Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta
Licenziamento orale e onere probatorio
Licenziamento per giusta causa/1
Licenziamento per giusta causa/2
Licenziamento per inabilità al lavoro

Licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta

Cass. Sez. Lav. 10 luglio 2019, n. 18556

Pres. Di Cerbo; Rel. Cinque; P.M. Cimmino; Ric. F.D.; Controric. G. S.p.A.;

Lavoro subordinato – Licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta – Mansioni residue – Modifiche organizzative – Onere del datore di lavoro – Limiti – Adattamenti organizzativi - Proporzionalità dei relativi oneri finanziari – Necessità - Mantenimento delle condizioni di lavoro degli altri dipendenti - Necessità

In tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, sussiste l'obbligo a carico del datore di lavoro di verificare preventivamente la possibilità di adattamenti organizzativi nei luoghi di lavoro a condizione che comportino un onere finanziario proporzionato alle dimensioni e alle caratteristiche dell'impresa e che rispettino le condizioni di lavoro degli altri dipendenti.
NOTA
A seguito della ricollocazione al lavoro disposta in sede giudiziale, un lavoratore veniva licenziato per giustificato motivo oggettivo in quanto il medico competente ne aveva accertato l'inidoneità ad espletare tutte le mansioni disponibili nell'unità produttiva di assegnazione.
La Corte d'appello di Torino, in riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale della medesima città, concludeva per la validità del licenziamento, nonostante il consulente tecnico d'ufficio avesse considerato il ricorrente idoneo a svolgere alcune residue attività in un altro reparto, previa riorganizzazione del lavoro in funzione delle sue patologie e delle connesse limitazioni fisiche. Tuttavia, i giudici di appello consideravano tale riorganizzazione come un'indebita ingerenza nell'organizzazione imprenditoriale, tutelata dall'art. 41 Cost. Inoltre, la necessaria modifica organizzativa avrebbe peggiorato le condizioni lavorative degli altri addetti al reparto, i quali sarebbero stati costretti alla rotazione sulle postazioni più impegnative, con conseguente aggravio del rischio a loro carico.
Avverso tale decisione ricorreva in Cassazione il lavoratore; l'azienda resisteva con controricorso.
Il ricorso lamentava violazione e falsa applicazione degli art. 3 e 5 della legge 604/1966 per aver i giudici di merito ritenuto valido il licenziamento nonostante fosse stato accertato che il lavoratore era idoneo a svolgere altre mansioni all'interno dell'organizzazione datoriale.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso ribadendo il principio di diritto (già affermato, tra le altre, da Cass. 27243/2018 e Cass. 6798/2018) secondo cui, in tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, ai fini della validità del recesso, sussiste l'obbligo della previa verifica, da parte del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi nei luoghi di lavoro, purché comportanti un onere finanziario proporzionato alle dimensioni e alle caratteristiche dell'impresa e nel rispetto delle condizioni di lavoro dei colleghi dell'invalido, in applicazione dell'art. 3, comma 3 bis, D.lgs. 216/2003 (che ha recepito l'art. 5 della Direttiva 2000/78/CE).
È stata quindi confermata la sentenza di appello in merito alla non riutilizzabilità del lavoratore in altre mansioni o reparti, perché ciò avrebbe comportato la necessità di una nuova organizzazione del lavoro che, tuttavia, avrebbe rappresentato non solo un'indebita ingerenza nell'insindacabile valutazione imprenditoriale, ma anche un aggravamento delle condizioni lavorative dei colleghi che sarebbe stati costretti ad operare solo sui macchinari più impegnativi.

Licenziamento orale e onere probatorio

Cass. Sez. Lav. 9 luglio 2019, n. 18402

Pres. Nobile; Rel. Amendola; P.M. Celentano; Ric. L.M.S. S.a.A.; Controric. B.C.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento orale - Accertamento - Distribuzione dell'onere probatorio tra lavoratore e datore di lavoro - Conseguenze - Fattispecie.

