Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Impugnazione di licenziamento
Licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica
Licenziamento disciplinare e previsione dei contratti collettivi
Licenziamento per insubordinazione
Nozione di mobbing


Impugnazione di licenziamento

Cass. Sez. Lav. 11 luglio 2019, n. 18705

Pres. Napoletano; Rel. Bellè Ric. A.S.; Controric. C.D.F.;

Lavoro subordinato – Licenziamento individuale – Impugnazione – Vizi del licenziamento – Possibilità di sollevare nuovi o diversi vizi del licenziamento dopo la proposizione del primo atto introduttivo – Esclusione – Applicabilità al licenziamento delle nullità cd. di protezione – Esclusione

La disciplina della invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità rispetto a quella generale delle invalidità contrattuali, desumibile dalla previsione di un termine di decadenza, dopo la necessaria impugnazione stragiudiziale, per il promovimento dell'azione giudiziale. Ne consegue che la parte, dopo avere proposto il ricorso giudiziale, non può sollevare in giudizio nuove ragioni di invalidità del recesso datoriale, che non siano giustificate da fatti sopravvenuti o che si provi non fossero conoscibili, né il giudice può rilevare di ufficio ragioni di invalidità del licenziamento diverse da quelle eccepita dalla parte
NOTA
Nel caso in esame la Corte d'Appello di Bari aveva respinto, confermando la decisione del Tribunale, l'impugnazione proposta dal lavoratore, dirigente comunale, avverso il licenziamento disciplinare intimato allo stesso dall'ente datore di lavoro.
Il licenziamento era motivato dall'avere il lavoratore falsamente attestato la presenza in servizio di sua moglie, anch'essa dipendente del medesimo ente.
La Corte territoriale, per quanto qui ancora interessa, aveva ritenuto tardiva la deduzione di illegittimità della sanzione per violazione delle regole di composizione e funzionamento dell'Ufficio Procedimento Disciplinari (U.P.D.) sollevata dal lavoratore, in quanto la stessa era stata proposta per la prima volta soltanto nel corso del processo introdotto con l'opposizione del lavoratore avverso l'ordinanza resa nella prima fase del rito speciale (disciplinato dalla L. 92/2012). Mentre la prima fase di tale rito non prevede l'applicazione del regime di preclusioni tipico del rito del lavoro, lo stesso torna ad operare a partire – appunto – dalla fase successiva.
Contro la decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso in Cassazione il lavoratore il quale, in sintesi, sosteneva che la Corte territoriale avesse errato nel ritenere tardive e inammissibili le sue deduzioni circa l'illegittimità del licenziamento, vertenti principalmente sulla composizione dell'Ufficio Procedimenti Disciplinari e sul fatto che la sanzione avrebbe dovuto essere consegnata da soggetto diverso dall'U.P.D. In particolare il lavoratore sosteneva che le ragioni di illegittimità addotte costituirebbero ipotesi di nullità c.d. di protezione e che, pertanto, sarebbero sempre rilevabili d'ufficio con conseguente impossibilità per il giudice di considerare le stesse tardive.
La Corte di Cassazione ha respinto le argomentazioni del ricorrente e rigettato il ricorso.
La Suprema Corte ha infatti rilevato come l'ordinamento vigente preveda una disciplina del tutto peculiare per l'impugnazione del licenziamento secondo la quale, non solo la stessa deve essere effettuata entro un dato termine ma, inoltre, le molteplici possibili cause di invalidità o inefficacia del recesso impongono che i motivi di impugnazione e le circostanze di fatto su cui fondano debbano essere dedotti ed allegati in giudizio sin dal primo atto introduttivo.
Il peculiare assetto normativo descritto esclude la possibilità di applicare al licenziamento ed alla sua impugnazione i principi e le regole relativi alle impugnative negoziali ed alle c.d. nullità di protezione: le stesse, infatti, sarebbero incompatibili con la natura dello specifico atto e risulterebbero comunque derogate dalla disciplina prevista dal legislatore, basata – come sopra esposto – su un rigido sistema di preclusioni.
Sulla scorta di tali argomentazioni la Suprema Corte ha ribadito il suo consolidato principio di diritto per cui: «la disciplina della invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità rispetto a quella generale delle invalidità contrattuali, desumibile dalla previsione di un termine di decadenza, dopo la necessaria impugnazione stragiudiziale, per il promovimento dell'azione giudiziale. Ne consegue che la parte, dopo avere proposto il ricorso giudiziale, non può sollevare in giudizio nuove ragioni di invalidità del recesso datoriale, che non siano giustificate da fatti sopravvenuti o che si provi non fossero conoscibili, né il giudice può rilevare di ufficio ragioni di invalidità del licenziamento diverse da quelle eccepita dalla parte».
Con riferimento al caso di specie, in applicazione del principio di cui sopra, la Suprema Corte ha confermato che le deduzioni del lavoratore circa asseriti vizi del licenziamento, essendo state sollevate soltanto nel corso del giudizio incardinato con l'opposizione all'ordinanza emessa all'esito del rito cd. Fornero, sono da considerarsi tardive come correttamente fatto dalla Corte territoriale.

Licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica

Cass. Sez. Lav. 16 luglio 2019, n. 19025

Pres. Di Cerbo; Rel. Patti; P.M. Cimmino; Ric. G.R.; Contr. M.B.M. s.r.l.;

Licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica – Mera ineseguibilità della prestazione – Esclusione – Obbligo di repechage in mansioni anche inferiori – Sussistenza – Onere di allegazione e prova – In capo al datore di lavoro.

In caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, l'impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo oggettivo di recesso non è ravvisabile per effetto della sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal lavoratore, perché può essere esclusa dalla possibilità di adibire il dipendente ad una diversa attività, che sia riconducibile alle mansioni svolte o a quelle equivalenti, ex art. 2103 c.c. o, se ciò sia impossibile, a mansioni inferiori purché tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore. L'esistenza di tale posizione costituisce onere di allegazione e prova del datore di lavoro.
NOTA
La Corte di appello di Bologna confermava la sentenza di primo grado che aveva respinto la domanda avanzata da una lavoratrice tesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatole per sopraggiunta inidoneità fisica alle mansioni di meccanico montatore.
La Corte di merito non solo aveva escluso la violazione, da parte del datore di lavoro, delle prescrizioni stabilite dal d. lgs. 626/1994 e dal d. lgs. 81/2008 in tema di movimentazione carichi, ma aveva ritenuto legittimo anche il successivo licenziamento per la accertata impossibilità di assegnazione della lavoratrice a mansioni compatibili equivalenti o, anche, inferiori.
Avverso tale pronuncia la lavoratrice propone ricorso per cassazione denunciando, in particolare, la violazione dell'art. 3, l. n. 604/1966 per illegittimità del licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica dovuta a responsabilità datoriale per inadempimento all'obbligo di sicurezza prescritto dall'art. 2087 c.c.
La Corte di Cassazione accoglie il ricorso e afferma che è principio consolidato quello secondo cui, in caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, l'impossibilità della prestazione lavorativa, quale giustificato motivo oggettivo di recesso, non è ravvisabile per effetto della sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal lavoratore, perché può essere esclusa dalla possibilità di adibire il dipendente ad una diversa attività, che sia riconducibile alle mansioni svolte o a quelle equivalenti, ex art. 2103 c.c. o, se ciò sia impossibile, a mansioni inferiori purché tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore (Cass. 18 aprile 2011, n. 8832). E l'esistenza di tale posizione costituisce onere di allegazione e prova del datore di lavoro (Cass. 3 agosto 2018, n. 20497). Conseguentemente, prosegue la sentenza di legittimità, senza che ciò comporti adattamenti organizzativi eccessivi nei luoghi di lavoro - da valutarsi in relazione alle peculiarità dell'azienda ed alle relative risorse finanziarie - in applicazione dell'art. 3, comma 3-bis, d. lgs. 216/2003, ai fini della legittimità del licenziamento di un lavoratore per inidoneità fisica sopravvenuta derivante da una condizione di handicap, occorre una rigorosa verifica della sua diversa utilizzabilità all'interno dell'impresa (Cass. 26 ottobre 2018, n. 27243).
A parere della Cassazione, i giudici di merito nella sentenza impugnata, pur richiamando correttamente i principi sopra enunciati, in realtà, li hanno disattesi nell'accertamento in fatto concretamente operato, avendolo limitato soltanto alle mansioni effettivamente svolte dalla lavoratrice, ma non anche ad altre attività. Conseguentemente, la sentenza viene cassata con rinvio alla corte di appello di Bologna perché proceda a tale rigoroso accertamento.

Licenziamento disciplinare e previsione dei contratti collettivi

Cass. Sez. Lav. 9 luglio 2019, n. 18401

Pres. Nobile; Rel. Cinque; Ric. S.Q.; Controric. M.C.T. S.p.A.

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale – Licenziamento disciplinare - Previsione dei contratti collettivi - Tassatività - Esclusione - Valutazione del giudice di merito – Necessità - Fattispecie.

