Contenzioso

Il recesso per giustificato motivo e l’obbligo di repêchage

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repêchage
Congedo straordinario per assistenza ad un familiare disabile
Sicurezza sul lavoro e apprendistato
Studi professionali e subordinazione
Responsabilità solidale tra appaltatore e committente

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repêchage

Cass. Sez. Lav. 1° ottobre 2019, n. 24491

Pres. Nobile; Rel. Blasutto; Ric. N.D.S.R.L.; Controric. S.E.;

Lavoro subordinato – Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Obbligo di repêchage – Onere di allegazione e prova – Sussistenza in capo al datore di lavoro – Obbligo in merito a posizioni inferiori ma rientranti nel bagaglio professionale – Sussistenza

Grava sul datore di lavoro, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore, l'onere di provare in giudizio che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l'espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale
NOTA
Nel caso in esame la Corte di Appello di Trieste, in riforma della decisione presa in primo grado dal Tribunale di Gorizia, dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato dalla società datrice di lavoro alla lavoratrice per giustificato motivo oggettivo, condannando la stessa società, in virtù dell'applicabilità al rapporto in esame della cd. tutela obbligatoria, alla riassunzione della lavoratrice o al pagamento del risarcimento del danno nella misura di 2,5 mensilità.
La Corte d'Appello aveva motivato la propria decisione sostenendo che la giustificazione del recesso fosse smentita da alcune circostanze, tra cui quella che la società aveva dapprima, pochi mesi prima del recesso, assunto alcuni lavoratori a tempo indeterminato per mansioni simili a quella della ricorrente e successivamente aveva pubblicato, pochi mesi dopo il licenziamento, alcuni annunci di lavoro per profili professionali simili a quella della ricorrente. In aggiunta la Corte territoriale aveva rilevato la mancata dimostrazione da parte del datore di lavoro dell'impossibilità di utilmente reimpiegare la dipendente (violazione del cd. obbligo di repêchage).
Contro la decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso in Cassazione la società datrice di lavoro per numerosi motivi tra i quali, per quanto qui interessa, proprio la erroneità della sentenza nella parte in cui non aveva applicato quell'indirizzo interpretativo relativo al cd. obbligo di repêchage in virtù del quale è onere del lavoratore (che nel caso di specie non era stato adempiuto) allegare le posizioni in cui avrebbe potuto essere utilmente reimpiegato, conseguendo solo all'assolvimento di tale onere l'obbligo del datore di dimostrare l'impossibilità di adibire il lavoratore a tali posizioni.
La Suprema Corte ha respinto le doglianze della società datrice di lavoro e rigettato l'intero ricorso.
In punto di repêchage la Cassazione ha affermato che il principio giurisprudenziale invocato dalla società è ormai superato ed è stato sostituito in giurisprudenza dal principio per cui «grava sul datore di lavoro, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore, l'onere di provare in giudizio che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l'espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale».
La Suprema Corte dunque, non solo ha ribadito che è onere datoriale allegare e provare l'impossibilità di adibire il lavoratore licenziato ad altre posizioni, onere che comprende - secondo la Corte - anche posizioni inferiori e non equivalenti purché rientranti nel bagaglio professionale del lavoratore, ma ha anche affermato che tale principio era stato seguito e richiamato correttamente dalla Corte territoriale nel caso in esame e che, conseguentemente, la sentenza impugnata era immune da censure.

Congedo straordinario per assistenza ad un familiare disabile

Cass. Sez. Lav. 13 settembre 2019, n. 22928

Pres. Nobile; Rel. Negri Della Torre; Ric. S.S.; Contr. P.I. S.p.A.;

Congedo straordinario per assistenza ad un familiare disabile – Art. 42, d. lgs. n. 151/2001 – Obbligo del lavoratore di presentare l'istanza al datore di lavoro – Sussistenza.

