essersi trattato di un fatto accidentale, legato esclusivamente allo stato di manutenzione del macchinario della società.

Danno da malattia professionale

Cass. Sez. Lav. 11 marzo 2019, n. 6939

Pres. Di Cerbo; Rel. Di Cerbo. Celeste; Ric. R.F. + altri; Controric. N.P. s.p.a.;

Malattia professionale - Amianto - Danno risarcibile - Pluralità di datori responsabili - Responsabilità solidale - Sussistenza

Nei casi di controversie per malattia professionale allorquando un danno di cui si chiede il ristoro è determinato da più soggetti, ciascuno dei quali con la propria condotta contribuisce alla produzione dell'evento dannoso, si configura una responsabilità solidale ai sensi dell'art. 1294 c.c. fra tutti costoro, qualunque sia il titolo per il quale ognuno di essi è chiamato a rispondere. Ed infatti sia in tema di responsabilità contrattuale che di responsabilità extracontrattuale, se un unico evento dannoso è ricollegabile eziologicamente a più persone è sufficiente ai fini della suddetta solidarietà, che tutte le singole azioni od omissioni abbiano concorso in modo efficiente a produrlo, stante i principi che regolano il nesso di causalità ed il concorso di più cause efficienti nella produzione dei danni da risarcire
NOTA
La Corte d'appello di Genova ha respinto gli appelli riuniti proposti da più lavoratori volti ad ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale – morale ed esistenziale – asseritamente loro derivato dalla esposizione lavorativa ad amianto, domande rigettate in primo grado dal Tribunale, che aveva accolto la sole richieste tese al ristoro del danno biologico.
Con riferimento ad un solo ricorrente la Corte ha poi limitato il risarcimento al 50% del totale in considerazione dell'accertamento del ridotto apporto causale riferibile all'ultimo datore di lavoro convenuto in giudizio rispetto alle altre concause lavorative precedenti. In particolare, confermando la statuizione di primo grado, i giudici territoriali hanno ritenuto che, avendo la CTU accertato che l'apporto causale più significativo fosse connesso alle attività lavorative pregresse svolte presso altri datori, il danno patito doveva essere risarcito dall'ultima società convenuta esclusivamente nei limiti riconosciuti dal primo giudice, ovvero al 50%. Secondo la Corte territoriale era, inoltre, infondata la richiesta di condanna della convenuta per l'intero in applicazione dell'art. 1299 c.c. trattandosi di apporti causali del tutto autonomi e non vi era alcuna prova che l'apporto causale di ciascun datore di lavoro potesse essere apprezzato in modo unitario.
Avverso tale decisione i lavoratori hanno proposto ricorso per Cassazione, tutti censurando il rigetto della richiesta del danno morale ed esistenziale (secondo motivo) ed il lavoratore che ha visto i suo risarcimento limitato al 50% anche avverso tale parte della decisone (primo motivo).
Limitando l'analisi a tale ultimo aspetto, con il principio di cui alla massima, la Suprema Corte aderisce al suo consolidato orientamento secondo cui, per il sorgere della responsabilità solidale dei danneggianti, l'art. 2055 c.c., comma 1, richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorchè le condotte lesive siano fra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna, anche nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, atteso che l'unicità del fatto dannoso, considerata dalla norma suddetta, deve essere riferita unicamente al danneggiato e non va intesa come identità delle azioni giuridiche dei danneggianti e neppure come identità delle norme giuridiche da essi violate. (Cass. 16 dicembre 2005, n. 27713; Cass. 4 aprile 2013, n. 15687). La Cassazione richiama specifici precedenti in materia di infortuni e malattie (Cass. 9 aprile 2014, n. 8372) ove ha precisato che, quando un medesimo danno è provocato da più soggetti, per inadempimenti diversi intercorsi fra ciascuno di essi ed il danneggiato, tali soggetti debbano essere considerati corresponsabili in solido; e ciò non necessariamente sulla base dell'estensione alla responsabilità contrattuale della norma dell'art. 2055 c.c. dettata per la responsabilità extracontrattuale, ma perchè, sia in tema di responsabilità contrattuale che extracontrattuale, se un evento dannoso è imputabile a più persone - come nel caso di specie – al fine di ritenere la responsabilità di tutte nell'obbligo risarcitorio, è sufficiente, in base ai principi che regolano il nesso di causalità, soltanto il concorso di più cause efficienti nella produzione dell'evento, e cioè che le azioni od omissioni di ciascuno abbiano concorso in maniera efficiente, alla determinazione dello stesso (Cass. 9 novembre 2006, n. 23918; Cass. 10 settembre 2007, n. 18939 ; Cass. 30 marzo 2010, n. 7618; Cass. 11 maggio 2012, n. 7404). Ne consegue che la sentenza in esame - che ha ritenuto che l'accertata esistenza di concause nella determinazione dell'unico evento dannoso per il lavoratore imponesse la necessità di operare una ripartizione dell'obbligazione risarcitoria - si discosta dagli esposti principi e viene, quindi, cassata.

Forma della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 14 marzo 2019, n. 7306

Pres. Bronzini; Rel. Leo; P.M. R.F.G.; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. P.G.;

Sanzione disciplinare conservativa – Contestazione disciplinare – Comunicazione a mani del dipendente in busta chiusa – Rifiuto di riceverla – Omessa lettura del contenuto della lettera – Illegittimità.

