Contenzioso

Tariffe professionali, la Corte Ue salva le deroghe nazionali

di Marina Castellaneta

Riflettori di nuovo accessi sulle tariffe professionali inderogabili e sulla loro compatibilità con le regole Ue sulla prestazione dei servizi, sul diritto di stabilimento e sulla libera concorrenza. La Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza del 4 luglio 2019, C-377/17, è tornata sull’eliminazione delle tariffe fisse, fortemente voluta dalla Commissione europea, e sul margine di discrezionalità lasciato alle autorità nazionali per ragioni legate a esigenze di interesse generale.

Punto di equilibrio
La pronuncia, che ha riguardato le tariffe fissate per legge di architetti e ingegneri in Germania, apre la strada, infatti, a nuovi dibattiti sul sistema obbligatorio delle tariffe, anche a causa della scelta della Corte di giustizia, che ha sacrificato una maggiore chiarezza al raggiungimento di un punto di equilibrio tra la posizione di eliminazione delle tariffe inderogabili, perseguito dalla Commissione europea e l’orientamento di alcuni Stati che, in linea con gli Ordini professionali nazionali, sono per il mantenimento di onorari minimi e massimi inderogabili.

Da un lato, infatti, la Corte Ue ha precisato che le tariffe professionali fissate per legge, in via generale, sono un ostacolo al diritto di stabilimento, alla libera prestazione dei servizi e alla libera concorrenza; dall’altro lato, però, Lussemburgo ha lasciato un margine di discrezionalità, non particolarmente stretto, alle autorità nazionali.

Se, quindi, in via generale, gli Stati membri sono tenuti a eliminare, in base alle norme del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (dall’articolo 49 sul diritto di stabilimento all’articolo 56 sulla libera prestazione dei servizi, passando per l’articolo 101 sulla libera concorrenza) e alle direttive settoriali e generali come la 2006/123 relativa ai servizi nel mercato interno, recepita in Italia con il Dlgs 59/2010, ogni condizione che subordina l’accesso a un’attività di servizi o il suo esercizio a requisiti discriminatori, tra i quali vi sono le tariffe minime e/o massime (articolo 15), è anche vero che le autorità nazionali possono invocare, ad alcune condizioni, motivi di interesse generale per mantenerle in vigore.

La giurisprudenza
Ed è stata proprio la Corte di giustizia Ue, nel corso degli anni, tassello dopo tassello, a comporre il mosaico Ue sulle tariffe fisse. In particolare, l’Italia è stata al centro delle pronunce della Corte sia per le azioni di inadempimento avviate dalla Commissione Ue sia per i rinvii pregiudiziali dei giudici nazionali. In ordine di importanza, prima tra tutte, va ricordata la sentenza del 5 dicembre 2006, nelle cause Cipolla e Macrino - Capodarte (C-94/04 e C-202/04) che ha ispirato l’articolo 15 della direttiva 2006/123. Lussemburgo ha chiarito che il sistema italiano, che vedeva – prima dell’abrogazione con il Dl 223/2006 - la partecipazione del Consiglio nazionale forense e l’approvazione del ministro della Giustizia nella determinazione delle tariffe minime e massime per le prestazioni professionali degli avvocati, non violava le regole Ue. Già in quell’occasione, la Corte aveva optato per una valutazione caso per caso, perché non si può escludere che una tariffa determinata secondo onorari minimi fissi, in alcuni contesti, come il mercato italiano, con «un numero estremamente elevato di avvocati iscritti ed in attività», serva a evitare che la concorrenza si traduca nell’offerta di prestazioni al ribasso e il rischio «di un peggioramento della qualità dei servizi forniti».

Pertanto, in via generale, la predeterminazione di tariffe minime e massime, sottratta al libero mercato, è incompatibile con il diritto Ue (incluso quello primario), ma ragioni imperative di interesse pubblico, come la tutela dei consumatori, la trasparenza dei prezzi e la qualità dei servizi offerti, possono giustificare una deroga. Con l’onere della prova, però, come precisato nella sentenza del luglio 2019, posto a carico dello Stato, tenuto a mantenere il controllo del sistema, che non può essere affidato, come chiarito nella sentenza Arduino del 19 febbraio 2002 (C-35/99), a privati o a Ordini professionali forensi che possono presentare una proposta la cui adozione spetta però allo Stato.

Un orientamento confermato con la sentenza del 29 marzo 2011 (causa C-565/08), con la quale la Corte aveva dato torto alla Commissione in un procedimento di infrazione nei confronti dell’Italia considerata inadempiente per le tariffe massime degli avvocati. In quell’occasione, la Corte aveva evidenziato che Bruxelles non aveva fornito elementi e prove idonei a dimostrare che il sistema delle tariffe massime ostacolasse la libera circolazione dei professionisti e che fossero «privati della possibilità di penetrare nel mercato dello Stato membro ospitante in condizioni di concorrenza normali ed efficaci».

Dal quadro tracciato, si ricava che il margine di intervento degli Stati è rimasto in piedi, con l’obbligo però di garantire che la limitazione alla libertà di fissazione delle tariffe sia giustificata dalla necessità di tutelare i consumatori e la buona amministrazione della giustizia, alla luce del principio di proporzionalità rispetto all’obiettivo perseguito.

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