Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Procedimento disciplinare e audizione orale
Elementi indicativi della subordinazione
Licenziamento collettivo e criteri di scelta
Contratto di lavoro a tempo parziale e requisiti di forma
Esposizione dei lavoratori alle polveri di amianto e responsabilità del datore

Procedimento disciplinare e audizione orale

Cass. Sez. Lav. 19 giugno 2019, n. 16421

Pres. Nobile; Rel. Arienzo; P.M. Celentano; Ric. C.V.; Controric. B.C.C.U.T.B. S.c.r.l.;

Lavoro subordinato - Procedimento disciplinare - In genere - Audizione orale - Richiesta univoca del dipendente - Necessità.

Lavoro subordinato - Contestazione disciplinare - Giustificazioni - Impedimento - Malattia antecedente alla contestazione - Insufficienza - Stato di incapacità di intendere e di volere - Necessità.

In tema di procedimento disciplinare non è necessario che la contestazione contenga un termine per il lavoratore per esporre le proprie difese o la fissazione di un'audizione orale, posto che solo ove il dipendente manifesti espressamente la volontà di presentare le proprie controdeduzioni nei termini di legge e in maniera univoca e non ambigua il datore è tenuto ad ascoltarlo.
In tema di sanzioni disciplinari, il lavoratore non può pretendere la posticipazione del termine per rendere le sue giustificazioni sulla base di un'asserita malattia antecedente alla contestazione che avrebbe determinato un'inabilità temporanea senza provare uno stato di incapacità di intendere e di volere che sia idoneo a menomare gravemente, anche senza escluderle, le sue facoltà volitive e intellettive e così da impedire la formazione di una volontà cosciente.
NOTA
Il caso di specie riguarda il licenziamento disciplinare comminato al dipendente che, in qualità di responsabile dell'area Finanza della banca presso la quale era impiegato, aveva compiuto una serie di operazioni (omesse segnalazioni, errate iscrizioni in bilancio, manomissione di contabilità aziendale) in violazione delle procedure dell'istituto creditizio. A seguito di procedimento disciplinare, il dipendente veniva licenziato per giusta causa.
Il licenziamento veniva dichiarato legittimo sia in primo che in secondo grado, avendo le prove testimoniali confermato gli addebiti contestati al dipendente.
La Corte d'Appello di Bari, confermando la legittimità del recesso datoriale, rilevava altresì che il dipendente non aveva presentato le proprie giustificazioni nel corso del procedimento disciplinare a suo carico né, tantomeno, aveva richiesto di essere sentito a sua difesa.
Avverso la decisione della Corte d'Appello, il dipendente ricorreva in Cassazione.
Con il primo motivo di impugnazione, il dipendente denunciava la nullità della sentenza per omesso esame circa un fatto controverso e decisivo, rappresentato dalla formale richiesta, avanzata dallo stesso, di fornire le proprie giustificazioni nel corso del procedimento disciplinare tramite due lettere trasmesse all'istituto di credito.
In particolare il lavoratore, assente per malattia, aveva chiesto al datore di lavoro di essere sentito a sua difesa non appena fosse stato in grado di muoversi fisicamente, tornare al lavoro e predisporre le proprie giustificazioni.
La Corte di Cassazione, nel ribadire alcuni orientamenti consolidati in tema di legittimità del procedimento disciplinare, ha rilevato innanzitutto che non è necessario che la contestazione di un addebito disciplinare contenga un termine al lavoratore per esporre le proprie difese o la fissazione di un'audizione a difesa. Questo perché il disposto di cui all'art. 7, comma 2, legge n. 300/1970, secondo il quale il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza averlo sentito a sua difesa, va interpretato nel senso che il datore di lavoro è tenuto a sentire il dipendente oralmente solo ove quest'ultimo lo richieda espressamente, salva in ogni caso la facoltà del lavoratore di inoltrare per iscritto le proprie difese (cfr. Cass. n. 67/1998).
Ove il dipendente intenda avvalersi di tale facoltà, la Suprema Corte ribadisce che è l'art. 7, comma 5, legge n. 300/1970 (ai sensi del quale i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa) a individuare il termine entro il quale le eventuali controdeduzioni del dipendente devono pervenire al datore di lavoro.
Ciò premesso, la Corte ha precisato che la richiesta di audizione orale da parte del dipendente debba essere formulata in maniera espressa e inequivocabile, non potendo, al contrario, trovare accoglimento una richiesta ambigua o priva di univocità.
Nel caso di specie la Suprema Corte ha ritenuto che la richiesta di audizione orale trasmessa dal dipendente al datore di lavoro non fosse formulata in termini univoci, anche sulla base di quanto rilevato dal giudice di merito in ossequio al principio generale che impone l'interpretazione letterale degli atti unilaterali recettizi, giungendo alla conclusione che alcuna richiesta univoca era stata avanzata dal dipendente.
Infine, con il secondo motivo di impugnazione, il lavoratore deduceva la nullità della sentenza della Corte d'Appello per violazione della garanzia procedimentale di cui all'art. 7, L. 300/1970, avendo il lavoratore addotto la sussistenza di uno stato di malattia antecedente alla contestazione disciplinare tale da comportare una necessaria posticipazione dell'audizione orale e quindi dei termini di recesso.
Sul punto, in assenza di alcuna prova da parte del dipendente circa lo stato di incapacità che gli avrebbe precluso la possibilità di fornire giustificazioni, la Suprema Corte ha ribadito che non è possibile differire l'audizione orale in ragione di uno stato di malattia senza provare uno stato di incapacità di intendere e di volere tale da menomare gravemente, anche senza escluderle, le facoltà volitive e intellettive del dipendente e così da impedire la formazione di una volontà cosciente. Inoltre, le lettere trasmesse dal dipendente alla società per rendere le proprie controdeduzioni e richiedere il differimento dell'audizione non contenevano alcuna univoca richiesta in tal senso.
Per tali motivi, il ricorso è stato respinto.