L'istanza del lavoratore di fruire del congedo per assistere un familiare disabile ai sensi dell'art. 42 d.lgs. n. 151/2001 deve essere trasmessa non solo all'I.N.P.S., per le verifiche di competenza e in quanto soggetto che subisce l'onere finanziario del congedo, ma anche al datore di lavoro, per l'adozione delle misure organizzative che la richiesta dovesse rendere necessarie.
NOTA
La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, respingeva la domanda avanzata da un lavoratore tesa a far dichiarare la illegittimità del licenziamento intimatogli per intervenuto superamento del periodo di comporto.
A sostegno della decisione, la Corte di merito rilevava come da tale periodo non potesse scomputarsi quello di congedo richiesto, ai sensi del d.lgs. n. 151/2001, al fine di assistere un familiare con grave disabilità, considerato che tale congedo era stato autorizzato dall'INPS ma la relativa istanza non era stata portata a conoscenza del datore di lavoro.
Avverso tale sentenza il lavoratore propone ricorso per cassazione denunciando, con il primo motivo, la violazione dell'art. 42 d.lgs. n. 151/2001 nella parte in cui la Corte di appello ha ritenuto che il lavoratore fosse obbligato a presentare al datore di lavoro l'istanza di congedo straordinario nonostante non vi fosse una norma di rango primario che prescrivesse tale obbligo e, con successivo motivo, per avere la medesima Corte ritenuto che la fruizione del congedo fosse incompatibile con lo stato di malattia.
La Suprema Corte, dopo aver richiamato la normativa che disciplina la materia, rileva in primo luogo che l'art. 2, comma 4, del DM n. 278/2000 - contenente il Regolamento concernente congedi per eventi particolari - prevede che il datore di lavoro debba esprimersi entro dieci giorni sulla richiesta di congedo presentata dal lavoratore e, nel caso di diniego o concessione parziale, sia tenuto a motivarlo, a dimostrazione della esistenza di un'esigenza di contraddittorio tra le parti. In ogni caso, evidenziano i supremi giudici, l'art. 42, comma 5-ter, d. lgs. n. 151/2001, prevede che il lavoratore che fruisce del predetto congedo, ha diritto a percepire, in quel periodo, un'indennità corrispondente all'ultima retribuzione, con riferimento alle voci fisse e continuative del trattamento, calcolo che solo il datore di lavoro può compiere, così come "i datori di lavoro privati , nella denuncia contributiva, detraggono l'importo dell'indennità dall'ammontare dei contributi previdenziali dovuti all'ente previdenziale competente", a riprova del ruolo attivo del datore di lavoro nella gestione del congedo e, quindi, della necessità logica che egli sia stato destinatario della richiesta.
Conseguentemente, la richiesta di congedo non solo deve essere trasmessa all'I.N.P.S. per le verifiche di competenza e in quanto soggetto che ne subisce l'onere finanziario, ma anche al datore di lavoro, per l'adozione delle misure organizzative che la richiesta dovesse rendere necessarie.
Con riferimento all'altro motivo di ricorso, afferma la Cassazione, deve confermarsi l'orientamento secondo il quale, in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, devono essere inclusi nel calcolo del periodo, oltre ai giorni festivi, anche quelli di fatto non lavorati (ad es. per uno sciopero), che cadano durante il periodo di malattia indicato nel certificato medico, operando in difetto di prova contraria - che è onere del lavoratore fornire - una presunzione di continuità, in quei giorni, dell'episodio morboso addotto dal lavoratore quale causa dell'assenza dal lavoro e del mancato adempimento della prestazione dovuta, con la precisazione che la prova idonea a smentire tale presunzione di continuità può essere costituita solo dalla dimostrazione dell'avvenuta ripresa dell'attività lavorativa (cfr. Cass. 10 novembre 2004, n. 21385). Per tali ragioni la Cassazione respinge integralmente il ricorso.

Sicurezza sul lavoro e apprendistato

Cass. Sez. Lav. 2 ottobre 2019, n. 24629

Pres. Manna; Rel. Berrino; Ric. E.M.; Controric. INAIL

Infortunio sul lavoro – Responsabilità del datore di lavoro – Mancata sorveglianza – Apprendista - Rilevanza della giovane età (e dell'inesperienza) del lavoratore infortunato