Il lavoratore che impugni il licenziamento allegandone l'intimazione senza l'osservanza della forma scritta ha l'onere di provare, quale fatto costitutivo della domanda, che la risoluzione del rapporto è ascrivibile alla volontà datoriale, seppure manifestata con comportamenti concludenti, non essendo sufficiente la prova della mera cessazione dell'esecuzione della prestazione lavorativa; nell'ipotesi in cui il datore eccepisca che il rapporto si è risolto per le dimissioni del lavoratore e all'esito dell'istruttoria - da condurre anche tramite i poteri officiosi ex art. 421 c.p.c. - perduri l'incertezza probatoria, la domanda del lavoratore andrà respinta in applicazione della regola residuale desumibile dall'art. 2697 c.c..
NOTA
Il caso di specie riguarda il licenziamento orale intimato da una società nei confronti di un proprio dipendente, successivamente dichiarato inefficace dai giudici di merito.
Nello specifico, la Corte d'Appello di Genova ha rilevato che la cosiddetta estromissione del lavoratore dal posto di lavoro inverte l'onere probatorio, pertanto, mentre per il lavoratore è sufficiente dimostrare l'intervenuta cessazione del rapporto di lavoro, è onere del datore di lavoro dimostrare che il rapporto sia venuto meno per ragioni diverse dal licenziamento; tale prova, tuttavia, era del tutto mancata nel caso di specie.
La Società ha successivamente impugnato la sentenza di secondo grado, sostenendo che l'inversione dell'onere probatorio non può trovare applicazione laddove il lavoratore si faccia carico di provare il licenziamento orale e tale prova non dia esito positivo.
La Corte di Cassazione ha, innanzitutto, ribadito il principio secondo cui il lavoratore subordinato che impugni un licenziamento, allegando che è stato intimato senza l'osservanza della forma scritta, ha l'onere di provare, quale fatto costitutivo della sua domanda, che la risoluzione del rapporto di lavoro è ascrivibile alla volontà del datore di lavoro, anche se manifestata con comportamenti concludenti; la mera cessazione dell'esecuzione della prestazione di lavoro non è circostanza di per sé sola idonea a fornire tale prova. Nel caso in cui il datore di lavoro eccepisca che il rapporto si è risolto per dimissioni del lavoratore, il giudice sarà chiamato a ricostruire i fatti con indagine rigorosa - anche avvalendosi dell'esercizio dei poteri istruttori d'ufficio ex art. 421 c.p.c. - e solo nel caso in cui perduri l'incertezza probatoria si farà applicazione della regola residuale desumibile dall'art. 2697, co. 1, cod. civ., rigettando la domanda del lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua pretesa (cfr. Cass. n. 3822/2019).
Ebbene, prosegue la Corte, nel caso di specie l'affermazione della Corte territoriale secondo cui «per il lavoratore è sufficiente dimostrare l'intervenuta cessazione del rapporto di lavoro mentre è onere del datore di lavoro dimostrare che il rapporto è venuto meno per ragioni diverse» - da cui viene fatta discendere la conseguenza che nel caso in esame la società non avrebbe in alcun modo dimostrato che il rapporto sia cessato per ragioni diverse dal licenziamento e che pertanto il lavoratore era stato licenziato oralmente - è in contrasto con la richiamata regula iuris. Per tali motivi, la Corte ha cassato la sentenza impugnata con rinvio alla medesima Corte d'Appello in diversa composizione.

Licenziamento per giusta causa/1

Cass. Sez. Lav. 23 maggio 2019, n. 14062

Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich; P.M. Cimmino; Ric. E. I. S.r.l.; Controric. L.F.;

Licenziamento – Giusta causa – Tipizzazione delle fattispecie previste dal contratto collettivo – Vincolatività – Non sussiste

