Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Trasferimento d'azienda e licenziamento intimato dal cessionario
Licenziamento di dirigente
Licenziamento collettivo e criteri di scelta
Cooperativa e soci lavoratori
Orario di lavoro e cd. tempo tuta

Trasferimento d'azienda e licenziamento intimato dal cessionario

Cass. Sez. Lav. 28 febbraio 2019, n. 5998

Pres. Nobile; Rel. Boghetich; Ric. T.I.S.P.A.; Controric. E.P.;

Lavoro subordinato – Trasferimento d'azienda – Licenziamento intimato dal cessionario – Illegittimità del licenziamento – Opzione sostituiva della reintegra - Successiva dichiarazione di illegittimità del trasferimento d'azienda – Continuazione del rapporto di lavoro con il cedente – Sussistenza

La cessazione del rapporto di lavoro con il cessionario non preclude l'accertamento della continuazione del rapporto con il cedente in virtù di fatti, riferibili al periodo precedente tale cessazione, in grado di inficiare la validità del trasferimento del rapporto di lavoro al cessionario; né l'esercizio del diritto di opzione sostitutiva della reintegra (a seguito di licenziamento intimato dal cessionario e successivamente dichiarato illegittimo) da parte del lavoratore ceduto in base ad una cessione legale illegittima configura un comportamento concludente teso alla risoluzione definitiva del rapporto di lavoro con il cedente, in quanto la riferibilità anche al cedente dell'esercizio dell'opzione presuppone la legittimità ed il perfezionamento della vicenda traslativa
NOTA
Nel caso in esame la Corte d'Appello di Napoli aveva confermato la decisione del giudice di prime cure con la quale era stata dichiarata l'illegittimità del licenziamento intimato dalla società datrice di lavoro per esercizio del diritto di opzione dello stesso nei confronti della società cessionaria in relazione al licenziamento intimato da quest'ultima.
Il rapporto di lavoro in questione, infatti, era stato oggetto di un trasferimento di ramo d'azienda e di un successivo licenziamento da parte della società cessionaria, dichiarato illegittimo dal Tribunale competente con conseguente condanna alla reintegra ed esercizio da parte del lavoratore del diritto di opzione per l'indennità sostitutiva della reintegra.
Successivamente veniva dichiarata anche l'illegittimità della cessione d'azienda tra società cedente e cessionaria, con conseguente continuazione del rapporto di lavoro tra cedente e lavoratore, essendo state ritenute dalla Corte le vicende di fatto relative al rapporto tra lavoratore e cessionaria (incluso il licenziamento, la sua illegittimità e l'esercizio dell'opzione da parte del lavoratore) del tutto irrilevanti rispetto al rapporto tra il primo e la cedente.
Contro tale decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso per Cassazione la società datrice di lavoro e cedente, sulla base di un unico motivo. La stessa sosteneva, in sintesi, che la Corte territoriale avesse errato nel ritenere sussistenti due rapporti di lavoro distinti (rispettivamente, tra lavoratore e cedente e lavoratore e cessionaria) e non un unico rapporto con mero mutamento della titolarità soggettiva dello stesso.
La Suprema Corte ha però respinto il ricorso e le argomentazioni della società ricorrente.
In particolare, la Cassazione ha evidenziato come «La cessazione del rapporto di lavoro con il cessionario non preclude l'accertamento della continuazione del rapporto con il cedente in virtù di fatti riferibili al periodo precedente tale cessazione in grado di inficiare la validità del trasferimento del rapporto di lavoro al cessionario». Correttamente, pertanto, sarebbe stata dichiarata la illegittimità del trasferimento di ramo d'azienda anche dopo la cessazione del rapporto tra lavoratore e società cessionaria. In aggiunta la Suprema Corte ha respinto la tesi del lavoratore, confermando che affinché vi sia la continuazione di un unico rapporto di lavoro in capo al cessionario è necessario che la cessione del rapporto sia legittima, cosa non avvenuta nel caso di specie, con la conseguenza che non può ritenersi che «l'esercizio del diritto di opzione sostitutiva della reintegra (a seguito di licenziamento intimato dal cessionario e successivamente dichiarato illegittimo) da parte del lavoratore ceduto in base ad una cessione legale illegittima configura un comportamento concludente teso alla risoluzione definitiva del rapporto di lavoro con il cedente, in quanto la riferibilità anche al cedente dell'esercizio dell'opzione presuppone la legittimità ed il perfezionamento della vicenda traslativa».