Elementi indicativi della subordinazione

Cass. Sez. Lav. 21 giugno 2019, n. 16743

Pres. Balestrieri; Rel. Arienzo; P.M. Sanlorenzo; Ric. C.A.M.; Controric. N. S.A.S.;

Autonomia e subordinazione - Rivendicazione lavoro subordinato – Indici di qualificazione fattuali - Rilevanza

È corretta la sentenza di merito che, nello stabilire l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, ha conferito rilievo ad elementi fattuali (di cui ha escluso in concreto la sussistenza) - quali la previsione di un compenso fisso, di un orario di lavoro stabile e continuativo, il carattere delle mansioni, nonché il collegamento tecnico, organizzativo e produttivo tra la prestazione svolta e le esigenze aziendali - che costituiscono indici rivelatori della natura subordinata del rapporto, unitamente all'esistenza di un potere gerarchico e direttivo che non può, tuttavia, esplicarsi in semplici direttive di carattere generale (compatibili con altri tipi di rapporto), ma deve manifestarsi con ordini specifici, reiterati ed intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa, laddove il potere organizzativo deve manifestarsi in un effettivo inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale.
NOTA
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha ribadito quali sono gli elementi univocamente indicativi della subordinazione che devono essere presi in considerazione per inquadrare il rapporto di lavoro.
La Corte d'Appello di Salerno, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda proposta da una lavoratrice volta al riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro.
In particolare, la lavoratrice affermava di avere svolto attività di commessa presso diversi esercizi commerciali, dove lavorava quotidianamente e di avere percepito un corrispettivo per l'attività prestata. A tale tesi si contrapponeva quella della società, che affermava di avere erogato somme alla lavoratrice «a titolo di riconoscenza», avendo la stessa accudito la figlia della titolare.
La Corte d'Appello, ritenendo sfornita di prova la domanda di riconoscimento della subordinazione, rigettava il ricorso.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione la lavoratrice.
In particolare, la lavoratrice censurava la sentenza impugnata per contraddittoria valutazione delle diverse testimonianze assunte nel corso del giudizio, osservando che talune circostanze erano state ammesse dalla società e che uno dei testi escussi aveva confermato la sua «presenza» negli esercizi commerciali «con frequenza settimanale» e che ciò confermasse le allegazioni prospettate nel ricorso.
La Suprema Corte ha ritenuto infondato tale motivo, ricordando il principio di cui alla massima e, dunque, che elementi fattuali quali la previsione di un compenso fisso, di un orario di lavoro stabile e continuativo, il carattere delle mansioni, nonché il collegamento tecnico, organizzativo e produttivo tra la prestazione svolta e le esigenze aziendali, «costituiscono indici rivelatori della natura subordinata del rapporto, unitamente all'esistenza di un potere gerarchico e direttivo che non può, tuttavia, esplicarsi in semplici direttive di carattere generale (compatibili con altri tipi di rapporto), ma deve manifestarsi con ordini specifici, reiterati ed intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa, laddove il potere organizzativo deve manifestarsi in un effettivo inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale» (in questo senso, Cass. 8 aprile 2015, n. 7024; Cass. 21 ottobre 2014, n. 22289; Cass. 27 febbraio 2007, n. 4500; Cass. 5 luglio 2006, n. 15327).
Sulla scorta di tali considerazioni e non ricorrendo nella fattispecie in esame alcuno degli elementi fattuali indicati, il ricorso della lavoratrice è stato rigettato.