In materia disciplinare, ai fini dell'apprezzamento della giusta causa di recesso, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice, purché vengano valorizzati elementi concreti della fattispecie, di natura oggettiva e soggettiva, coerenti con la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che con i principi radicati nella coscienza sociale, idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario.
NOTA
La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale pronunciata in sede di opposizione ex art. 1, comma 57 della legge n. 92 del 2012, accoglieva la domanda di annullamento dei licenziamenti intimati dalla datrice di lavoro al dipendente - funzionario con qualifica di Quadro, addetto alle forniture -, per essersi appropriato di derrate alimentari ed attrezzature tecniche appartenenti ad una ditta fornitrice (riguardo al primo licenziamento), e per aver effettuato una domanda di fornitura di catering al di fuori delle procedure aziendali ed in assenza di richiesta da parte della struttura interna della società datrice interessata all'evento, nonché di accettazione del preventivo di spesa (riguardo al secondo licenziamento).
In particolare, la Corte rilevava, con riferimento al primo licenziamento, che nessun fatto materiale qualificabile come "sottrazione" era stato posto in essere dal lavoratore e, con riferimento al secondo licenziamento, che i comportamenti del dipendente, accertati in sede istruttoria, dovevano essere puniti con la sanzione conservativa prevista dal CCNL per casi affini.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società affidato a due motivi.
Con il primo motivo di ricorso la società ricorrente denunciava vizio di motivazione per avere la Corte distrettuale omesso di considerare la sottrazione di numerosi beni ritrovati nell'abitazione del dipendente.
Col secondo motivo la società denunciava, altresì, violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c., nonché dell'art. 25 del CCNL applicabile - che rinviava al codice disciplinare, definito con Accordo sindacale nazionale del 28.7.1982 -, avendo la Corte distrettuale fatto rientrare l'addebito, "per affinità", nelle ipotesi di cui al punto 1 del codice disciplinare, che contemplava mere violazioni di ordini e/o la negligente esecuzione dei compiti da svolgere, punite con sanzioni conservative, in tal modo trascurando di considerare l'abuso della posizione di funzionario Quadro rivestita dal dipendente, nonché il fatto che il comportamento tenuto dal dipendente aveva consentito di ordinare al fornitore beni non richiesti dalle strutture e non destinati al datore, facendo ricadere sulla società i relativi costi.
Secondo quanto sostenuto dal ricorrente la condotta posta in essere dal dipendente poteva essere agevolmente ricondotta nell'ambito degli "atti tali da far venire meno radicalmente la fiducia nei confronti del lavoratore" - suscettibili di provvedimento espulsivo senza preavviso -, oppure nell'ambito delle condotte del lavoratore che "si avvale della propria posizione funzionale nell'azienda per procurare un ingiusto vantaggio a sé o ad altri o per arrecare ad altri un danno" - suscettibili di licenziamento con preavviso -.
La Suprema Corte rigettava il ricorso.
In relazione al primo motivo di ricorso la Suprema Corte ha rilevato che la Corte territoriale, confrontando le risultanze istruttorie, con ampia argomentazione era giunta a ritenere che non era stata provata, con adeguata attendibilità, l'appartenenza di tutte le confezioni di bibite alla società fornitrice, ed inoltre che le poltrone erano destinate ad essere utilizzate in un imminente evento della società datrice, mentre gli altri oggetti erano stati prestati al dipendente.
La Suprema Corte ha, inoltre, rilevato che in materia disciplinare, ai fini dell'apprezzamento della giusta causa di recesso, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice, purché vengano valorizzati elementi concreti della fattispecie, di natura oggettiva e soggettiva, coerenti con la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che con i principi radicati nella coscienza sociale, idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario (cfr. Cass. 7 novembre 2018, n. 28492; Cass. 16 aprile 2018, n. 9396; Cass. 5 aprile 2017, n. 8826; Cass. 23 settembre 2016, n. 18715; Cass. 24 giugno 2016, n. 13149; Cass. 28 gennaio 2016, n. 1595; Cass. 3 dicembre 2014, n. 25608).
La Suprema Corte ha chiarito, altresì, che dalle valutazioni del codice disciplinare il giudice non può prescindere. Ed infatti, nell'individuazione delle condotte costituenti giusta causa di recesso, pur non essendo vincolante la tipizzazione delle fattispecie previste dal contratto collettivo, la scala valoriale ivi recepita deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c., con la conseguenza che le parti ben potranno sottoporre il risultato di tale valutazione, cui è pervenuto il giudice di merito, allo scrutinio di legittimità sotto il profilo della violazione del parametro integrativo della clausola generale, costituito dalle previsioni del codice disciplinare.
Con specifico riferimento al caso di specie, la Suprema Corte ha rilevato che la Corte territoriale aveva correttamente ritenuto che, alla luce della scala valoriale fornita dal contratto collettivo, la condotta posta in essere dal dipendente non presentava profili di gravità tali da ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario e da giustificare la sanzione espulsiva. Ed invero, la Corte distrettuale ha rilevato che tutte le ipotesi delineate dalle parti sociali come suscettibili di sanzione espulsiva fanno riferimento a comportamenti dolosi e/o dolosamente preordinati ad arrecare danno all'azienda, connotati di particolare gravità, ai quali non potevano ricondursi le condotta contestate al dipendente.