L'elencazione delle ipotesi di giusta causa (nonché di giustificato motivo soggettivo) di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha, al contrario delle sanzioni disciplinari con effetto conservativo, valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un'autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all'idoneità di un grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.
NOTA
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ha ribadito il consolidato orientamento secondo cui la circostanza che la disciplina collettiva non qualifichi espressamente un determinato comportamento del lavoratore quale giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento non preclude al giudice del merito di valutare l'idoneità dello stesso, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, a giustificare un provvedimento espulsivo.
Nel caso di specie, la società datrice aveva intimato il licenziamento per giustificato motivo soggettivo ad un lavoratore per aver concorso, con altri cinque soggetti, alla detenzione e messa in circolazione in territorio italiano di un quantitativo di tabacco lavorato estero di contrabbando superiore a 10 Kg., al fine di trarne un profitto.
La Corte d'Appello di Reggio Calabria, confermando la pronuncia del Tribunale di Palmi, aveva respinto l'impugnativa del licenziamento proposta dal dipendente.
Avverso tale decisione, il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, lamentando, tra gli altri pretesi vizi, che la Corte territoriale avesse dato rilievo, ai fini del proprio giudizio, alla reiterazione ed alla recidiva del comportamento del lavoratore, elementi che non venivano in alcun modo contemplati dalla contrattazione collettiva ai fini dell'irrogazione di una sanzione espulsiva.
La Suprema Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato che «l'elencazione delle ipotesi di giusta causa (ma vale anche per il giustificato motivo soggettivo) contenuta nei contratti collettivi ha, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude autonoma valutazione del giudice di merito in ordine alla idoneità di un grave inadempimento o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore».

Licenziamento per insubordinazione

Cass. Sez. Lav. 15 luglio 2019, n. 18887

Pres. Nobile; Rel. Cinque; P.M. Celentano; Ric. L.M..; Controric. S.G.S.I. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Festività infrasettimanali - Diritto soggettivo del lavoratore all'astensione dal lavoro - Sussiste – Svolgimento prestazione lavorativa – Decisione unilaterale del datore - Rifiuto del lavoratore di rendere la prestazione lavorativa - Licenziamento per insubordinazione - Ilegittimità - Fattispecie.

In occasione delle festività infrasettimanali (celebrative di ricorrenze civili o religiose) sussiste un diritto soggettivo del lavoratore di astenersi dallo svolgimento della propria prestazione lavorativa. Tale diritto non può essere posto nel nulla in forza di una determinazione unilaterale del datore di lavoro, essendo la rinuncia al riposo nelle festività infrasettimanali rimessa esclusivamente all'accordo tra datore di lavoro e lavoratore o ad accordi sindacali stipulati da organizzazioni sindacali cui il lavoratore abbia conferito esplicito mandato.
NOTA
Il caso di specie riguarda il licenziamento per giusta causa intimato da una società nei confronti di un proprio dipendente che si era rifiutato di svolgere la prestazione lavorativa in un giorno festivo infrasettimanale (nello specifico, il 1 maggio).
La Corte d'Appello di Catania, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava legittimo il licenziamento e, in considerazione della non eccessiva gravità del comportamento del lavoratore, convertiva lo stesso in giustificato motivo soggettivo, condannando la società a corrispondere l'indennità sostitutiva del preavviso.
La Corte di Cassazione, adita dalla Società ha, innanzitutto, ribadito che «il diritto del lavoratore di astenersi dall'attività lavorativa in occasione delle festività infrasettimanali celebrative di ricorrenze civili è un diritto soggettivo ed è pieno con carattere generale» (cfr. sul punto Cass. n. 21209/2016). Tale diritto, prosegue la Corte, non può essere posto nel nulla dal datore di lavoro, potendosi rinunciare al riposo nelle festività infrasettimanali solo in forza di un accordo in tal senso tra datore di lavoro e lavoratore e non già in virtù di una scelta unilaterale (ancorché motivata da esigenze produttive) proveniente dal primo (cfr. Cass. n. 4435/2004). La rinunciabilità al relativo riposo è quindi rimessa al solo accordo delle parti individuali o ad accordi sindacali stipulati dalle organizzazioni sindacali cui il lavoratore abbia conferito esplicito mandato (Cass. n. 22482/2016).
I contratti collettivi, quindi, non potendo derogare in senso peggiorativo ad un diritto del singolo lavoratore se non nel caso in cui egli abbia loro conferito esplicito mandato in tal senso, non possono prevedere l'obbligo dei dipendenti di lavorare nei giorni di festività infrasettimanali, in quanto incidenti sul diritto dei lavoratori -indisponibile da parte delle organizzazioni sindacali - di astenersi dalla prestazione lavorativa (cfr. in tal senso Cass. n. 9176/1997).
In conclusione, la possibilità di svolgere attività lavorativa durante i suddetti giorni festivi deve essere rimessa alla volontà esclusiva di datore di lavoro e lavoratore, dovendo derivare da un loro accordo.Ciò premesso, nel caso di specie la Corte territoriale non si è attenuta ai suddetti principi, non avendo neppure accertato se nel caso in esame vi fosse o meno un tale accordo.
Per tali motivi, la Corte ha cassato la sentenza impugnata con rinvio alla medesima Corte d'Appello.