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 24 giugno 2019, n. 16834

Pres. Nobile; Rel. Curcio; P.M. Celentano; Ric. C.&C. S.r.l.; Controric. R.F. + 10;
Lavoro subordinato – Licenziamento collettivo – Fine appalto – Applicazione dei criteri di scelta ai soli lavoratori addetti all'appalto cessato – Limiti – Esigenze tecnico-produttive – Onere della prova – Illegittimità.

In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda, la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti a tale settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali connesse al progetto di ristrutturazione.
È onere del datore provare il fatto che determina l'oggettiva limitazione di queste esigenze e giustificare il più ristretto ambito di applicazione dei criteri di scelta. Di conseguenza, non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso da parte di questi di professionalità equivalenti a quella degli addetti ad altre unità produttive.
NOTA
Una società operante nel settore della ristorazione avviava (nel 2014) una procedura di licenziamento collettivo a seguito della cessazione di un contratto di appalto.
I lavoratori licenziati agivano avanti al Tribunale di Cassino per ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro. Il giudice, all'esito della fase a cognizione sommaria, rigettava il ricorso. Tale decisione veniva confermata anche in sede di opposizione, ma riformata dalla Corte d'appello di Roma in accoglimento del reclamo dei lavoratori.
La Corte territoriale riteneva che il datore di lavoro doveva giustificare, sulla base di effettive ragioni tecnico-produttive, la decisione di limitare la scelta dei lavoratori da licenziare ai soli addetti all'appalto cessato, mentre nel caso di specie non aveva fornito prova alcuna circa la diversità dei profili professionali dei dipendenti addetti all'altro appalto acquisito tre mesi prima di quello cessato. La scelta dei lavoratori da licenziare avrebbe quindi dovuto essere effettuata con riguardo all'intero organico aziendale, con conseguente la violazione dei criteri di scelta di cui al comma 5 della legge 223/1991. Pertanto, la Corte territoriale condannava la reclamata alla reintegrazione dei lavoratori nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno limitato a 12 mensilità in applicazione dell'art. 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori.
Avverso tale decisione ricorreva in cassazione l'azienda; nove lavoratori resistevano con controricorso.
La Suprema Corte ha cassato il ricorso ribadendo il principio di diritto (già affermato, tra le altre, da Cass. 9711/2011 e Cass. 14612/2006) secondo cui solo ove il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda la comparazione dei lavoratori, al fine di individuare quelli da licenziare, non deve interessare necessariamente l'intera azienda, ma può essere effettuata, secondo una legittima scelta dell'imprenditore, ispirata al criterio legale delle esigenze tecnico-produttive, nell'ambito della singola unità produttiva interessata dalla riorganizzazione.
Di conseguenza, è illegittima la scelta dei lavoratori da licenziare esclusivamente perché impiegati nel reparto operativo soppresso (nel caso di specie: l'appalto cessato), trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella dei dipendenti addetti ad altri reparti.
È stato inoltre chiarito che l'onere di provare il fatto che legittima la limitazione dell'applicazione dei criteri di scelta ai soli lavoratori addetti ad un determinato reparto, anziché all'intera azienda, grava esclusivamente sul datore di lavoro, tenuto anche conto che l'art. 5, comma 1 della legge 223/1991 precisa che l'individuazione dei dipendenti da licenziare debba avvenire in relazione alle esigenze tecniche-organizzative del «complesso aziendale».

Contratto di lavoro a tempo parziale e requisiti di forma

Cass. Sez. Lav. 30 maggio 2019, n. 14797

Pres. Nobile; Rel. Ponterio; P.M. Sanlorenzo; Ric. B.D.; Controric. G.N.F s.n.c;

Contratto di lavoro a tempo parziale - Forma scritta - Mancanza - Conseguenze - Nullità parziale - Costituzione rapporto a tempo pieno - Diritto alle differenze retributive - Sussistenza - Messa in mora del datore di lavoro - Necessità

