Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Sulla genuinità dell'appalto
Nullità del trasferimento d'azienda e cessazione del rapporto
Indennità sostitutiva delle ferie maturate e non godute
Musicisti d'orchestra e lavoro autonomo
Assunzione di personale e requisito di altezza


Sulla genuinità dell'appalto

Cass. Sez. Lav. 28 aprile 2020, n. 8256.

Pres. Bronzini; Rel. Garri; P.M. Sanlorenzo; Ric. C. D.; Controric. B. S.p.a.

Contratto di appalto – Gestione della prestazione lavorativa da parte del committente - Genuinità dell'appalto - Non sussiste - Intermediazione illecita di manodopera - Sussiste - Fattispecie

È esclusa la liceità dell'appalto ove l'appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, mantenendo i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo.
NOTA
La Corte di appello di Napoli, in accoglimento del ricorso proposto da un lavoratore di una società appaltatrice, riformava la sentenza del Tribunale di Napoli e accertava che il lavoratore non era mai stato effettivamente adibito ai «servizi di pulizia del materiale rotabile ed altre attività collegate» oggetto del contratto di appalto stipulato tra il proprio datore di lavoro ed una società committente, avendo egli, invece, sempre coadiuvato i dipendenti della società committente nello svolgimento di operazioni tecniche di manutenzione. Secondo la Corte d'appello, il lavoratore della società appaltatrice risultava stabilmente inserito nelle squadre tecniche della società committente, la quale lo aveva assegnato a mansioni diverse da quelle oggetto dell'appalto. La Corte d'appello riteneva, quindi, irrilevante la circostanza che il lavoratore nel corso della prestazione avesse indossato la divisa della società appaltatrice o che da quest'ultima avesse sempre ricevuto la retribuzione.
La società committente, quindi, impugnava la sentenza di secondo grado lamentando
che «il discrimine tra appalto lecito ed illecito andrebbe ravvisato nella presenza o meno dell'organizzazione della forza lavoro da parte dell'impresa appaltatrice e nella gestione e controllo della forza lavoro, sicché c'è appalto genuino se c'è assunzione del rischio d'impresa e della responsabilità dell'organizzazione dei mezzi ed esercizio dei poteri datoriali mentre il controllo tecnico sul corretto svolgimento delle attività relative al regolare funzionamento dell'impianto può appartenere al committente e non interferisce con i poteri di gestione che appartengono all'appaltatore».
La Corte di Cassazione rigettava il ricorso della società committente, motivando come nella massima sopra riportata.

Nullità del trasferimento d'azienda e cessazione del rapporto

Cass. Sez. Lav. 21 aprile 2020, n. 7977

Pres. Raimondi; Rel. Patti; Ric. T.I. S.p.A.; Controric. M.A.

Trasferimento d'azienda – Nullità – Sussistenza rapporto di lavoro con il cedente – Intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro con il cessionario – Irrilevanza

