Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa e proporzionalità della sanzione
Licenziamento per giusta causa e presunzioni
Licenziamento per giusta causa per una condotta tipizzata nel contratto collettivo
Violazione dell'obbligo di fedeltà
Utilizzo del mezzo proprio da parte del lavoratore e responsabilità del datore

Licenziamento per giusta causa e proporzionalità della sanzione

Cass. Sez. Lav. 16 ottobre 2019, n. 26214

Pres. Nobile; Rel. Negri Della Torre; Ric. C.L.; Controric. P.I.

Giusta causa - Proporzionalità della sanzione - Reiterazione della condotta in un breve lasso temporale - Qualifica rivestita - Elemento soggettivo (per non aver il lavoratore fruito di un periodo di aspettativa per cura) - Rilevanza.

Giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione disciplinare sono nozioni che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama.
NOTA
Nel caso di specie un lavoratore veniva licenziato per giusta causa per aver effettuato tre annullamenti di deleghe F24 al fine di appropriarsi delle relative somme versate dai contribuenti. La Corte d'Appello, in sede di rinvio, dichiarava legittimo il licenziamento ritenendo «obiettivamente grave la condotta addebitata e tale da costituire chiara negazione dell'elemento fiduciario indispensabile per la permanenza del rapporto di lavoro; osservava inoltre come non potesse avere rilevanza scriminante, o comunque incidere sulla valutazione di proporzionalità, la circostanza che, nel periodo cui risalivano i fatti oggetto di contestazione disciplinare, il lavoratore fosse in cura presso il Servizio Tossicodipendenza di Reggio Calabria, non avendo egli comunicato alla società la propria condizione personale e non avendo chiesto di fruire di quegli istituti specifici, previsti dal C.C.N.L. di settore, volti ad assicurare il proficuo svolgimento dei trattamenti terapeutici e riabilitativi, istituti che, da un lato, lo avrebbero preservato dalla perdita del posto di lavoro e, dall'altro, impedito che il datore fosse esposto a comportamenti lesivi sia sul piano patrimoniale che di immagine».
Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 2119, 2106, 2729 c.c. e 115 c.p.c. per avere la Corte di appello, «nella valutazione della sussistenza della giusta causa e del rapporto di proporzionalità tra i fatti contestati e la sanzione inflitta, trascurato di considerare il profilo soggettivo della condotta, in tutti gli aspetti rilevanti nel caso concreto, e in particolare di esaminare sia la condizione di totale annullamento della volontà, nel tempo in cui i fatti furono compiuti, sia la considerazione sociale del fenomeno della tossicodipendenza e la legislazione che ne era derivata, con la precipua finalità di reinserimento del soggetto nella società e di tutela del posto di lavoro».
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ribadendo il principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo il quale «giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione disciplinare sono nozioni che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama».
La Suprema Corte ha quindi rigettato il ricorso concludendo che «la Corte territoriale ha invero compiuto un'articolata ricognizione della fattispecie sottoposta al suo giudizio, ponendo in rilievo come le condotte realizzate dal lavoratore fossero consapevolmente rivolte all'impossessamento di somme di denaro di rilevante importo conferite dai clienti dell'Ufficio postale; come tale comportamento fosse stato "reiterato" e altresì posto in essere "in tre distinte occasioni"; come esso fosse "aggravato dalla posizione del lavoratore che, per le specifiche mansioni affidategli, era tenuto a garantire l'osservanza degli obblighi contrattuali e disciplinari impostigli" e avesse comportato, anche per la sua reiterazione, "la lesione dell'immagine della società verso la clientela" e conclusivamente prevenendo ad una valutazione di irreparabile pregiudizio del vincolo di fiducia che tali condotte avevano determinato: valutazione peraltro non contrastata da una specifica denuncia di incoerenza di giudizio rispetto ai criteri e modelli comportamentali esistenti nella realtà sociale, anche per la specifica considerazione riservata dalla Corte di appello alla scelta del lavoratore di non fruire di istituti contrattuali che avrebbero consentito di evitare il compimento della condotta lesiva, nell'interesse proprio e dello stesso datore di lavoro».