In ipotesi di nullità del contratto part time per difetto dei requisiti di contenuto o forma previsti da norme imperative di legge, deve ritenersi costituito un ordinario rapporto di lavoro full time, previa eliminazione della clausola nulla, con conseguente diritto del lavoratore al risarcimento del danno, commisurato alle differenze retributive rispetto all'orario full time non svolto, solo ove risulti la mora accipiendi di parte datoriale, in coerenza col principio di corrispettività delle prestazioni.
NOTA
La Corte d'Appello di Bologna, dopo aver accertato essere intercorsi una serie di rapporti a tempo parziale, ha respinto l'appello principale della lavoratrice e quello incidentale della società, confermando la sentenza di primo grado che aveva condannato quest'ultima al pagamento in favore della ex dipendente di parte delle differenze retributive richieste, rigettando la domanda di ulteriori differenze retributive e di indennità di mancato preavviso. In particolare, per quanto qui di interesse, la Corte territoriale ha affermato che, in ipotesi di nullità per difetto di forma scritta del contratto part- time, la lavoratrice avesse unicamente diritto, ai sensi dell'art. 2126 c.c., alle retribuzioni proporzionate alle prestazioni in concreto eseguite, della cui prova dovesse considerarsi onerata, trovando applicazione la giurisprudenza in materia di lavoro straordinario, ed ha considerato tale onere non completamente assolto in base alle prove testimoniali raccolte.
Avverso tale sentenza la lavoratrice ha proposto ricorso per Cassazione lamentando che, in caso di nullità del contratto part-time, il lavoratore abbia diritto alla retribuzione commisurata al tempo pieno ove dimostri di aver messo a disposizione del datore di lavoro le proprie ulteriori energie lavorative e, comunque, che, ove il lavoratore part time abbia svolto un orario di lavoro superiore a quello indicato nel contratto, l'orario di lavoro debba essere considerato corrispondente a quello di un contratto full time, riportando su tali aspetti precedenti in termini (Cass. 3 maggio 1991, n. 4811).
La Suprema Corte accoglie il motivo ed afferma il principio di cui alla massima già sancito in precedenti (Cass. 21 novembre 2011, n. 24476; Cass 10 marzo 2006, n. 5330) ove si era chiarito che la nullità della clausola sul tempo parziale per difetto di forma scritta, anche sulla scorta delle indicazioni offerte dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 283 del 2005, non implica l'invalidità dell'intero contratto, ma comporta, per il principio generale di conservazione del negozio giuridico colpito da nullità parziale, che il rapporto di lavoro debba considerarsi a tempo pieno. La Cassazione ricorda che già nella sentenza n. 210 del 1992 la Consulta aveva ritenuto possibile un'interpretazione costituzionalmente orientata secondo la quale la nullità per vizio di forma della clausola sulla riduzione dell'orario di lavoro non è comunque idonea a travolgere integralmente il contratto, ma ne determina la conversione in un "normale contratto di lavoro" o, meglio, determina "la qualificazione del rapporto come normale rapporto di lavoro, in ragione dell'inefficacia della pattuizione relativa alla scelta del tipo contrattuale speciale" (Cass. 19 gennaio 2018, n. 1375; Cass., S.U. 5 luglio 2004, n. 12269). Quanto poi alla necessità di messa in mora, la Cassazione richiama l'ampia elaborazione di legittimità che, in base alla regola generale di effettività e corrispettività delle prestazioni nel contratto di lavoro, ha precisato che la retribuzione spetta al lavoratore soltanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, salvo che il datore versi in una situazione di mora accipiendi (Cass. 23 luglio 2008, n. 20316; Cass. 8; Cass 23 novembre 2006, n. 24886; Cass., S.U. 7 febbraio 2018, n. 2990).
Sulla base di tali principi la sentenza di secondo grado viene cassata avendo la Corte d'Appello deciso aderendo ad un orientamento giurisprudenziale diverso e risalente (Cass. 24 aprile 1991, n. 4482; Cass 28 maggio 1993, n. 6487), da considerarsi superato alla luce delle citate decisioni della Corte Cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del 2005 e delle più recenti pronunce della stessa Suprema Corte.

Esposizione dei lavoratori alle polveri di amianto e responsabilità del datore

Cass. Sez. Lav. 12 giugno 2019, n. 15761

Pres. Di Cerbo; Rel. Cinque; P.M. Celentano; Ric. F. S.p.a.; Controric. D.D.M., B.L., B.F.;
Esposizione all'amianto - Mesotelioma pleurico - Responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c. - Nesso causale - Regola della c.d. "probabilità logica" - Sussiste