Ove il datore di lavoro intenda consegnare a mani al lavoratore una comunicazione inerente al rapporto di lavoro e questi si rifiuti di riceverla, occorre procedere alla sua lettura o ad informare sommariamente il dipendente del contenuto.
La Corte di appello di Milano confermava la pronuncia di primo grado con la quale era stata dichiarata l'illegittimità della sanzione disciplinare della sospensione di dieci giorni dal servizio, irrogata al dipendente per essersi assentato ingiustificatamente dal luogo di lavoro per un periodo di otto giorni.
A sostegno della decisione la Corte di appello rilevava che non vi era prova che la lettera di contestazione disciplinare fosse stata comunicata al lavoratore prima che la sanzione fosse irrogata.
A seguito di ricorso proposto dalla società datrice in sede di legittimità, la Suprema Corte annullava la decisione di appello per vizio di motivazione, fissando il seguente principio di diritto in base al quale "esiste l'obbligo del lavoratore subordinato di ricevere sul posto di lavoro e durante l'orario lavorativo comunicazioni, anche formali, da parte del datore di lavoro o di suoi delegati, in considerazione dello stretto vincolo contrattuale che lega le parti di detto rapporto, sicchè il rifiuto del lavoratore, destinatario di un atto unilaterale recettizio, di riceverlo comporta che la comunicazione debba ritenersi regolarmente avvenuta, in quanto giunta ritualmente, ai sensi dell'art. 1335 c.c., a quello che, in quel momento, era l'indirizzo del destinatario".
Nel giudizio in sede di rinvio, la Corte di appello di Milano, in diversa composizione, respingeva il gravame proposto dalla società, compensando le spese.
Avverso la sentenza della Corte di appello proponeva ricorso la società datrice, fondato su tre motivi.
La ricorrente lamentava che la Corte di appello, contravvenendo al principio di diritto enunciato dalla Corte di legittimità, aveva erroneamente ritenuto che la comunicazione della lettera di contestazione non potesse considerarsi regolarmente avvenuta, in quanto, non essendo stata aperta la busta, non vi era prova che in essa fosse contenuta la lettera di contestazione disciplinare prodromica alla sanzione impugnata.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, osservando che i giudici di merito, attraverso un percorso motivazionale del tutto coerente, erano giunti correttamente ad affermare che mancava in atti la delibazione della circostanza che la parte datoriale avesse tentato di consegnare al dipendente, sul luogo di lavoro, la lettera con la quale veniva irrogata la sanzione disciplinare di cui trattasi.
I giudici di legittimità hanno, inoltre, rilevato che i giudici di seconda istanza, pur avendo preso atto del principio di diritto enunciato dalla Corte di legittimità, avevano coerentemente ritenuto che nella specie non fosse stato accertato quale era l'oggetto della comunicazione di cui il lavoratore era destinatario, atteso che, secondo quanto concordemente dichiarato dai testi escussi, la busta da consegnare al lavoratore non era stata aperta, e l'impiegato addetto alla consegna non aveva neppure tentato di leggerne il contenuto. Senza omettere di considerare inoltre che, secondo quanto accertato all'esito dell'istruttoria, nei confronti del dipendente erano state mosse varie contestazioni disciplinari ed erano state applicate molte sanzioni.
Per concludere, la Suprema Corte ha altresì osservato che la Corte distrettuale aveva motivatamente ritenuto sproporzionata la sanzione comminata dalla società, atteso che nel calcolo dei giorni di assenza ingiustificata del lavoratore dal servizio si era erroneamente tenuto conto anche del giorno di Pasqua e del lunedì in albis, pur trattandosi di giorni festivi.

Sullo svolgimento di altra attività lavorativa durante la malattia

Cass. Sez. Lav. 19 marzo 2019, n. 7641

Pres. Napoletano; Rel. Negri Della Torre; P.M. Celentano; Ric. R.A.; Controric. U.I.M. S.r.l.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Per giusta causa - Dipendente assente per malattia - Svolgimento di altra attività lavorativa durante lo stato di malattia - Violazione degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà e dei doveri generali di correttezza e buona fede - Configurabilità - Fattispecie.

Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell'ipotesi in cui tale attività sia, di per sé, sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, anche, nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio "ex ante" in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio.
NOTA
Il caso di specie riguarda il licenziamento per giusta causa intimato ad un dipendente che aveva svolto, durante un periodo di assenza per infortunio, altra attività lavorativa - consistente nella guida di automezzi e operazioni di carico/scarico - tale da comprometterne o ritardarne la guarigione.
Il licenziamento de quo veniva dichiarato legittimo sia in primo che secondo grado. In particolare, la Corte d'Appello di Napoli rilevava, a sostegno della propria decisione, che il comportamento addebitato - integrando un inadempimento degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà e la violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede - era da ritenersi di gravità tale da giustificare il recesso datoriale, e ciò anche in difetto di un'apposita tipizzazione prevista dal contratto collettivo o codice disciplinare.
La Corte di Cassazione, adita dal lavoratore, ha rigettato il ricorso, rilevando che lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente durante uno stato di malattia configura una violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell'ipotesi in cui tale attività sia, di per sé, sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro del dipendente in servizio (cfr. sul punto Cass. n. 26496/2018).
Tale argomentazione, prosegue la Corte, era stata correttamente richiamata anche dal giudice di seconde cure che, peraltro, aveva positivamente accertato come la condotta imputata al lavoratore fosse stata, in concreto, tale da ritardarne la guarigione.
Per tali motivi, come anticipato, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

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