Licenziamento per giusta causa e presunzioni

Cass. Sez. Lav. 9 agosto 2019, n. 21298

Pres. Balestrieri; Rel. Arienzo; P.M. Celentano; Ric. A.F.; Controric. U. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Licenziamento per giusta causa - Prove indiziarie - Presunzioni semplici - Deduzione del fatto da provare da quello noto - Criteri

Il convincimento del giudice può ben fondarsi anche su una sola presunzione, purché grave e precisa, nonché su una presunzione che sia in contrasto con altre prove acquisite, qualora la stessa sia ritenuta di tale precisione e gravità da rendere inattendibili gli elementi di giudizio ad essa contrari. Né occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, cioè che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto sia accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possano verificarsi secondo regole di esperienza.
NOTA
La Corte di Appello di Milano, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava l'illegittimità del licenziamento disciplinare intimato a un direttore di filale di un istituto di credito che, nel tentativo di impedire alla banca di scoprire talune operazioni abusive poste in essere da una collega di lavoro, aveva tenuto comportamenti contrari ai principi di correttezza, buona fede e diligenza.
In particolare, ad avviso della Corte territoriale, l'istruttoria espletata aveva permesso di ritenere «plausibile in relazione all'applicazione dei principi in tema di prova cd. indiretta» la ricostruzione dei fatti operata dalla banca e, dunque, legittimo il convincimento dalla stessa assunto in ordine alla imputabilità al dipendente del fatto contestato.
Il lavoratore ha presentato ricorso per Cassazione contestando la decisione impugnata, tra l'altro, nella parte in cui aveva ritenuto inattendibile la deposizione di un teste «preferendo» la prova presuntiva ex art. 2727 c.c.
La Suprema Corte ha ritenuto infondato il suddetto motivo di impugnazione.
Con riferimento alla decisione della Corte territoriale di fare ricorso alle presunzioni semplici al fine di desumere da fatti noti l'esistenza di un fatto la cui connotazione sia incerta, la Corte di Cassazione ha chiarito che «spetta al giudice di merito valutare l'opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge» e che «la censura per vizio di motivazione in ordine all'utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l'assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo» (in questo senso, Cass. n. 29781 del 12/12/2017; Cass. n. 21961 del 27/10/2010; Cass. n. 8023 del 2/4/2009 e Cass. n. 15737 del 21/10/2003).
La Suprema Corte ha altresì puntualizzato che «non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, cioè che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto sia accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possano verificarsi secondo regole di esperienza (cfr. Cass. n. 16993 del 18/7/2007; Cass. n. 4306 del 23/2/2010; Cass. n. 22656 del 31/10/20111; Cass. n. 22898 dell'8/10/2013) visto che la deduzione logica è una valutazione che, in quanto tale, deve essere probabilmente convincente, non oggettivamente inconfutabile».
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha dunque ritenuto che l'inferenza tratta dal giudice di appello sulla base della successione delle vicende che avevano visto protagonista il direttore di filiale (che aveva agito in stretta consequenzialità con il comportamento illecito posto in essere dalla collega di lavoro), non evidenziava «alcun elemento di illogicità ed implausibilità della ricostruzione fattuale», con conseguente legittimità del provvedimento espulsivo.
La Corte di Cassazione ha infine osservato che può prospettarsi una questione di violazione dell'art. 2729 c.c. esclusivamente nel caso in cui il giudice di merito, da un lato, contraddica il disposto di cui al comma 1 dell'articolo in questione (ai sensi del quale «Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi precise e concordanti»), affermando che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su fatti privi dei caratteri della gravità, precisione e concordanza, dall'altro, fondi la presunzione su «un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza degli indizi ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota» (Cass. SS.UU. n. 1785 del 2018; Cass. n. 19485 del 2017; Cass. n. 17457 del 2007).
Ad avviso della Corte di Casszione nel caso di specie non si è dunque verificata alcuna violazione del disposto dell'art. 2729 c.c.
Il ricorso del lavoratore è stato pertanto rigettato.

Licenziamento per giusta causa per una condotta tipizzata nel contratto collettivo

Cass. Sez. Lav. 10 ottobre 2019, n. 25573

Pres. Nobile; Rel. De Gregorio; Ric. L.R.S.V. S.p.A.; Controric. B.N.

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Licenziamento per giusta causa - Verifica in concreto - Necessità - Astratta corrispondenza del comportamento posto in essere alla condotta tipizzata nel contratto collettivo - Irrilevanza.