Una volta accertata l'invalidità del trasferimento d'azienda, il rapporto con il cessionario è instaurato in via di mero fatto e le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere con il cedente. Pertanto al dipendente spetta la retribuzione tanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, sia se il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei suoi confronti.
Trasferimento d'azienda – Nullità – Mancato ripristino del rapporto di lavoro – Crediti del dipendente – Natura retributiva – Compensatio lucri cum damno – Inapplicabilità
I crediti vantati dai lavoratori per effetto del mancato ripristino del rapporto di lavoro nonostante l'accertamento dell'illegittimità del trasferimento d'azienda hanno natura retributiva e non risarcitoria. Pertanto, non trova applicazione il principio della compensatio lucri cum damno e, di conseguenza, l'aliunde perceptum non è detraibile.
NOTA
La Corte d'Appello di Napoli confermava la sentenza di primo grado che, preso atto dell'intervenuta declaratoria di illegittimità del trasferimento di azienda, aveva condannato la società cedente al pagamento della retribuzione al lavoratore sul presupposto della permanenza del rapporto di lavoro tra le parti anche successivamente al trasferimento.
La società cedente proponeva ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, eccependo che, successivamente al trasferimento, il rapporto di lavoro tra la dipendente e la società cessionaria era cessato e che pertanto era cessato l'unico rapporto di lavoro esistente, non essendo configurabile la coesistenza di due distinti rapporti di lavoro.
In secondo luogo, la società cedente censurava la decisione di merito per non aver detratto quanto percepito dalla lavoratrice a titolo di indennità di mobilità dalle somme alla stessa dovute a seguito della ricostituzione del rapporto.
La Suprema Corte ha ritenuto infondati entrambi i motivi di censura.
Quanto al primo profilo, in ossequio al proprio consolidato orientamento, la Corte di Cassazione ha ribadito che soltanto un legittimo trasferimento di azienda comporta la continuità del rapporto di lavoro, che resta unico ed immutato. Pertanto, una volta accertata l'invalidità della vicenda traslativa «il rapporto con il destinatario della cessione è instaurato in via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il cedente (sebbene quiescente per l'illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale)».
La Suprema Corte ha pertanto ritenuto che al dipendente spetta la retribuzione, tanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita a favore del datore di lavoro cedente, sia se questi versi in una situazione di mora accipiendi verso il lavoratore perché, una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di lavoro giudizialmente dichiarato tale (cedente), il rifiuto di questi rende giuridicamente equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente alla utilizzazione effettiva, con la conseguenza che il datore di lavoro ha l'obbligo di pagare la controprestazione lavorativa.
Quanto al secondo motivo di censura, la Corte di Cassazione conferma il proprio indirizzo secondo cui le somme dovute dal cedente alla lavoratrice a seguito della ricostituzione del loro rapporto di lavoro hanno natura retributiva e non risarcitoria, con la conseguenza che non potrà essere applicato il principio della compensatio lucri cum damno e non potrà essere detratto da tale somme quanto percepito dai lavoratori a titolo di indennità di mobilità. Come precisato dalla Corte, la questione è stata altresì esaminata e risolta in senso analogo dalle Sezioni Unite con la sentenza del 7 febbraio 2018, n. 2990, ed a tale indirizzo è stato altresì riconosciuto valore di diritto vivente dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 28 febbraio 2019, n. 29.

Indennità sostitutiva delle ferie maturate e non godute

Cass. Sez. Lav. 21 aprile 2020, n. 7976

Pres. Raimondi; Rel. Garri; Ric. F.D. S.n.c.; Controric. V.L. + 2

Ferie maturate e non godute – Indennità sostitutiva – Esclusione – Offerta datoriale di fruire delle ferie

Non sussiste il diritto del lavoratore all'indennità sostitutiva delle ferie non godute qualora il datore di lavoro dimostri di avergli offerto un adeguato tempo per il godimento delle ferie, di cui il lavoratore non abbia comunque fruito, venendo ad incorrere così nella "mora del creditore".
Ferie maturate e non godute – Indennità sostitutiva – Prescrizione - Decorrenza
Il diritto all'indennità sostitutiva delle ferie maturate e non godute sorge al momento della cessazione del rapporto. Pertanto, è da tale data che decorre il relativo termine di prescrizione.
NOTA
La Corte d'Appello di Firenze confermava la sentenza di primo grado che aveva rigettato l'opposizione proposta dal datore di lavoro avverso il decreto con il quale gli era stato ingiunto il pagamento dell'indennità sostitutiva delle ferie non godute. In particolare, i giudici di merito avevano ritenuto che la società non avesse allegato né provato di aver offerto al lavoratore di fruire delle ferie e che la prescrizione dell'indennità non fosse decorsa.
La società proponeva ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, eccependo in primo luogo che il mancato godimento delle ferie non fosse imputabile al datore di lavoro e che, di conseguenza, il lavoratore non avesse diritto alla relativa indennità sostitutiva.
La Corte di cassazione ritiene infondato questo motivo di censura, sostenendo che dal mancato godimento delle ferie – una volta divenuto impossibile per l'imprenditore adempiere alla propria obbligazione di consentirne l'utilizzo, anche senza sua colpa – deriva il diritto del lavoratore al pagamento della relativa indennità sostitutiva. Al fine di escludere il diritto del lavoratore a tale indennità è necessario che il datore di lavoro dimostri di aver offerto al dipendente un adeguato tempo per fruire delle ferie, di cui il lavoratore non abbia comunque fruito venendo così a incorrere nella "mora del creditore" (in senso conforme, Cass., 1 febbraio 2008, n. 2496).
Quale secondo motivo di ricorso, la società eccepiva che, poiché le ferie maturano di anno in anno, del pari la prescrizione del diritto alla relativa indennità sostitutiva dovesse decorrere anno per anno.
Anche tale motivo di ricorso viene rigettato dalla Corte di cassazione, che ritiene corretta la decisione dei giudici di merito secondo cui il diritto all'indennità sostitutiva delle ferie maturate e non godute sorge al momento della cessazione del rapporto di lavoro e, di conseguenza, è da tale momento che decorre la relativa prescrizione.