Licenziamento di dirigente

Cass. Sez. Lav. 28 marzo 2019, n. 8659

Pres. Nobile; Rel. Garri; Ric. G.G.; Controric. R.A.P. S.p.A.

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Dirigente d'azienda - Disciplina dei licenziamenti contenuta nella L. n. 604 del 1966 e nello St.lav. - Applicabilità - Esclusione - Giustificatezza - Equiparabilità al giustificato motivo - Esclusione - Fattispecie.

Tenuto conto che la nozione di giustificatezza del recesso intimato ad un dirigente si discosta, sia sul piano oggettivo sia sul piano soggettivo, da quella di giustificato motivo, da un lato, perché trova la sua ragione d'essere nel rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro in virtù delle mansioni affidate, e dall'altro, perché le strategie dell'impresa possono rendere, nel tempo, non pienamente adeguata la posizione del dirigente nell'articolazione della struttura direttiva dell'azienda, la tenuta di un atteggiamento reiteratamente demotivante, di discredito dei superiori e non collaborativo da parte del dirigente determina che il licenziamento possa configurarsi come un rimedio non arbitrario, e quindi giustificato, anche perché dettato dall'esigenza di recuperare un rapporto armonico tra l'organo amministrativo ed i livelli dirigenziali.
NOTA
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte definisce il concetto di giustificatezza ai fini della legittimità del recesso comunicato al personale con qualifica dirigenziale.
Nella fattispecie in esame, un dirigente responsabile delle attività di raccolta indifferenziata dei rifiuti veniva licenziato per aver - in un contesto di inefficienza del servizio di nettezza urbana, verificatasi nell'estate 2015 - espresso con «toni coloriti» il proprio dissenso rispetto ai processi organizzativi individuati dal consiglio di amministrazione della società datrice.
Nell'ambito del giudizio di impugnazione del recesso, veniva accertato che la condotta del dirigente aveva generato nell'ambiente di lavoro «un atteggiamento di demotivazione e di sfiducia nell'autorevolezza degli ordini di servizio, tale da indebolire ed ostacolare l'obiettivo di recupero dell'efficienza». Addizionalmente - alla stregua degli atti di causa - risultava che, sin dal 2013, il rapporto lavorativo tra il dirigente e l'azienda fosse stato caratterizzato da aspri dissensi ed intemperanze del primo, che avevano assunto «i connotati del boicottaggio dell'azione amministrativa della società».
Su tali rilievi, la Corte d'Appello, riformando la sentenza del Tribunale, rigettava la domanda proposta dal lavoratore, reputando giustificato il recesso e nient'affatto discriminatorio né ritorsivo, essendo «piuttosto diretto a recuperare un rapporto armonico tra l'organo amministrativo ed i dirigenti della società al fine di una pronta ed efficace attuazione delle direttive per il recupero della situazione di grave dissesto ambientale verificatasi».
Il dirigente proponeva ricorso per Cassazione, lamentando la violazione dell'art. 360, primo comma, n. 3, in relazione agli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., nonché agli artt. 1175, 1345, 1362, 2105 e 2118 cod. civ.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso, confermando che - come correttamente rilevato dai Giudici d'appello - la condotta addebitata, pienamente provata, esprimeva un atteggiamento reiteratamente demotivante, di discredito dei superiori e non collaborativo e che il licenziamento era un rimedio non arbitrario dettato dall'esigenza di recuperare un rapporto armonico tra organo amministrativo e livelli dirigenziali. In sostanza, la Corte di merito, nell'escludere la ritorsività della scelta aziendale, l'ha correttamente ascritta all'irreversibile compromissione del rapporto fiduciario con il dirigente.
In ragione di ciò, la Cassazione ha concluso ribadendo che la nozione di giustificatezza del recesso intimato ad un dirigente si discosta, sia sul piano oggettivo sia sul piano soggettivo, da quella di giustificato motivo, da un lato, perché trova la sua ragione d'essere nel rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro in virtù delle mansioni affidate, e dall'altro, perché le strategie dell'impresa possono rendere, nel tempo, non pienamente adeguata la posizione del dirigente nell'articolazione della struttura direttiva dell'azienda.

