Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Cambio appalto e trasferimento d'azienda
Licenziamento per giusta causa per lesione del vincolo fiduciario
Ileggitimità del licenziamento per soppressione indebita del posto di lavoro
I limiti del diritto di critica del lavoratore con funzioni di rappresentanza sindacale all'interno dell'azienda

Cambio appalto e trasferimento d'azienda

Cass. Sez. Lav. 31 gennaio 2020, n. 2315

Pres. Di Cerbo; Rel. Consigliere Amendola; Ric. A.F.S.R.L.; Controric. G.C.+5;

Lavoro subordinato – Cambio appalto – Trasferimento d'azienda o di ramo d'azienda – Sussiste – Requisiti – Art. 29, comma 3, D.Lgs. n. 276/03 nella formulazione antecedente all'intervento della legge n. 122 del 2016 – Interpretazione

L'art. 29, co. 3, d.lgs. n. 276/03, nella formulazione antecedente all'intervento della legge n. 122 del 2016, va inteso nel senso che la mera assunzione, da parte del subentrante nell'appalto, non integra di per sé trasferimento d'azienda ove non si accompagni alla cessione dell'azienda o di un suo ramo autonomo, per cui se in un determinato appalto di servizi un imprenditore subentra ad un altro e nel contempo ne acquisisce il personale e i beni strumentali organizzati (cioè l'azienda), la fattispecie non può che essere disciplinata dall'art. 2112 c.c. (pena un'ingiustificata aporia nell'ordinamento) tanto rende la disposizione citata coerente con l'art. 2112 c.c. e non contraddice la giurisprudenza in materia della CGUE, che reputa non contrastante con la normativa euro-unitaria, ma non necessitata, l'estensione della tutela prevista per i trasferimenti d'azienda anche ai casi di successione d'un imprenditore ad un altro nell'appalto d'un servizio
NOTA
Nella fattispecie in esame la Corte d'Appello di Torino aveva rigettato il reclamo della società datrice di lavoro avverso la sentenza del Giudice di prime cure che aveva confermato l'ordinanza emessa all'esito di un procedimento ex L. 92/2012 con la quale si dichiarava l'illegittimità del licenziamento collettivo intimato nei confronti dei ricorrenti.
Nel caso di specie era stato accertato dai Giudici di merito che all'esito del subentro della società datrice di lavoro ad un'altra in un appalto di servizi, era transitato dalla seconda alla prima (oltre al personale impiegato nell'appalto) un complesso dei beni strumentali che costituente un vero e proprio ramo d'azienda funzionalmente autonomo, con conseguente necessaria applicazione dell'art 2112 c.c. ai dipendenti. Ciò imponeva alla società datrice di lavoro e subentrante nell'appalto di calcolare l'anzianità dei