Musicisti d'orchestra e lavoro autonomo

Cass. Sez. Lav. 4 maggio 2020, n. 8444

Pres. Raimondi; Rel. Lorito; Ric. V.S. e altri; Contr. F.O.S.C.S.M.G.V.;

Autonomia/Subordinazione – Orchestra sinfonica – Prestazioni di natura intellettuale – Indici della subordinazione – Verifica – Potere direttivo – Insussistenza – Rivendicazione della subordinazione – Esclusione

Non sussiste un rapporto di lavoro subordinato nel caso in cui non siano stati dedotti elementi significativi della subordinazione, qualificata dall'esistenza di un potere direttivo che consenta al datore di lavoro di disporre pienamente della prestazione altrui, nell'ambito delle esigenze della propria organizzazione produttiva. Pertanto, deve ritenersi escluso il potere direttivo, nel caso, come quello di specie, in cui sia incontestata la libertà dei membri di un'orchestra sinfonica di accettare o meno le singole proposte contrattuali, di sottrarsi alle prove in caso di variazioni assunte in corso d'opera a fronte di pregressi impegni e di assumerne anche nei confronti dei terzi.
NOTA
La Corte di Appello di Milano confermava la pronuncia del giudice di prime cure che – con riferimento alla domanda di alcuni musicisti d'orchestra con la quale avevano chiesto l'accertamento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato nei confronti della fondazione che gestiva l'orchestra – aveva ritenuto privi di valenza significativa l'obbligo di rispettare rigidamente gli orari (sia con riguardo alle prove che agli spettacoli), al pari dell'obbligo di giustificare le assenze, ritenendoli entrambi elementi funzionali alla realizzazione dell'opera, garantita dal coordinato apporto di ciascuno dei musicisti. Analogamente, la Corte territoriale riteneva privo di significato decisivo l'obbligo per il musicista di rimanere a disposizione della fondazione fra un concerto e l'altro, risolvendosi nella necessità di garantire la prestazione nella sua globalità, quale individuata negli accordi inter partes.
Avverso tale decisione i lavoratori hanno proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto svariati profili.
In particolare, per quanto qui rileva, la Suprema Corte ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte di Appello di Milano in quanto coerente con i criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto in tema di qualificazione del rapporto di lavoro.
Secondo la Cassazione non erano stati dedotti elementi significativi della subordinazione, qualificata dall'esistenza di un potere direttivo che consentisse al datore di lavoro di disporre pienamente della prestazione altrui, nell'ambito delle esigenze della propria organizzazione produttiva. Le acquisizioni probatorie, secondo la Corte, avevano, anzi, escluso l'esistenza di tale potere direttivo, "essendo invece incontestata la libertà degli appellanti di accettare o meno le singole proposte contrattuali… di sottrarsi alle prove in caso di variazioni assunte in corso d'opera a fronte di pregressi impegni" e di assumerne anche nei confronti dei terzi.
La Cassazione precisa, altresì, che risulta ostativa, rispetto alla qualificazione in termini di subordinazione del rapporto di lavoro inter partes, la natura squisitamente intellettuale dell'opera prestata e della qualità dei contraenti che, in difetto di inequivoci indici di deviazione nel rapporto dalle obbligazioni concordate, inducevano a conferire rilievo nella qualificazione alla volontà espressa dai contraenti.
Secondo la Suprema Corte «l'elemento della subordinazione (ossia della sottoposizione al potere direttivo disciplinare e di controllo del datore di lavoro) costituisce una modalità d'essere del rapporto, desumibile da un insieme di circostanze che devono essere complessivamente valutate da parte del giudice del merito, in particolare nei rapporti di lavoro aventi natura professionale o intellettuale ed indipendentemente da una iniziale pattuizione scritta sulla modalità del rapporto – ed alla stregua di argomentazioni congrue quanto alla valutazione delle circostanze ritenute in concreto idonee a far rientrare il rapporto controverso nell'uno o nell'altro schema contrattuale».
Da ultimo, la Cassazione ritiene condivisibile il decisum della Corte di merito nella parte in cui ritiene che il rapporto de quo non possa essere ricondotto neanche allo schema normativo di cui all'art. 69 D.Lgs. n. 276/2003, riservato alle collaborazioni coordinate e continuative nulle per carenza di specifico progetto, in quanto caratterizzato dall'intercorrenza fra le parti di rapporti libero professionali, funzionali all'esecuzione di un'opera intellettuale concordata di volta in volta e, come tali, soggetti alla disciplina di cui all'art. 2230 c.c.
Conclusivamente il ricorso dei lavoratori viene respinto.