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 22 febbraio 2019, n. 5373

Pres. Di Cerbo; Rel. Patti; Ric. M.C.; Controric. L.A.

Lavoro - Estinzione del rapporto - Licenziamento collettivo – Criteri di scelta dei lavoratori da licenziare - Riferibilità all'intero complesso aziendale – Necessità - Criteri di scelta - Esigenze tecnico produttive ed organizzative - Prevalenza – Condizioni.

Il datore di lavoro titolare di azienda, che sia subentrata in un appalto di servizi ai sensi dell'art. 4 CCNL Pulizia Multiservizi, qualora, a causa della perdita del suddetto appalto, proceda ad un licenziamento collettivo, deve individuare i lavoratori da licenziare, in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, con riferimento all'intero suo ambito: potendolo limitare ad alcuni rami d'azienda, soltanto se questi siano caratterizzati dalla specificità delle professionalità utilizzate. Tale limitazione non trova infatti giustificazione nella particolarità della disciplina, come quella di specie, che regola il rapporto di lavoro nella fase di ingresso, ossia di subentro nell'appalto, ma non di perdita dello stesso.
NOTA
Nel caso di specie una società, subentrata in un appalto di servizi di pulizie, impugnava la sentenza del Tribunale che aveva accertato l'illegittimità del licenziamento collettivo intimato a cinque lavoratori, con risoluzione del rapporto di lavoro e condanna della datrice al pagamento, in favore di ciascun lavoratore, di un'indennità pari a sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
La Corte d'Appello, confermando la pronuncia di primo grado, escludeva che la circostanza dell'assunzione dei lavoratori, per effetto di un cambio d'appalto di servizi di pulizie ai sensi dell'art. 4 del CCNL del settore Pulizia e Multiservizi, comportasse la giustificazione del licenziamento per cessazione del servizio, nell'impossibilità di una ricollocazione dei lavoratori in altre sedi. E ciò per «l'ininfluenza della genesi del rapporto sulla sua funzionalità ordinaria, con la possibilità della destinazione del lavoratore così assunto a un diverso servizio o a un trasferimento, come d'altronde esplicitamente previsto nei contratti individuali di assunzione dei predetti: sicché, la società datrice ben avrebbe dovuto provvedere alla verifica dell'impossibilità di una loro ricollocazione all'interno dell'intero complesso aziendale (…) avuto riguardo alla fungibilità delle mansioni (di addetti a pulizie) svolte».
La società ha proposto ricorso per cassazione per violazione e falsa applicazione degli artt. 18 l. 300/1970, 5 l. 223/1991, 4 CCNL Pulizia e Multiservizi ed omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, per impossibilità di ricollocazione dei lavoratori presso un diverso appalto, a fronte dell'obbligo di assunzione di ciascun lavoratore già ivi presente sancito dalla contrattazione collettiva di settore.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ribadendo la doverosa applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, a norma dell'art. 5 l. 223/1991 sottolineando la che «se ne deve rispettare l'operatività sull'intero compendio aziendale e non sulla singola unità produttiva: essendo possibile una limitazione della platea dei lavoratori nella selezione per il licenziamento soltanto in presenza di comprovate ragioni organizzative». A tal proposito la Suprema Corte ha ribadito il consolidato orientamento secondo cui «in tema di licenziamento collettivo, il doppio richiamo operato dall'art. 5, primo comma, l. 223/1991 alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, comporta che la riduzione del personale debba, in linea generale, investire l'intero ambito aziendale, potendo essere limitato a specifici rami d'azienda soltanto se caratterizzati da autonomia e specificità delle professioni utilizzate».
La Corte ha concluso rilevando che nel caso di specie «le suindicate esigenze tecniche, produttive o organizzative neppure sono state prospettate (né tanto meno documentate), non potendo, per le ragioni illustrate, essere ravvisate nella peculiare conformazione del rapporto di lavoro tra le parti».