In tema di responsabilità civile, nella verifica del nesso causale vige - a differenza del processo penale, ove vale il principio del meccanismo processuale del cd. "oltre ragionevole dubbio"-, la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", da verificarsi in virtù della cd. "probabilità logica", nell'ambito degli elementi di conferma e, nel contempo, nell'esclusione di quelli alternativi, disponibili in relazione al caso concreto.
I ricorrenti, moglie e figli del de cuius, convenivano in giudizio la società datrice di lavoro al fine di ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale spettante al de cuius per la malattia contratta, dedotto quanto già percepito dall'INAIL a copertura del danno biologico fino al decesso, nonché il risarcimento dei danni spettanti ad essi ricorrenti iure proprio per la perdita del congiunto.
Il Tribunale, espletata attività istruttoria ed accertata la responsabilità della società datrice, accoglieva la domanda, condannando la società convenuta a risarcire il danno biologico differenziale a tutti gli eredi pro quota, nonché il danno non patrimoniale diretto.
La Corte di appello di Genova riformava la sentenza impugnata con esclusivo riferimento alla statuizione concernente le spese di giudizio, disponendo che le stesse fossero poste integralmente a carico della società - e non già compensate tra le parti, come aveva statuito il giudice di primo grado -, mentre confermava per il resto la pronuncia di primo grado.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società sulla base di due motivi.
In primo luogo, la ricorrente lamentava la violazione e falsa applicazione degli artt. 2728, 2043, 2087 e 2697 c.c., sostenendo che la Corte di merito avesse erroneamente omesso di considerare - anche sulla scorta delle risultanze della CTU espletata - l'eziologia multifattoriale della patologia che aveva portato al decesso del lavoratore. La società rilevava, inoltre, che la Corte di merito aveva trascurato di valutare che il de cuius, prima di lavorare per la società ricorrente, aveva svolto la propria attività lavorativa presso altra ditta, quale manovale edile, ragion per cui non poteva affermarsi, con il grado di certezza allo scopo necessario, che la genesi del mesotelioma pleurico fosse riconducibile alla esposizione di fibre di amianto inalate durante il rapporto di lavoro intercorso con la società ricorrente.
La società denunziava, altresì, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2087, 2056, 2059 e 1223 cc, nonché degli artt. 40 e 43 cpc, in relazione all'art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c., sostenendo che la Corte territoriale avesse erroneamente ritenuto sussistente il nesso causale sulla base del semplice rilievo della esistenza di un comportamento colposo addebitabile alla società, senza affatto precisare se detta condotta avesse influito o meno nella determinazione della patologia e, quindi, dell'evento morte.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Innanzitutto, la Suprema Corte ha sottolineato che la sentenza impugnata aveva escluso che la pregressa attività lavorativa svolta dal de cuius potesse assumere la valenza di concausa nelle determinazione dell'evento, in ragione della carenza di allegazioni sulla tipologia e la durata della suddetta attività che rendessero possibile la verifica dell' esistenza di una causa di insorgenza della patologia diversa da quella ritenuta dal CTU.
Con riferimento al profilo della asserita violazione delle disposizioni in tema di nesso di causalità, la Suprema Corte ha rilevato che, in tema di responsabilità civile, nella verifica del nesso causale vige - a differenza del processo penale, ove vale il principio del meccanismo processuale del cd. "oltre ragionevole dubbio"-, la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", da verificarsi in virtù della cd. "probabilità logica", nell'ambito degli elementi di conferma e, nel contempo, nell'esclusione di quelli alternativi, disponibili in relazione al caso concreto (Cass. 27 settembre 2018, n. 23197; Cass. 3 gennaio 2017, n. 47).
La Suprema Corte ha, inoltre, rilevato che alla stregua del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. 13 ottobre 2017, n. 24217; Cass. 21 settembre 2016, n. 18053), in materia di esercizio di attività pericolose ed esposizione del lavoratori alle polveri di amianto, la responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c., pur non configurando una ipotesi di responsabilità oggettiva, non è circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, essendo volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psico-fisica e la salute del luogo di lavoro.
Con specifico riferimento al caso concreto la Suprema Corte ha rilevato che la Corte di merito aveva fatto corretta applicazione dell'art. 2087 c.c., alla luce dei principi di legittimità.
Ed infatti, i giudici di merito hanno accertato che la datrice di lavoro, pur essendo tenuta a conoscere la pericolosità dell'amianto – posto che all'epoca dei fatti di causa vigeva l'art. 21 del DPR n. 303 del 1956, che prevedeva particolari misure dirette a prevenire il rischio di malattie respiratorie, connesse alla inalazione di polveri di amianto, tra le quali la malattia del mesotelioma – non aveva adottato alcuna necessaria cautela per evitare che il lavoratore fosse esposto, in maniera continuativa, alla inalazione di fibre di amianto.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©