Assunzione di personale e requisito di altezza

Cass. Sez. Lav. 21 aprile 2020, n. 7982

Pres. Raimondi; Rel. De Marinis; P.M. Mastrobernardino; Ric. S.M.; Controric. S. S.p.A.

Lavoro subordinato – Discriminazione di genere – Violazione pari opportunità – Limite di statura – Criterio selezione – Candidati di sesso maschile e femminile – Fattispecie
Da luogo a discriminazione di genere e violazione delle pari opportunità la previsione di un limite di statura identico per i candidati, a prescindere dal loro sesso, come criterio di selezione per l'accesso al lavoro.
NOTA
Nel caso in esame, la Corte d'Appello confermava la decisione del Tribunale e rigettava il ricorso proposto dalla lavoratrice, avente ad oggetto la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, per il quale la società aveva indetto apposita procedura selettiva e dalla quale la lavoratrice era stata esclusa solo perché dichiarata non idonea per deficit staturale.
Per la Corte, il Tribunale aveva correttamente statuito ritenendo non imputabile alla società alcun comportamento discriminatorio dovendosi ritenere la ragionevolezza del requisito di altezza, del resto posto a presidio di esigenze di sicurezza.
Avverso la sentenza della Corte di Appello ha proposto ricorso la lavoratrice e la Suprema Corte lo ha accolto.
Per la Cassazione, la previsione, nella procedura di assunzione di personale, di un requisito di altezza identico per uomini e donne integra una discriminazione indiretta di genere vietata dal D.Lgs. n. 198/2006, ove tale requisito non risulti oggettivamente giustificato alla luce della sua pertinenza e proporzionalità rispetto alle mansioni riconducibili alla qualifica in questione.
Da ciò ne consegue che, in tema di pari opportunità dei lavoratori, il giudice deve apprezzare incidentalmente la legittimità, ai fini della sua disapplicazione, della previsione di un'altezza minima, valutando in concreto la funzionalità del requisito richiesto rispetto alle mansioni, attraverso l'accertamento di quali siano le mansioni a cui la lavoratrice/il lavoratore interessato potrebbe essere addetto e se le stesse potrebbero essere espletate nonostante una statura inferiore a quella richiesta.
Con particolare riferimento al caso in esame, per la Cassazione le motivazioni contenute negli arresti dei giudici del Tribunale e della Corte dovevano essere disattese non essendo stata eseguita un'indagine sufficientemente approfondita per poter rinvenire un'oggettiva difficoltà nel compimento - da parte della candidata - di operazioni comprese nelle mansioni oggetto della procedura di selezione.

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