Cooperativa e soci lavoratori

Cass. Sez. Lav. 11 marzo 2019, n. 6947

Pres. Nobile; Rel. Patti; P.M. Sanlorenzo; Ric. C.P.; Contr. S.C.A.A.S.C. a r.l.;

Cooperativa – Art. 18 L. n. 300/1970 – Requisito dimensionale – Computabilità socio lavoratore – Necessità.

In una società cooperativa, anche i soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato devono essere computati ai fini del requisito dimensionale per l'applicazione del regime di stabilità del rapporto di lavoro; con conseguente fruibilità anche per i lavoratori dipendenti non soci, della tutela prevista dall'art. 18, L. n. 300/1970, nel testo novellato dall'art. 1, comma 42, L. n. 92/2012.
NOTA
La Corte di appello di Palermo, in riforma della sentenza di primo grado, condannava la società cooperativa alla riassunzione entro tre giorni del lavoratore o, in mancanza, al pagamento, in suo favore a titolo risarcitorio, di un'indennità pari a quattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. La sentenza di primo grado aveva ritenuto, al contrario, che la società cooperativa dovesse essere condannata alla reintegrazione del dipendente ed al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento fino alla effettiva reintegra.
Avverso la pronuncia della Corte di appello il lavoratore propone ricorso per Cassazione denunciando la violazione e falsa applicazione dell'art. 18, commi 8 e 9, L. n. 300/1970, e dell'art. 2, L. n. 142/2001, per avere la sentenza erroneamente escluso nel computo del requisito dimensionale i soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato.
La Suprema Corte accoglie il ricorso, reputando di dover superare il proprio precedente indirizzo (Cass. 17 luglio 1998, n. 7046) - seguito dalla Corte di appello di Palermo - in ragione della disciplina innovativa introdotta dalla L. n. 142/2001 in tema di rapporto di lavoro nell'ambito delle società cooperative, secondo cui, la prestazione lavorativa del socio non è più vista quale mero adempimento del contratto sociale, ma piuttosto è fondata su un "ulteriore" rapporto, quale quello di lavoro, ex art. 1, comma 1, L. 142/2001. Essa ha così assunto una propria autonomia, segnando un'espansione degli istituti e delle discipline proprie del lavoro subordinato in funzione protettiva del socio lavoratore. Inoltre, occorre rilevare, prosegue la Cassazione, come nel novellato art. 18, commi 8 e 9, L. n. 300/1970, sia assente, in relazione ai soci lavoratori, una esplicita esclusione dalla previsione del computo dei dipendenti per la valutazione del requisito dimensionale, come invece avviene per il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea retta e collaterale; e che, anzi, è espressamente stabilita l'applicazione, ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato, della L. n. 300/1970 con la sola "esclusione dell'art. 18 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo" (art. 2, comma 1, L. n. 142/2001). Conseguentemente, secondo i giudici di legittimità, la vigente disciplina deve essere intesa nel senso della sua integrale applicazione, in costanza del rapporto associativo, ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato, che, dunque, devono essere computati ai fini del requisito dimensionale.
Alla luce delle argomentazioni di cui sopra, la Suprema Corte cassa la sentenza di merito, rinviando alla Corte di appello di Roma affinché accerti la sussistenza del requisito dimensionale attenendosi al seguente principio di diritto: "In una società cooperativa, anche i soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato devono essere computati ai fini del requisito dimensionale per l'applicazione del regime di stabilità del rapporto di lavoro: con la conseguenza della fruibilità anche per i lavoratori dipendenti non soci della tutela prevista dall'art. 18, L. 300/1970, nel testo novellato dall'art. 1, comma 42 L. n. 92/2012".

Orario di lavoro e cd. tempo tuta

Cass. Sez. Lav. 9 aprile 2019, n. 9871

Pres. Nobile; Rel. Pagetta; Ric. A.R. e altri; Controric. T. Sp.A.