Licenziamento per giusta causa/2

Cass. Sez. Lav. 5 luglio 2019, n. 18195

Pres. Di Cerbo; Rel. Blasutto; P.M. Celentano; Ric. P.I. S.p.A.; Controric.Lavoratore;

Licenziamento per giusta causa - Proporzionalità - Tipizzazioni contenute nel contratto collettivo - Vincolatività - Non sussiste

Le tipizzazioni delle fattispecie previste dal contratto collettivo nell'individuazione delle condotte costituenti giusta causa di recesso non sono vincolanti per il giudice, ma la scala valoriale formulata dalle parti sociali deve costituire uno dei parametri a cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c..
NOTA
La Corte di appello di Roma, ha confermato la sentenza pronunciata dal Tribunale di Cassino in sede di opposizione ex art. 1, comma 57 della legge n. 92 del 2012, ritenendo che la condotta posta in essere dalla lavoratrice - consistente nella distruzione volontaria di circa 20kg di materiale pubblicitario da consegnare su incarico di una ditta committente – integrasse un'ipotesi di infrazione punibile con una sanzione conservativa.
La Corte territoriale ha ritenuto illegittimo il licenziamento, in quanto la condotta contestata non sarebbe stata riconducibile ad alcuna delle ipotesi previste dal contratto collettivo e richiamate nella lettera di contestazione disciplinare, che avrebbero giustificato l'applicazione della sanzione espulsiva.
Avverso tale pronuncia la Società ha proposto ricorso per cassazione, denunciando, in particolare, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2104, 2105, 2106 e 2119 c.c. in combinato disposto con l'art. 54, comma VI lett. c) e con l'art. 54, comma III lett f) del CCNL applicato, sull'assunto che la volontaria e dolosa violazione della norma regolamentare che vieta al dipendente la distruzione di materiale postale e pubblicitario, integri una giusta causa di recesso.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso ed ha cassato la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, anche in ordine alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
In accoglimento del primo motivo di ricorso, la Corte, evidenziando che sui lavoratori dipendenti di aziende che garantiscono un servizio pubblico gravi l'obbligo di assicurare affidabilità nei confronti, non solo del proprio datore di lavoro, ma anche dell'utenza, ha ribadito il principio secondo cui «in materia disciplinare non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva ai fini dell'apprezzamento della giusta causa di recesso, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice, purchè vengano valorizzati elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, coerenti con la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che con i principi radicati nella coscienza sociale, idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario (v. Cass. n. 28492 del 2018)».
Il Giudice di legittimità ha precisato che la scala valoriale recepita dal CCNL costituisce uno dei parametri a cui il Giudice di merito deve far riferimento, nell'ambito della propria attività valutativa relativa alla sussistenza della giusta causa, per riempire di contenuto la clausola generale di cui all'art. 2119 c.c.
L'accertamento demandato al giudice di merito non si esaurisce, infatti, nella tipizzazione contenuta nel codice disciplinare e non può ritenersi esaustivo se limitato alla sola verifica della riconducibilità della fattispecie concreta ad una di quelle astrattamente previste dalla contrattazione collettiva come ipotesi di giusta causa di recesso, in quanto tale nozione ha carattere legale e rispetto ad essa non sono vincolanti le previsioni dei contratti collettivi, che hanno valenza meramente esemplificativa.
Peraltro, nel caso di specie, lo stesso contratto collettivo ha definito l'elencazione delle ipotesi di recesso per giusta causa come non tassativa, né esaustiva, confermandone dunque la valenza esemplificativa.
Applicando tali principi, la Suprema Corte ha ritenuto meritevole di cassazione la sentenza della Corte territoriale, la quale avrebbe pertanto dovuto valutare l'intensità dell'elemento psicologico nel comportamento consapevole e volontario di violazione della norma interna, nonché il prevedibile pregiudizio alla regolarità del servizio pubblico in ragione della condotta tenuta dal dipendente.
La Suprema Corte ha infatti richiamato il principio secondo cui, in caso di licenziamento per giusta causa, rileva ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro, dovendosi ritenere determinante, ai fini di tale valutazione, «l'influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza».