La valutazione in ordine alla legittimità del licenziamento disciplinare di un lavoratore per una condotta contemplata, a titolo esemplificativo, da una norma del contratto collettivo fra le ipotesi di licenziamento per giusta causa deve essere, in ogni caso, effettuata attraverso un accertamento in concreto, da parte del giudice di merito, della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente, nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche quando si riscontri l'astratta corrispondenza di quel comportamento alla fattispecie tipizzata contrattualmente, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo, con valutazione in senso accentuativo rispetto alla regola della "non scarsa importanza" dettata dall'art. 1455 c.c.
NOTA
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte discerne, ai fini dell'accertamento della giusta causa di recesso, tra la fattispecie dell'addormentamento sul posto di lavoro - punita dal CCNL Vigilanza con sanzione conservativa - e quella dell'abbandono del posto - sanzionabile dal medesimo contratto collettivo col recesso "in tronco".
Nel caso de quo, una guardia particolare giurata veniva licenziata per giusta causa dopo esser stata sorpresa mentre giaceva addormentata su un divano collocato in uno stand a una decina di metri di distanza dalla postazione di guardiania.
I Giudici del merito, in accoglimento dell'impugnativa, dichiaravano l'illegittimità del recesso, reputando integrata la meno grave ipotesi dell'addormentamento, anziché quella dell'abbandono del posto di lavoro, non ricorrendo «quel totale distacco al bene da proteggere richiesto dalla giurisprudenza». Segnatamente, la Corte territoriale rilevava come, sotto il profilo oggettivo, «il contesto ambientale non era tale da far temere un potenziale pregiudizio per lo stand da sorvegliare, le cui porte di accesso erano chiuse ed era presidiato all'interno da altre tre guardie»; sotto quello soggettivo, che il lavoratore «si trovava all'interno del padiglione in uno stand adiacente, dal quale era possibile vedere lo stand da sorvegliare», con ciò escludendosi una inequivoca «coscienza e volontà di non svolgere il proprio lavoro».
La società datrice proponeva ricorso per Cassazione, formulando plurime censure.
Il Supremo Collegio respinge l'impugnativa: sotto il profilo fattuale, stante anche la c.d. "doppia conforme", reputa definitivamente acclarata l'insussistenza di una fattispecie di abbandono del posto di lavoro, mancando tanto la «completa dismissione della condotta di protezione», quanto la «coscienza e volontà» di una tale dismissione; sotto quello giuridico, giudica, ad ogni modo, sproporzionato il provvedimento espulsivo, a mente dei principî per cui, da un lato, «pur essendo la giusta causa di licenziamento nozione legale rispetto alla quale non sono vincolanti le previsioni dei contratti collettivi (…) non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione»; dall'altro, anche qualora la condotta contestata sia «contemplata, a titolo esemplificativo, da una norma del contratto collettivo fra le ipotesi di licenziamento per giusta causa, deve essere, in ogni caso, effettuata attraverso un accertamento in concreto, da parte del giudice di merito, della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente, nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche quando si riscontri l'astratta corrispondenza di quel comportamento alla fattispecie tipizzata contrattualmente, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo, con valutazione in senso accentuativo rispetto alla regola della "non scarsa importanza" dettata dall'art. 1455 c.c.». Soggiungono – infine – i Giudici di legittimità che, in tema di licenziamento disciplinare, qualora, come nel caso di specie, il grave nocumento morale e/o materiale sia parte integrante della fattispecie sanzionatoria espulsiva, occorre accertarne la sussistenza, quale elemento costitutivo che osta alla prosecuzione del rapporto di lavoro, restando preclusa, in caso contrario, la sussunzione del caso concreto nell'astratta previsione della contrattazione collettiva.

Violazione dell'obbligo di fedeltà

Cass. Sez. Lav. 15 ottobre 2019, n. 26023

Pres. Nobile; Rel. Negri Della Torre; Ric. B.D.; Controric. B.P.D.B.S.C.P.A.;

Lavoro subordinato – Violazione obbligo di fedeltà – Condotte non ricomprese nell'art 2105 c.c. – Sussistenza

Lavoro subordinato – Licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo – Valutazione degli aspetti concreti del rapporto – Necessità – Rapporto di lavoro nel settore bancario – Particolare intensità vincolo fiduciario – Lesione del vincolo fiduciario –