Lavoro subordinato - Operazioni di vestizione e dismissione DPI - Orario di lavoro - Eterodirezione - Necessità - Assenza di eterodirezione - Diritto alla retribuzione - Esclusione

Il fatto che nel caso specifico l'uso degli indumenti e delle scarpe da lavoro sia obbligatorio per lo svolgimento della prestazione, trattandosi di dispositivi di protezione individuale, non è una circostanza decisiva al fine della retribuibilità del tempo impiegato per le operazioni di vestizione e svestizione qualora emerga che i suddetti indumenti possano essere indossati e dismessi anche fuori dal luogo di lavoro e, quindi, in ambito sottratto all'eterodirezione. Pertanto, la retribuibilità del tempo dedicato alle operazioni di vestizione e dismissione degli abiti da lavoro dipende dall'assoggettamento delle stesse alle regole di impresa.
NOTA
Alcuni lavoratori svolgenti mansioni di operaio presso un'azienda di trasporto pubblico proponevano ricorso per ottenere, da un lato, il riconoscimento del diritto alla retribuzione dei tempi di vestizione/svestizione degli indumenti di lavoro (retribuzione a loro avviso dovuta sulla base di un uso aziendale soppresso nel gennaio del 2009), dall'altro, il riconoscimento del diritto ad una pausa retribuita durante il turno di lavoro. Anche tale richiesta era fondata su un uso aziendale unilateralmente soppresso dalla datrice di lavoro nel 2005.
La Corte di Appello di Firenze, confermando la sentenza di primo grado, accoglieva parzialmente il ricorso riconoscendo ai lavoratori il solo diritto ad una pausa retribuita durante il turno di lavoro. La domanda relativa alla retribuzione dei tempi di vestizione/svestizione veniva invece rigettata, fondando tale decisione sulla mancanza di prova dell'assoggettamento a eterodirezione di tali operazioni e sul fatto che non era stata dimostrata in giudizio l'esistenza di un asserito uso negoziale aziendale relativo alla retribuzione di tale tempo.
Per la cassazione di tale sentenza proponevano ricorso i lavoratori.
In particolare, con il terzo motivo di ricorso i lavoratori deducevano la violazione, per omessa e/o errata applicazione dell'art. 1, D.Lgs. 66/2003, e falsa ed errata applicazione della giurisprudenza di legittimità sui cd. «tempi tuta».
Nello specifico, i lavoratori sostenevano che le operazioni di vestizione e svestizione erano strettamente funzionali allo svolgimento delle mansioni di lavoro e che gli indumenti utilizzati costituivano dispositivi di protezione obbligatoria, così comportando «ipso iure la riconducibilità delle operazioni di vestizione e svestizione all'ambito dell'attività di lavoro retribuita».
Tale motivo di impugnazione è stato ritenuto infondato.
La Corte di Cassazione, richiamando quanto più volte affermato in precedenti sentenze, ha ricordato che il fatto che l'uso degli indumenti e delle scarpe da lavoro sia obbligatorio per lo svolgimento della prestazione, trattandosi di dispositivi di protezione individuale, non costituisce circostanza decisiva per affermare la retribuibilità del tempo impiegato per le operazioni di vestizione e dismissione dei medesimi. Infatti, qualora dalle regole e dagli usi vigenti nella specifica azienda emerga che i suddetti indumenti possano essere indossati e dismessi anche fuori dal luogo di lavoro e, quindi, in ambito sottratto all'eterodirezione, il «tempo tuta» non può essere considerato orario di lavoro e non va, pertanto, retribuito (ex pluribus, Cass. n. 7738 del 28/3/2018; Cass. n. 13466 del 29/5/2017 e Cass. n. 9125 del 7/6/2012).
Ad avviso della Suprema Corte la sentenza impugnata aveva dunque fatto corretta applicazione del principio secondo il quale il «tempo tuta» deve essere retribuito solo ove la relativa operazione venga diretta dal datore di lavoro, poiché solo in tal caso rientrerebbe nell'orario di lavoro effettivo che deve essere retribuito.

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