lavoratori ceduti non già dalla data di assunzione presso di sé ma computando anche l'anzianità presso la società cedente. Pertanto, essendo stata utilizzata l'anzianità di servizio quale criterio di scelta nell'ambito del successivo licenziamento collettivo a danno dei ricorrenti, lo stesso doveva considerarsi viziato per erroneo calcolo dell'anzianità e – conseguentemente – illegittimo.
Contro tale decisione proponeva ricorso in Cassazione la società sostenendo, per quanto di interesse, la erroneità della decisione della Corte d'Appello per non avere la stessa ritenuto legittimo il licenziamento in virtù del disposto dell'art. 29, co. 3, d.lgs. n. 276/03, nella formulazione allora vigente (antecedente cioè all'intervento della legge n. 122 del 2016), il quale avrebbe imposto – sempre secondo la società datrice di lavoro – di escludere il trasferimento d'azienda (o di ramo d'azienda) in caso di cambio appalto e di contestuale riassunzione dei lavoratori impiegati nell'appalto stesso in virtù di un obbligo derivante dalla contrattazione collettiva (come nel caso di specie).
La Suprema Corte ha respinto le argomentazioni della società datrice di lavoro e rigettato l'intero ricorso.
In particolare la Suprema Corte ha affermato che «L'art. 29, co. 3, d.lgs. n. 276/03, nella formulazione antecedente all'intervento della legge n. 122 del 2016, va inteso nel senso che la mera assunzione, da parte del subentrante nell'appalto, non integra di per sé trasferimento d'azienda ove non si accompagni alla cessione dell'azienda o di un suo ramo autonomo, per cui se in un determinato appalto di servizi un imprenditore subentra ad un altro e nel contempo ne acquisisce il personale e i beni strumentali organizzati (cioè l'azienda), la fattispecie non può che essere disciplinata dall'art. 2112 c.c. (pena un'ingiustificata aporia nell'ordinamento) tanto rende la disposizione citata coerente con l'art. 2112 c.c. e non contraddice la giurisprudenza in materia della CGUE, che reputa non contrastante con la normativa euro-unitaria, ma non necessitata, l'estensione della tutela prevista per i trasferimenti d'azienda anche ai casi di successione d'un imprenditore ad un altro nell'appalto d'un servizio».
La Suprema Corte ha avuto modo di precisare che nel caso in esame la Corte d'Appello di Torino ha fatto corretta applicazione di tali principi, dichiarando l'applicabilità al caso di specie dell'art 2112 c.c. avendo accertato che non vi era stato un mero passaggio di personale ma anche di un importante complesso di beni immobili, attrezzature e arredi di ingente valore economico.