Necessaria sussistenza di un danno per la banca – Esclusione
Dal collegamento dell'obbligo di fedeltà, di cui all'art. 2105 cod. civ., con i principi generali di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 cod. civ. deriva che il lavoratore deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dal suddetto art. 2105, ma anche da qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le sue possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto.
Nel caso di giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro, ed in particolare dell'elemento fiduciario; la valutazione relativa alla sussistenza del conseguente impedimento alla prosecuzione del rapporto deve essere operata con riferimento non già ai fatti astrattamente considerati, bensì agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi ed alla intensità dell'elemento intenzionale e di quello colposo e ad ogni altro aspetto correlato alla specifica connotazione del rapporto, fermo restando che, nell'ipotesi di dipendenti di istituti di credito, l'idoneità del comportamento contestato a ledere il rapporto fiduciario - rapporto che è più intenso nel settore bancario - deve essere valutata con particolare rigore ed a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro.
NOTA
Nel caso in esame la Corte d'Appello de L'Aquila dichiarava la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato dalla banca datrice di lavoro alla lavoratrice per avere la stessa consegnato all'ex direttore generale della banca, allora coinvolto in procedimenti penali, della documentazione riservata di proprietà dello stesso istituto di credito e a cui la dipendente non aveva ragione di accedere.
La Corte d'Appello riteneva particolarmente grave la condotta contestata e, conseguentemente, adeguata la sanzione espulsiva, in virtù degli stringenti obblighi di fedeltà e riservatezza imposti in linea generale a tutti i dipendenti degli istituti di credito.
Contro la decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso in Cassazione la lavoratrice per numerosi motivi tra i quali, per quanto qui interessa, proprio la erroneità della sentenza nella parte in cui aveva ritenuto violato l'obbligo di fedeltà in capo alla lavoratrice pur non avendo la stessa posto in essere alcun comportamento contrario ai contenuti specifici dell'art. 2105 c.c. e nonostante il fatto che le condotte della lavoratrice non avevano prodotto alcun danno per la banca. In aggiunta la Corte d'Appello, sempre a giudizio della lavoratrice, non aveva valutato, ai fini dell'apprezzamento dell'intensità del vicolo fiduciario tra la stessa e la banca, il livello di inquadramento e le mansioni di quest'ultima.
La Suprema Corte ha respinto le censure della lavoratrice e rigettato l'intero ricorso.
Con riferimento alla violazione degli obblighi di fedeltà la Cassazione ha confermato un suo solido orientamento secondo il quale «dal collegamento dell'obbligo di fedeltà, di cui all'art. 2105 cod. civ., con i principi generali di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 cod. civ. deriva che il lavoratore deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dal suddetto art. 2105, ma anche da qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le sue possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto».
Il comportamento posto in essere dalla lavoratrice quindi può legittimamente essere considerato una violazione dell'obbligo di fedeltà in capo alla stessa e può, allo stesso modo, fondare un licenziamento per giusta causa. Ciò anche in considerazione del fatto che, come la Suprema Corte ha più volte ribadito, in caso di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, la valutazione della lesione del vincolo fiduciario va effettuata non in astratto, bensì con riferimento agli aspetti concreti del singolo rapporto e che «nell'ipotesi di dipendenti di istituti di credito, l'idoneità del comportamento contestato a ledere il rapporto fiduciario - rapporto che è più intenso nel settore bancario - deve essere valutata con particolare rigore ed a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro».

Utilizzo del mezzo proprio da parte del lavoratore e responsabilità del datore

Cass. Sez. Lav. 11 ottobre 2019, n. 25689

Pres. Di Cerbo; Rel. Pagetta; Ric. M.G.B.; Contr. P.I. S.p.A.;

Autorizzazione all'utilizzo del veicolo di proprietà del lavoratore – Infortunio sul lavoro –Art. 2087 c.c. – Responsabilità del datore di lavoro – Sussistenza.