Licenziamento per inabilità al lavoro

Cass. Sez. Lav. 9 luglio 2019, n. 18399

Pres. Cerro; Rel. Cinque; P.M. Cimino; Ric. A.V.; Controric. P.S. S.r.l.;

Sopravvenuta inabilità - Accertamento della Commissione medica Asl - Valore vincolante - Esclusione - Rifiuto del lavoratore di sottoporsi ad accertamento tecnico giudiziale su invito del datore - Illegittimità - Conseguenze - Legittimità del licenziamento

In tema di licenziamento per inabilità al lavoro, il giudizio della Commissione medico-ospedaliera di cui alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 5 non ha valore vincolante nè per il giudice, che può disporre consulenza tecnica d'ufficio per accertare la sussistenza delle condizioni di inabilità, nè per il datore di lavoro il quale, ai fini della risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione, è tenuto altresì a provare di non potere destinare il lavoratore ad altre mansioni (anche inferiori) compatibili con lo stato di salute e attribuibili senza alterare l'organizzazione produttiva, sempre che il dipendente non abbia già manifestato a monte il rifiuto di qualsiasi diversa assegnazione.
NOTA
Il Tribunale di Nocera ha respinto il ricorso di un dipendente volto alla declaratoria di nullità del licenziamento per asserita violazione della L. n. 68/99 e per possibilità di impiego in mansioni alternative equivalenti. Il recesso era stato intimato a seguito del rifiuto manifestato dal lavoratore di sottoporsi ad una consulenza tecnica di ufficio medico-legale essendo, a suo dire, le condizioni di salute già state già accertate in via definitiva dagli organi pubblici (INPS e ASL). La pronunzia di rigetto è stata confermata dal medesimo Tribunale in sede di opposizione e, successivamente, dalla Corte di appello di Salerno, che ha rigettato il reclamo.
A fondamento della decisione, i giudici territoriali hanno ha rilevato: 1) che erano intervenuti plurimi accertamenti medici di esito differente da parte di diversi organi (medico competente dell'azienda, Commissione medica presso la ASL; Commissione per l'accertamento dell'handicap; Commissione INPS) e, attese le risultanze non concordanti, l'azienda aveva chiesto al Tribunale ex art. 696 c.p.c. un apposito accertamento finalizzato a dissipare ogni dubbio; 2) che il dipendente aveva opposto un netto e persistente rifiuto di sottoporsi a tale accertamento; 3) che il rifiuto andava considerato ingiustificato in quanto l'accertamento giudiziale prevale su quello svolto in sede amministrativa; 4) che, a fronte dei motivi di recesso, risultavano irrilevanti e prive di fondamento le altre doglianze relative sia alle possibili mansioni impiegatizie alternative da svolgere - essendo il ricorrente stato assunto quale operaio e non impiegato - sia alla mancata osservanza da parte dell'azienda della procedura prevista dall'art. 10 L. n. 68/99 non risultando che il ricorrente fosse stato assunto come disabile.
Avverso tale decisione il dipendente ha proposto ricorso per Cassazione, censurandola sotto svariati profili e, per quanto qui rileva, lamentando la violazione dell'art. 5 dello Statuto dei lavoratori, per avere la Corte territoriale ritenuto illegittimo il suo essersi sottratto all'accertamento della residua capacità lavorativa, quando, invece, vi era un giudizio medico di seconda istanza che lo aveva già espressamente dichiarato non idoneo al servizio assegnatogli.
Nel respingere la censura la Suprema Corte afferma il principio di cui alla massima, già sancito in precedenti (Cass. 17 giugno 2015, n. 12489). La Cassazione, richiamando in motivazione specifiche pronunzie (Cass. 19 ottobre 2000, n. 13863) sottolinea la natura garantistica dell'accertamento della idoneità al lavoro svolto in sede giudiziale, per cui, in presenza di un contrasto di valutazioni medico-amministrative, la sottrazione del lavoratore ad una verifica del generale potere di controllo del giudice risulta del tutto ingiustificata, come correttamente ritenuto dalla Corte territoriale. (Cass. 10 ottobre 2013, n. 23068).
Il ricorso viene, quindi, respinto.

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