Licenziamento per giusta causa per lesione del vincolo fiduciario

Cass., sez. lav., 28 gennaio 2020, n. 1892

Pres. Rel. Patti; P.M. Mastrobersrdino; Ric. A.R.; Controric. A. S.p.a.

Licenziamento per giusta causa - Art. 2105 c.c. – Obbligo di fedeltà - Artt. 1175 e 1375 c.c. - Principi di correttezza e buona fede - Conflitto di interessi potenziale - Lesione del vincolo fiduciario - Sussistenza

I principi generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. comportano l'obbligo del lavoratore di astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall'art. 2105 c.c., ma anche da qualsiasi altra condotta che, per la natura e le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa, ovvero crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto.
NOTA
La società A intimava il licenziamento per giusta causa nei confronti di un lavoratore, che tempestivamente lo impugnava. La società datrice, a fondamento del provvedimento espulsivo, aveva contestato al lavoratore l'aver prestato, durante il periodo di aspettativa non retribuita richiesta per gravi motivi familiari, la propria attività lavorativa subordinata quale Direttore Generale in favore della società B, società controllata ed avente gli stessi soci della società C a sua volta fornitrice di A. Secondo la società datrice, il lavoratore avrebbe, con tale condotta ,contravvenuto l'obbligo di rendere chiare e complete informazioni alla società datrice, esercitando l'attività contestata senza autorizzazione, in conflitto di interessi e con vantaggio personale.
La sentenza di primo grado dichiarava la legittimità del recesso e la Corte d'Appello rigettava il reclamo del lavoratore, confermandone contenuto e conclusioni.
In esito alla ricostruzione di fatto e di diritto operata, la Corte territoriale aveva infatti ritenuto l'esistenza di un collegamento tra la società C e la società B (la prima socia al 30% della seconda, presso cui il ricorrente era stato assunto come Direttore Generale), con ricaduta sulla portata contrattuale di fornitura con A. spa e pertanto individuando un potenziale conflitto di interessi tra i due contemporanei datori di lavoro A e B, ritenendo in conclusione provati i fatti contestati al lavoratore e proporzionata la sanzione espulsiva, per irrimediabile rottura del vincolo fiduciario.
Il lavoratore ricorreva per Cassazione con quattro motivi.
In particolare, con il secondo deduceva violazione e falsa applicazione degli artt. 2359 c.c. e 18, 4 comma, L.n. 300/70, sostenendo l'insussistenza di una situazione di controllo e/o di collegamento tra le società suddette, stante la tipicità delle ipotesi di rilevanza del gruppo di imprese e in assenza di un unico centro di gestione dell'attività, con conseguente insussistenza del fatto contestato; con il terzo denunciava invece violazione e falsa applicazione dell'art. 2105 c.c. in riferimento agli artt. 1175 e 1375 c.c., nonché dell'art. 18 L. 300/70, per la sostenuta rilevanza del conflitto di interessi soltanto ove accertato in concreto e non in modo eventuale, indiretto o addirittura potenziale, come invece ritenuto dalla pronuncia emendata.
Il Supremo Collegio, nella disamina dei due motivi, precisa come, nel caso di specie, l'accertamento di una situazione integrante o meno un collegamento societario risultasse non di rilievo autonomo, dunque sottoposto ai più stringenti indici di verifica indicati dalla legge, ma strumentale all'indagine sulla compartecipazione societaria ad attività potenzialmente in conflitto d'interessi con quella dell'impresa in cui sia coinvolto il medesimo lavoratore subordinato, al fine di verificarne la posizione impropria e dunque la violazione del suo dovere di diligenza.
La Suprema Corte, ritenuta per tali motivi scevra dai vizi denunziati dal ricorrente la ricognizione della fattispecie effettuata nel secondo grado di giudizio, ha respinto il ricorso e concluso che "la rilevanza del conflitto di interessi è indubbiamente sintomatica della violazione dell'obbligo di fedeltà posto dall'art. 2105 c.c., in collegamento con i principi generali di correttezza e buona fede previsti dagli artt. 1175 e 1375 c.c., dai quali si evince l'obbligo del lavoratore di astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dalla prima norma citata, ma anche da qualsiasi altra condotta che, per la natura e le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa, ovvero crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto (Cass.4 aprile 2005, n. 6957; Cass.1 febbraio 2008, n. 2474; Cass.9 gennaio 2015, n. 144; Cass. 4 aprile 2017, n. 8711)".
Ha confermato dunque come lo svolgimento da parte del lavoratore di attività in potenziale conflitto d'interessi, sussumibile senz'altro tra le condotte aventi possibili conseguenze lesive per l'organizzazione aziendale del datore, sia idonea a determinare la rottura del vincolo fiduciario e, pertanto, a integrare la giusta causa di recesso.

Ileggitimità del licenziamento per soppressione indebita del posto di lavoro

Cass. Sez. Lav. 3 febbraio 2020, n. 2366

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; Ric. P.I..; Controric. G.N.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Mansioni – Diritto a qualifica superiore accertato con sentenza - Assegnazione a reparto di fatto inattivo da tempo – Manifesta insussistenza del fatto – Sussiste - Reintegrazione – Sussiste