Il dovere di sicurezza a carico del datore di lavoro a norma dell'art. 2087 cod. civ., assolto con l'adozione di tutte le cautele necessarie ad evitare il verificarsi dell'evento dannoso ed anche con l'adozione di misure relative all'organizzazione del lavoro, tali da evitare che lavoratori inesperti siano coinvolti in lavorazioni pericolose, si atteggia in maniera particolarmente intensa nei confronti dei lavoratori di giovane età e professionalmente inesperti, esaltandosi in presenta di apprendisti nei cui confronti la legge pone precisi obblighi di formazione e addestramento, tra i quali primeggia l'educazione alla sicurezza del lavoro. Conseguentemente, l'accertato rispetto delle norme antinfortunistiche stabilite dalla legge, non esonera il datore di lavoro dall'onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi dell'evento, con particolare riguardo all'assetto organizzativo del lavoro, specie quanto ai compiti dell'apprendista, alle istruzioni impartitegli, all'informazione e formazione sui rischi nelle lavorazioni, senza che al contrario possa assumere rilievo l'imprudenza dell'infortunato nell'assumere un'iniziativa di collaborazione nel cui ambito l'infortunio si sia verificato.
NOTA
Nel caso di specie una impresa edile proponeva appello contro la sentenza del Tribunale che aveva accolto la domanda di regresso esercitata dall'INAIL nei suoi confronti, in relazione alle prestazioni erogate ad un proprio dipendente infortunatosi sul lavoro.
La Corte d'Appello respingeva l'impugnazione dopo aver rilevato che «l'azione di regresso poteva essere proposta dall'INAIL anche in mancanza di accertamento del reato in sede penale e che, comunque, la datrice di lavoro si era resa responsabile dell'infortunio di cui trattasi per omessa sorveglianza».
La Società ha proposto ricorso per cassazione in particolare «per erronea ed omessa applicazione di legge in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., dell'art. 2087 cod. civ., (…) per erronea rappresentazione dei dati di fatto dedotti dall'istituto assicuratore, non corrispondenti alla loro reale dinamica, in conseguenza dei quali si verificò l'infortunio oggetto di causa». Secondo la Società i giudici di merito «non hanno tenuto conto dell'eccepita insussistenza di comportamenti eseguiti in violazione della norma di cui all'art. 2087 cod. civ., (…) inoltre il comportamento del lavoratore infortunatosi era stato assolutamente anomalo, imprevisto e non autorizzato». Oltre a ciò, secondo la Società, i giudici di merito hanno errato nel valutare il fatto che «l'infortunato era un'apprendista al quale avrebbe dovuto essere affiancato un operaio esperto» in quanto, da un lato, «l'attività prestata dall'infortunato era estremamente semplice ed adatta alla sua funzione», dall'altro che «la legge sull'apprendistato non prevedeva tra gli obblighi del datore di lavoro quello di dover affiancare all'apprendista un operaio esperto».
La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso, richiamando la costante giurisprudenza sul punto che afferma che «Il dovere di sicurezza a carico del datore di lavoro a norma dell'art. 2087 cod. civ., assolto con l'adozione di tutte le cautele necessarie ad evitare il verificarsi dell'evento dannoso ed anche con l'adozione di misure relative all'organizzazione del lavoro, tali da evitare che lavoratori inesperti siano coinvolti in lavorazioni pericolose, si atteggia in maniera particolarmente intensa nei confronti dei lavoratori di giovane età e professionalmente inesperti, esaltandosi in presenta di apprendisti nei cui confronti la legge pone precisi obblighi di formazione e addestramento, tra i quali primeggia l'educazione alla sicurezza del lavoro. Conseguentemente, l'accertato rispetto delle norme antinfortunistiche stabilite dalla legge, non esonera il datore di lavoro dall'onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi dell'evento, con particolare riguardo all'assetto organizzativo del lavoro, specie quanto ai compiti dell'apprendista, alle istruzioni impartitegli, all'informazione e formazione sui rischi nelle lavorazioni, senza che in contrario possa assumere rilievo l'imprudenza dell'infortunato nell'assumere, come nella specie, un'iniziativa di collaborazione nel cui ambito l'infortunio si sia verificato».