Qualora il dipendente sia autorizzato all'uso del veicolo di proprietà, in caso di infortunio lavorativo connesso alla conduzione del mezzo, il datore di lavoro non è esonerato dalla responsabilità ex art. 2087 c.c. ove tale infortunio possa essere posto in relazione causale con lo specifico rischio creato, in connessione alla conduzione del mezzo, da disposizioni datoriali relative alla modalità di esecuzione della prestazione.
NOTA
La Corte di appello di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado, aveva respinto la domanda avanzata da un lavoratore, portalettere, tesa ad ottenere la condanna del proprio datore di lavoro al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, conseguenti ad un infortunio occorsogli nel settembre 1995, mentre trasportava materiale postale da distribuire, su un ciclomotore di sua proprietà, alla cui utilizzazione era stato autorizzato ex l. n. 971/1969.
La Corte di appello, dopo aver premesso che l'art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, aveva ritenuto che l'utilizzo del mezzo proprio, a fronte della corresponsione di una specifica indennità economica, non poteva che implicare una completa autonomia operativa del lavoratore con conseguente inapplicabilità delle prescrizioni previste in caso di mezzo fornito dal datore di lavoro.
Avverso tale decisione, il lavoratore propone ricorso per cassazione denunciando l'erroneità della sentenza nella parte in cui aveva ritenuto che l'uso del mezzo proprio esonerasse il datore di lavoro dall'adozione delle precauzioni necessarie a garantire lo svolgimento in sicurezza della prestazione lavorativa.
La Suprema Corte ritiene la doglianza fondata, in quanto se è vero, come hanno sostenuto i giudici di merito, che la responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c. non è di carattere oggettivo, essa impone, però, al datore di lavoro di adottare tutte quelle misure e cautele atte a prevenire l'integrità psicofisica e la salute del lavoratore sul luogo di lavoro, tenuto conto del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio. La responsabilità datoriale, prosegue la Cassazione, incontra l'unico limite rappresentato dalla inesigibilità dal datore di lavoro della predisposizione di accorgimenti idonei a fronteggiare cause di infortunio del tutto imprevedibili (Cass. 29 marzo 2019, n. 8911). In tale prospettiva il datore di lavoro è stato ritenuto esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore presenta i caratteri di abnormità ed esorbitanza, riferiti al procedimento lavorativo "tipico" ed alle direttive ricevute, in modo da porsi quale causa esclusiva dell'evento, così integrando il cd. rischio elettivo, ossia una condotta personalissima del lavoratore idonea ad interrompere il nesso eziologico tra prestazione ed attività assicurata (Cass.5 settembre 2014, n. 18786).
Tanto premesso, calando i suddetti princìpi al caso in esame, a parere della Cassazione, è errata l'affermazione della Corte di appello secondo cui l'autorizzazione all'uso del mezzo proprio ed il pagamento della connessa indennità, implicando la completa autonomia operativa del prestatore, comporterebbero l'esonero per la parte datoriale da ogni responsabilità collegata alla guida del mezzo. Tale assunto, che si risolve nella prospettazione di una sorta di traslazione del rischio connesso all'espletamento della prestazione lavorativa per il solo fatto dell'autorizzazione all'uso del mezzo proprio, secondo i giudici di legittimità, oltre a non trovare riscontro nelle previsioni di legge che regolano l'autorizzazione all'uso del mezzo proprio per i dipendenti postali, non è coerente con il rilievo costituzionale degli interessi coinvolti (artt. 4 e 32 Cost.).
Dall'esame delle disposizioni in tema di autorizzazione all'uso del veicolo di proprietà (l n. 321/1965 e l. n. 971/1969), prosegue la Suprema Corte, non è dato evincere un trasferimento al dipendente del rischio per gli infortuni collegati alla guida dello stesso, né tanto meno tale trasferimento potrebbe discendere, come ha ritenuto la Corte di appello, dalla previsione di un'indennità forfettaria trattandosi di un emolumento espressamente destinato a remunerare gli oneri a carico dell'agente per l'utilizzo del mezzo proprio (in sostanza per le spese di manutenzione e di carburante). Argomentare diversamente significherebbe ritenere ammissibile una logica di scambio tra sicurezza e remunerazione economica, estranea ai princìpi del nostro ordinamento.
Conseguentemente, conclude la Cassazione, in caso di infortunio sul lavoro avvenuto mediante l'utilizzo, autorizzato, del mezzo proprio, dovrà valutarsi se il datore di lavoro abbia adottato le cautele previste dall'art. 2087 c.c.; e poiché, nel caso specifico, è emerso che il dipendente era stato incaricato di effettuare la consegna di un notevole carico di posta (circa 40 Kg), in un unico giro, senza che gli venissero forniti strumenti idonei al "fissaggio" del carico sul ciclomotore, occorrerà verificare se tali circostanze abbiano determinato uno specifico rischio per il lavoratore e, quindi, la responsabilità del datore di lavoro.
La sentenza viene, quindi, cassata con rinvio ad altro giudice che dovrà attenersi al seguente principio di diritto: «In ipotesi di autorizzazione del dipendente all'uso del veicolo di proprietà, in caso di infortunio lavorativo connesso alla conduzione del mezzo, la parte datrice non è esonerata dalla responsabilità ex art. 2087 c.c. ove tale infortunio possa essere posto in relazione causale con lo specifico rischio creato, in relazione alla conduzione del mezzo, da disposizioni datoriali relative alla modalità di esecuzione della prestazione».

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