Il concetto di manifesta insussistenza del fatto posto a base di un recesso per giustificato motivo oggettivo va riferito ad una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso, accertamento di merito demandato al giudice ed incensurabile, in quanto tale, in sede di legittimità. Dall'illegittima adibizione di un lavoratore a mansioni diverse da quelle cui avrebbe diritto, accertata con sentenza passata in giudicato, discende che la soppressione del posto indebitamente assegnato non possa costituire idonea giustificazione per motivo oggettivo del licenziamento intimato perché fatto che non può essere connesso causalmente al licenziamento del dipendente.
NOTA
Nel caso di specie il Tribunale di Ascoli Piceno, in sede di opposizione nell'ambito di un procedimento ex legge n. 92 del 2012, confermava l'illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo ad una lavoratrice, condannando la Società al pagamento di una indennità risarcitoria ex art. 18, comma 5 Stat. Lav.
Secondo il Tribunale la lavoratrice, in seguito alla reintegrazione giudizialmente disposta per l'illegittimità di un precedente licenziamento, era stata assegnata a mansioni inferiori di Receptionist rispetto a quelle di Assistente Segretaria di Direzione, nell'ambito di un reparto di fatto già inattivo da tempo, per cui la soppressione del posto indebitamente attribuito non poteva essere addotta quale giustificato motivo oggettivo di licenziamento, perché la lavoratrice non avrebbe mai dovuto rivestire quella posizione.
La lavoratrice proponeva reclamo avverso la decisione del Tribunale limitatamente alla tutela meramente indennitaria riconosciuta. La Corte d'appello di Ancona in riforma della decisione di primo grado dichiarava la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento e, per l'effetto, condannava la società alla reintegrazione della lavoratrice ed al pagamento di una indennità pari a 12 mensilità.
In particolare i giudici d'appello hanno rilevato che «la soppressione di un posto di Receptionist non è causalmente connessa al licenziamento di una lavoratrice avente la superiore qualifica di Assistente Segretaria di Direzione, che, quindi, avrebbe dovuto svolgere mansioni diverse da quelle soppresse; tanto più che il diritto alla qualifica superiore della reclamante risulta accertato con sentenza della S.C., la cui efficacia di giudicato non può essere elusa dalla reclamata società sulla scorta di ragioni produttive che non sono riferibili alla lavoratrice medesima. Proprio dalla pronuncia giudiziale che ha accertato in via definitiva come la lavoratrice fosse stata adibita a mansioni deteriori in conseguenza di un inadempimento contrattuale della società, discende la manifesta insussistenza del nesso di causalità e, quindi, del fatto posto alla base del licenziamento, considerato che la lavoratrice avrebbe dovuto attendere a mansioni differenti rispetto a quelle concretamente soppresse».
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Società per violazione e falsa applicazione dell'art. 3 della l. n. 604 del 1966 e dell'art. 18, comma 7, l. n. 300 del 1970.
La Corte di legittimità ha rilevato in primo luogo che la Società non ha proposto alcuna impugnazione avverso la pronuncia di primo grado che aveva già dichiarato l'illegittimità del licenziamento, pertanto ogni questione riguardante la mancanza dei presupposti giustificativi del recesso per motivo oggettivo, anche avuto riguardo al repêchage, deve ritenersi preclusa in ragione dell'intervenuto giudicato interno. Ciò posto, la Corte ha ricordato che «il concetto di "manifesta insussistenza" del fatto posto a base di un recesso per giustificato motivo oggettivo va riferito ad una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso, accertamento di merito demandato al giudice ed incensurabile, in quanto tale, in sede di legittimità».
In conclusione la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso affermando che dall'illegittima adibizione di un lavoratore a mansioni diverse da quelle cui avrebbe diritto, accertata con sentenza passata in giudicato, discende che la soppressione del posto indebitamente assegnato non possa costituire idonea giustificazione per motivo oggettivo del licenziamento intimato perché fatto che non può essere connesso causalmente al licenziamento del dipendente.

I limiti del diritto di critica del lavoratore con funzioni di rappresentanza sindacale all'interno dell'azienda.

Cass. Sez. Lav. 2 dicembre 2019, n. 31395

Pres. Nobile; Rel. Boghetich; P.M. Celentanto; Ric. T. S.r.l.; Controric. S.A.;

