Contenzioso

Finisce nel casellario l’archiviazione per tenuità del fatto

di Patrizia Maciocchi

L’archiviazione per particolare tenuità del fatto va scritta nel casellario giudiziale. Le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 38954, prendono le distanze dall’orientamento consolidato, secondo il quale dell’archiviazione in base all’articolo 131-bis del Codice penale non deve restare traccia nel casellario, trattandosi di un provvedimento non definitivo. Ad avviso del Supremo collegio, c’è più di una buona ragione per discostarsi dalla tesi più restrittiva e nessuna controindicazione. I giudici escludono che la memorizzazione del provvedimento leda i diritti dell’ interessato. L’iscrizione costituisce, infatti, l’esito della procedura speciale (articolo 411, comma 1-bis del codice di rito penale) che assicura il contradditorio, blindando il diritto di difesa. Inoltre ha il solo scopo di “documentare” l’archiviazione con effetto limitato all’ambito del circuito giudiziario.

Nessuna menzione dell’archiviazione deve, infatti, comparire nei certificati rilasciati a richiesta dell’interessato, del suo datore di lavoro o della pubblica amministrazione.

Una certezza sulla quale non incide la modifica apportata al Testo unico del casellario giudiziale con il Dlgs 122/18, che avrà effetto dal 26 ottobre prossimo, con la quale è stata eliminata la tradizionale divisione tra certificato generale e certificato penale del casellario.

La previsione non incide sul contenuto del certificato unico - che dovrà essere rilasciato, dal 26 ottobre 2019, al datore di lavoro - che resta quello stabilito dal Testo unico per il certificato generale, con esclusione di qualunque riferimento ai provvedimenti adottati secondo l’articolo 131-bis.

Spazzato il campo dai dubbi sui pregiudizi, le Sezioni unite chiariscono che l’iscrizione è invece in linea con gli obiettivi della legge .

La necessità di lasciare una traccia di tutti i provvedimenti ispirati all’articolo 131-bis del Codice penale consente, infatti, al giudice, eventualmente, di valutare in futuro l’abitualità del reato attribuito all’indagato o all’imputato: una condizione che sarebbe di ostacolo a una nuova applicazione dell’istituto.

Il giudice non è così costretto ad affidarsi solo alle categorie tradizionali della condanna e della recidiva, con un criterio non esauriente per stabilire quanto il comportamento sia abituale. In quest’ottica va considerato fondamentale il riferimento che il terzo comma dell’articolo 131-bis fa alla commissione «di più reati della stessa indole».

L’abitualità che farebbe scattare il semaforo rosso al “beneficio” si può concretizzare «non solo in presenza di più condanne irrevocabili, ma anche nel caso in cui gli illeciti si trovino al cospetto del giudice che, dunque, è in grado di valutarne l’esistenza».

L’assenza dell’annotazione determinerebbe, quindi, la possibilità di ottenere molte volte un verdetto di non punibilità nei confronti della stessa persona.

L’iscrizione diventa così un antidoto indispensabile contro l’abuso dell’istituto.

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