Nozione di mobbing

Cass. Sez. Lav. 12 luglio 2019, n. 18808

Pres. Napoletano; Rel. Bellè; Ric. C.S.; Controric. F.I.

Lavoro subordinato - Mobbing – Comportamenti vessatori – Sussistenza - Conflittualità reciproca - Irrilevanza.

Per configurare il mobbing, o lo straining, quali comportamenti vessatori nei confronti del dipendente non è necessario che ricorra conflittualità reciproca. Infatti, a fronte di atteggiamenti ostili del lavoratore, il datore di lavoro non è certamente legittimato ad indursi a comportamenti vessatori. Egli può infatti senza dubbio esercitare i propri poteri direzionali ex art. 2104, comma 2, c.c. come anche i poteri disciplinari, ma nei limiti stabiliti dalla legge e comunque nel rispetto di un canone generale di continenza, espressivo dei doveri di correttezza propri di ogni relazione obbligatoria, tanto più se destinata ad incidere continuativamente sulle relazioni interpersonali. Canone che è certamente e comunque superato allorquando i comportamenti datoriali ricevano una qualificazione in termini di vessatorietà.
NOTA
Nel caso di specie una lavoratrice adiva il Tribunale al fine di fare accertare l'illegittimità del licenziamento irrogatole dal Comune ed ottenere la condanna dello stesso al risarcimento del danno cagionato da comportamenti persecutori sul luogo di lavoro integranti, secondo la ricorrente, mobbing. Il Tribunale respingeva il ricorso.
La Corte d'Appello, al contrario, riformava la pronuncia di primo grado ritenendo fondate le pretese della lavoratrice.
Il Comune ha proposto ricorso per cassazione per avere, la sentenza d'appello mal apprezzato la sussistenza del mobbing, in violazione dell'art. 2087 c.c., con riferimento al fatto che era stata la stessa lavoratrice ad avere contribuito ad alimentare il clima interno al Comune ed al rilievo per cui non si configurerebbe il mobbing in caso di conflitto reciproco sul posto di lavoro, in quanto sarebbe necessaria, ontologicamente, l'unilateralità dell'aggressione del datore o di un collega e dunque la reciprocità escluderebbe l'esistenza dell'illecito.
La Corte di legittimità ha ritenuto corretto il procedimento seguito dalla Corte d'Appello laddove ha ritenuto non essere necessario il dolo per configurare un danno ex art. 2087 c.c. in quanto, come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, «anche inadempimenti colposi ad obblighi datoriali che influiscano dannosamente sull'ambito psichico dei lavoratori possono integrare la responsabilità ex art. 2087 c.c.». Oltre a ciò la Corte ha affermato che, in ogni caso, tale specificazione relativa all'elemento soggettivo è ininfluente quando i comportamenti datoriali sono stati qualificati come "vessatori" e quindi destinati ad opprimere deliberatamente l'altrui persona, integrando di per sé l'individuazione di un palese coefficiente intenzionale.
La Corte di Cassazione ha, quindi, rigettato il ricorso affermando che «non è vero che per configurare il mobbing (o lo straining) quali comportamenti vessatori nei confronti del dipendente sia necessario che non ricorra conflittualità reciproca. Infatti, a fronte di atteggiamenti ostili del lavoratore, il datore di lavoro non è certamente legittimato ad indursi a comportamenti vessatori. Egli può infatti senza dubbio esercitare i propri poteri direzionali ex art. 2104, comma 2, c.c. come anche i poteri disciplinari, ma nei limiti stabiliti dalla legge e comunque nel rispetto di un canone generale di continenza, espressivo dei doveri di correttezza propri di ogni relazione obbligatoria, tanto più se destinata ad incidere continuativamente sulle relazioni interpersonali. Canone che è certamente e comunque superato allorquando i comportamenti datoriali – ovverosia proprio della parte che nell'ambito del rapporto si pone in posizione di supremazia in quanto titolare del potere di dirigere i propri dipendenti – ricevano una qualificazione in termini di vessatorietà».

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