Lavoro subordinato - Diritto di critica del dipendente-sindacalista - Modalità - Rispetto dei limiti di continenza sostanziale e formale - Sussistenza - Tutela rafforzata ex art. 39 Cost. - Licenziamento per giusta causa - Illegittimità.
Fattispecie: dichiarazioni a mezzo stampa rese dal lavoratore con funzioni di rappresentanza sindacale.
La critica manifestata dal lavoratore all'indirizzo del datore di lavoro può trasformarsi da esercizio lecito di un diritto in una condotta astrattamente idonea a configurare un illecito disciplinare, laddove superi i limiti posti a presidio della dignità della persona umana, così come predeterminati dal diritto vivente, ossia i requisiti della corrispondenza a verità dei fatti narrati (c.d. continenza sostanziale) e delle modalità espressive che possano dirsi rispettose di canoni, generalmente condivisi, di correttezza, misura e rispetto della dignità altrui (c.d. continenza formale), con la precisazione che il diritto di critica del lavoratore con funzioni di rappresentanza sindacale all'interno dell'azienda gode di un'ulteriore copertura costituzionale costituita dall'articolo 39 della Costituzione, essendo l'espressione di pensiero finalizzata al perseguimento di un interesse collettivo.
NOTA
Un lavoratore, con funzioni di rappresentanza sindacale all'interno dell'azienda, impugnava il licenziamento per giusta causa intimatogli dal datore di lavoro, una società adibita alla gestione dei rifiuti, per l'aver rilasciato ad un quotidiano un'intervista nella quale aveva criticato il trasferimento di un proprio collega di lavoro da un Comune ad un altro. Nell'intervista in oggetto veniva in particolare precisato che detto trasferimento, da un lato, aveva comportato il mancato rispetto del numero minimo di operatori ecologici previsto nel capitolato di appalto, dall'altro, aveva reso difficoltosa la raccolta "porta a porta" dei rifiuti.
La Corte d'Appello di Genova, in riforma della sentenza di primo grado, riteneva illegittimo il licenziamento, avendo le dichiarazioni del lavoratore rispettato il limite della continenza sia sostanziale (per corrispondenza a verità dei fatti narrati) che formale (assenza di toni dispregiativi, volgari, denigratori o polemici).
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per cassazione la società. Il lavoratore resisteva con controricorso.
Con il primo motivo di ricorso la società lamentava «un'inaccettabile dilatazione del diritto di critica, sotto il profilo della continenza formale» non avendo la Corte territoriale attentamente valutato l'uso del mezzo della stampa, «intrinsecamente idoneo a ledere l'immagine del datore di lavoro».
Con il secondo motivo di ricorso la società censurava poi la sentenza impugnata per falsa applicazione degli artt. 69 e 72 del CCNL servizi ambientali, dal momento che tali articoli permettevano al datore di lavoro di licenziare per giusta causa il lavoratore in presenza di condotte lesive degli obblighi di fedeltà, correttezza e buona fede, tali da escludere la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro.
La Suprema Corte ha ritenuto infondati tali motivi di ricorso.
Conformemente al proprio consolidato orientamento (Cass. n. 14527 del 2018; Cass. n. 18176 del 2018 e Cass. n. 5523 del 2016), la Corte di Cassazione ha affermato che l'esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro non è idoneo a legittimare il licenziamento per giusta causa nel caso in cui i fatti narrati corrispondano a verità (c.d. "continenza sostanziale") e vengano esposti con modalità rispettose dei canoni di correttezza, misura e rispetto della dignità altrui (c.d. "continenza formale").
Nella fattispecie in esame, la Corte aveva infatti accertato che i fatti narrati corrispondevano al vero e che non avevano effettivamente cagionato un danno economico alla società, non essendovi stata alcuna reazione da parte dell'ente territoriale appaltante del servizio di raccolta dei rifiuti.
La Suprema Corte ha poi chiarito che il diritto di critica del lavoratore risulta rafforzato qualora venga esercitato da un dipendente con funzioni di rappresentanza sindacale all'interno dell'azienda. In tal caso, infatti, l'espressione di pensiero è volta al perseguimento di un interesse collettivo e gode, dunque, di un'ulteriore copertura costituzionale prevista dall'art. 39 della Costituzione (Cass. n. 1143 del 1995; Cass. n. 7091 del 2001; Cass. n. 19350 del 2003; Cass. n. 7471 del 2012; Cass. n. 18176 del 2018).
Su tali presupposti la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della società e confermato l'illegittimità del licenziamento del dipendente.

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