Studi professionali e subordinazione

Cass. Sez. Lav. 10 settembre 2019, n. 22634

Pres. Nobile; Rel. Ponterio; P.M. Sanlorenzo; Ric. M.F.; Controric. D.S.;

Autonomia/subordinazione - Collaboratore di uno studio legale senza titolo di avvocato - Riqualificazione del rapporto da autonomo a subordinato - Eterodirezione - Necessità

In caso di prestazioni rese da un professionista in uno studio professionale, la sussistenza o meno della subordinazione deve essere verificata in relazione alla intensità della etero-organizzazione della prestazione, al fine di stabilire se l'organizzazione sia limitata al coordinamento dell'attività del professionista con quella dello studio oppure ecceda le esigenze di coordinamento per dipendere direttamente e continuativamente dall'interesse dello stesso studio, responsabile nei confronti dei clienti di prestazioni assunte come proprie e non della sola assicurazione di prestazioni altrui.
NOTA
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha ritenuto che sia da qualificare come subordinata l'attività espletata da un lavoratore che, pur in assenza del titolo di avvocato, ha prestato attività di natura prevalentemente intellettuale a favore di uno studio legale.
La Corte d'Appello di Bari, decidendo sull'impugnazione proposta da un collaboratore di uno studio professionale, qualificava come subordinato tale rapporto di lavoro, condannando l'avvocato titolare dello studio al pagamento delle differenze retributive. Ad avviso della Corte, la presenza di direttive impartite dal titolare dello studio, lo svolgimento di mansioni di supporto a quelle dell'avvocato e l'osservanza di un orario di lavoro, costituivano elementi sintomatici della natura subordinata del rapporto.
L'avvocato ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell'art. 2094 c.c.
I criteri utilizzati dalla Corte territoriale per la qualificazione del rapporto come subordinato sarebbero stati, ad avviso del ricorrente, insufficienti e «compatibili anche con una collaborazione autonoma svolta in uno studio professionale». Il collaboratore poteva infatti assentarsi dallo studio senza necessità di comunicazione e di giustificazione al titolare, si rapportava direttamente ai clienti dello studio, non doveva osservare un orario fisso e prestabilito di lavoro, svolgeva una autonoma attività di arbitro e percepiva una retribuzione parametrata al 12,5% dei ricavi netti dello studio, con rischio del risultato dell'attività economica gravante sul medesimo.
La Suprema Corte ha ritenuto infondato il suddetto motivo di impugnazione.
La Corte di Cassazione ha dapprima ricordato che, ai sensi dell'art. 2094 c.c., l'assoggettamento al potere disciplinare e di controllo del datore di lavoro rappresenta una «modalità di essere del rapporto potenzialmente desumibile da un complesso di circostanze», sicché ove esso non sia agevolmente apprezzabile, come nel caso di prestazioni di natura intellettuale o professionale, è possibile fare riferimento, ai fini qualificatori, ad altri elementi indiziari (ad esempio, la continuità della prestazione, il rispetto di un orario predeterminato, la percezione a cadenze fisse di un compenso prestabilito, l'assenza in capo al lavoratore di rischio).
La Corte ha altresì precisato che la sussistenza o meno della subordinazione deve essere verificata in relazione all'intensità della etero-organizzazione della prestazione, al fine di stabilire se l'organizzazione sia limitata al coordinamento dell'attività del professionista con quella dello studio, oppure ecceda le esigenze di coordinamento. Pertanto, in caso di prestazioni lavorative caratterizzate da un elevato contributo professionale e che siano svolte nello studio di un professionista, occorre effettuare, ai fini del corretto inquadramento del lavoratore (se autonomo o subordinato) una attenta valutazione della natura delle mansioni. Occorre infatti valutare non solo la presenza di direttive impartite dal titolare dello studio e l'osservanza di un orario di lavoro, ma anche se l'attività prestata - di natura prevalentemente intellettuale - svolta dal lavoratore, sia di supporto a quelle dell'avvocato e nell'interesse dei clienti di quest'ultimo.
Su queste basi la Corte di Cassazione ha ritenuto che la sentenza impugnata si sia conformata ai principi di diritto sopra enunciati, sottraendosi alle censure di violazione dell'art. 2094 c.c.
La Corte di Cassazione ha quindi concluso per il rigetto del ricorso.

Responsabilità solidale tra appaltatore e committente

Cass. Sez. Lav. 4 settembre 2019, n. 22110

Pres. Manna; Rel. Mancino; Ric. INPS; Controric. T.T.C. S.r.l.

Lavoro - Lavoro subordinato - Costituzione del rapporto - Assunzione - Appalto di mano d'opera - D.Lgs. n. 276/2003, art 29, comma 2 - Termine di decadenza di due anni - Applicabilità all'ente previdenziale - Esclusione - Fondamento.

