Contenzioso

La concorrenza dura non è sempre sleale

di Giulia Bifano e Massimiliano Biolchini

Acquisire il personale di un'impresa concorrente offrendo una migliore retribuzione e una sistemazione professionale più soddisfacente non configura necessariamente concorrenza sleale, anche se l'assunzione è fatta con la consapevolezza di danneggiare l'impresa rivale.

Affinché lo storno dei dipendenti abbia carattere illecito, infatti, è necessario che l'impresa abbia la precisa intenzione di creare un danno al competitor e, riuscendo nel proposito, ne vanifichi gli sforzi imprenditoriali creando effetti distorsivi nel mercato.

Lo ha chiarito la Corte di cassazione con l'ordinanza 3865/2020, riformando la sentenza con cui la Corte d'appello di Torino aveva accertato che l'assunzione da parte di un'impresa di alcuni dipendenti dapprima impiegati da un competitor costituisse un atto di concorrenza sleale, in ragione delle conseguenze patrimoniali negative patite da quest'ultimo e direttamente connesse alla sottrazione del personale maggiormente strategico o qualificato.

Nel decidere il caso, i giudici di Cassazione hanno anzitutto chiarito come per l'accertamento di una condotta di concorrenza sleale in capo a un'impresa non sia sufficiente la consapevolezza di questa circa l'idoneità dei propri atti a danneggiare un concorrente, essendo anche determinante la precisa volontà di cagionare tale danno. Una simile intenzione, prosegue la decisione, può senza dubbio ritenersi esistente quando lo storno dei dipendenti venga posto in essere con modalità tali da non essere giustificabile se non alla luce dell'intento di recare pregiudizio all'organizzazione e alla struttura del concorrente.

Nel compiere una simile valutazione, però, i giudici devono anzitutto fare ricorso a una serie di indicatori oggettivi dell'idoneità lesiva della condotta concorrenziale, individuati nel corso degli anni dalla giurisprudenza e tra i quali i più rilevanti sono l'acquisizione di un vantaggio competitivo indebito (che non dipende quindi, ad esempio, dalla cattiva gestione dei propri affari da parte dell'impresa concorrente) e l'effettiva capacità distruttiva della continuità aziendale altrui.

Allo stesso modo, ogni considerazione in materia di concorrenza sleale connessa allo storno di dipendenti deve tenere conto della delicata interferenza tra i principi posti a tutela del mercato e quelli, costituzionalmente garantiti, posti a tutela della libera iniziativa imprenditoriale, nonché del diritto al lavoro e all'adeguata remunerazione dello stesso. Per questo, prosegue la Cassazione, non può essere negato il diritto di un'impresa a sottrarre dipendenti alle proprie concorrenti laddove ciò avvenga con mezzi leciti, quali la promessa di un trattamento retributivo migliore o una sistemazione professionale più soddisfacente.

Un ragionamento diverso, tra l'altro, renderebbe il bagaglio di conoscenze ed esperienze maturato dal lavoratore un vincolo oppressivo e preclusivo della libera ricerca di nuove opportunità, invece che consentirgli il reperimento di migliori condizioni di lavoro. Pertanto, il giudice chiamato a valutare l'illegittimità della condotta di un'impresa che assuma alcuni dipendenti del competitor deve necessariamente tenere conto dell'intenzione della stessa di creare effetti distorsivi sul mercato, esaminando a questo proposito le circostanze del caso concreto e in particolare la quantità e qualità del personale stornato, la sua posizione all'interno dell'organizzazione altrui, la difficoltà di sostituire la risorsa sottratta e i metodi adottati per convincerla a cambiare datore di lavoro.

Nel caso specifico, il fatto che l'assunzione dei dipendenti dell'impresa concorrente fosse avvenuta quando questi erano già estranei al rapporto con il precedente datore di lavoro (poiché in pensione o con contratti risolti molti mesi prima del nuovo impiego) valeva a escludere la configurabilità della concorrenza sleale: è più che lecito, infatti, il comportamento dell'impresa che approfitti della disponibilità sul mercato del lavoro di risorse precedentemente dismesse dall'azienda concorrente.

Le imprese che intendano tutelarsi da possibili atti dei propri concorrenti finalizzati ad acquisire, anche se con mezzi leciti, parte del proprio personale apicale o strategico, possono proporre ai lavoratori di maggiore interesse la sottoscrizione di specifici patti di non concorrenza, atti a limitare la possibile ricollocazione con alcuni soggetti concorrenti a seguito della cessazione del rapporto di lavoro. Al riguardo, vale la pena ricordare come i patti di non concorrenza siano soggetti, per la loro validità ed efficacia, a regole particolarmente stringenti, tra cui un limite massimo di durata (di tre anni, fatta eccezione per i dirigenti per i quali il limite è di cinque anni), l'obbligo di un compenso specifico in ragione dell'obbligo assunto dal lavoratore e la necessità di una chiara determinazione dell'ambito e dell'area geografica coperti dalla restrizione, che devono necessariamente essere compatibili con la possibile ricollocazione del dipendente.

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