L'art. 29, comma 2, del D.Lgs. n. 276/2003 - che pone il termine di decadenza di due anni dalla cessazione dell'appalto per l'esercizio dei diritti dei prestatori di lavoro, dipendenti da imprese appaltatrici di opere e servizi nei confronti degli imprenditori appaltanti - pur facendo riferimento, oltre che ai diritti al trattamento economico e normativo, anche al diritto di pretendere l'adempimento degli obblighi derivanti dalle leggi previdenziali, limita l'ambito di efficacia del suddetto termine ai diritti suscettibili di essere fatti valere direttamente dal lavoratore, non potendosi estendere, invece, l'efficacia dell'anzidetta disposizione legislativa ad un soggetto terzo, quale l'ente previdenziale, i cui diritti scaturenti dal rapporto di lavoro disciplinato dalla legge si sottraggono al predetto termine biennale di decadenza.
NOTA
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha precisato i confini della responsabilità solidale tra appaltatore e committente circa i crediti retributivi e contributivi vantati dai lavoratori impiegati nell'appalto.
Nel caso di specie, la Corte d'Appello di Torino respingeva l'appello proposto dall'INPS avverso la sentenza di primo grado che, in accoglimento dell'eccezione di decadenza biennale proposta dall'opponente, aveva annullato l'avviso di addebito con il quale l'ente previdenziale aveva ingiunto alla società committente, ex art. 29 D.Lgs. n. 276/2003, il pagamento dei contributi relativi al periodo di durata dell'appalto (luglio 2009 – maggio 2010) con riferimento al rapporto di lavoro instaurato dall'appaltatore con un lavoratore.
Avverso tale pronuncia, l'INPS proponeva ricorso per cassazione, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 29, comma 2, del D.Lgs. n. 276/2003 laddove si era ritenuto che il termine di decadenza biennale dovesse applicarsi anche nei confronti dell'ente previdenziale e non già dei soli lavoratori.
Sul punto, la Suprema Corte rileva, anzitutto, che l'art. 29, comma 2, del D.Lgs. n. 276/2003, è stato sin dalla sua entrata in vigore incentrato sulla previsione di un vincolo di solidarietà tra committente e appaltatore, secondo un modulo legislativo che ha inteso rafforzare l'adempimento delle obbligazioni retributive e previdenziali, ponendo a carico dell'imprenditore che impiega lavoratori dipendenti da altro imprenditore il rischio economico di dover rispondere delle eventuali omissioni del secondo.
In particolare, a parere del Collegio, il rafforzamento di tale garanzia per i lavoratori viene perseguito anche attraverso la specificazione che il committente deve corrispondere non solo i trattamenti retributivi, ma anche i contributi previdenziali ai medesimi correlati. Del resto, l'obbligazione contributiva, pur essendo distinta ed autonoma rispetto a quella retributiva, ha natura indisponibile e va commisurata alla retribuzione che al lavoratore spetterebbe sulla base della contrattazione collettiva vigente (c.d. minimale contributivo); da ciò ne consegue - soggiunge la Suprema Corte - che la finalità di finanziamento della gestione assicurativa previdenziale pone ex se una relazione immanente e necessaria tra la retribuzione dovuta, secondo i parametri della legge previdenziale, e la pretesa impositiva dell'ente preposto alla realizzazione di tale tutela.
Sulla base di tali premesse, la Suprema Corte conclude, quindi, affermando che il termine biennale di decadenza previsto dall'articolo 29, D.Lgs. n. 276/2003, non può e non deve applicarsi all'azione promossa dagli enti previdenziali, soggetti, invece, al solo termine prescrizionale. Infatti, asserisce la Cassazione, laddove si ammettesse la possibilità che alla corresponsione di una retribuzione, a seguito dell'azione tempestivamente promossa dal lavoratore, non possa seguire il soddisfacimento anche dell'obbligo contributivo, solo perché l'ente previdenziale non ha azionato la propria pretesa nel termine di due anni dalla cessazione dell'appalto, si spezzerebbe, senza alcuna plausibile ragione e frustrando la mens legis, il nesso tra la retribuzione dovuta e l'adempimento dell'obbligo contributivo, «con ciò procurandosi un vulnus nella protezione assicurativa del lavoratore che, invece, l'art. 29 cit. ha voluto potenziare».

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