Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Invio tardivo del certificato medico e licenziamento
Responsabilità ex art. 2087 c.c. e onere della prova
Il termine di decadenza per l'impugnazione dei trasferimenti d'azienda
Permessi ex legge 104

I nvio tardivo del certificato medico e licenziamento

Cass. Sez. Lav. 11 settembre 2020, n. 18956

Pres. Berrino; Rel. De Marinis; P.M. Celentano; Ric. D.M.I.; Controric. D.S.A. S.c.a.r.l.

Malattia - Certificato medico - Invio tardivo - Assenza ingiustificata -Configurabilità - Licenziamento disciplinare - Legittimità

Devono qualificarsi in termini di assenza ingiustificata i giorni di assenza risultati solo a seguito del tardivo invio di certificazione medica riconducibili ad uno stato di malattia.

NOTA
Un lavoratore veniva licenziato per assenza ingiustificata nei giorni 8 e 9 febbraio 2015, nonché per la recidiva per le assenze parimenti ingiustificate dal 3 ottobre al 2 novembre 2014.
La Corte d'Appello di Cagliari, Sezione di Sassari, confermava la sentenza del Tribunale di Sassari e rigettava la domanda di annullamento del licenziamento disciplinare intimato al lavoratore, ritenendo sussistente l'assenza ingiustificata di quest'ultimo nei giorni dal 3 all'8 ottobre 2014, "dovendo così qualificarsi le assenze non coperte dal certificato medico giunto in ritardo", e tempestiva e congrua la sanzione irrogata, "tanto più che quali assenze ingiustificate dovevano essere considerate quelle precedenti di cui alla contestazione del 23.9.2014, rimasta senza seguito per l'insorgere improvviso di uno stato di malattia protrattosi fino al 7.2.2015, nonché quelle dei giorni 8 e 9 febbraio 2015 in cui cessata la malattia avrebbe dovuto presentarsi al lavoro".
Il lavoratore impugnava, quindi, la sentenza di secondo grado deducendo, tra gli altri motivi di ricorso, la violazione e falsa applicazione dell'art. 2106 c.c. e degli artt. 42 lett. E) e D) e 71 del C.c.n.l. Cooperative sociali, lamentando l'incongruità logica e giuridica della qualificazione come assenze ingiustificate di giornate in relazione alle quali è stato comunque certificato lo stato di malattia e del conseguente giudizio circa la rilevanza disciplinare della condotta e la proporzionalità della sanzione.
La Suprema Corte rigetta il ricorso del lavoratore ritenendo condivisibile il principio di diritto richiamato dai giudici d'appello secondo cui si devono qualificarsi "in termini di assenza ingiustificata" i giorni di assenza risultati riconducibili ad uno stato di malattia solo a seguito del tardivo invio di certificazione medica, "e, così sulla rilevanza disciplinare delle stesse nonché sulla ritenuta regolarità formale dei provvedimenti assunti, dovendosi considerare correttamente valutati dalla Corte territoriale come meramente sospeso il procedimento avviato a seguito della contestazione del 23.9.2014 e come tempestivamente avviato all'atto della cessazione del periodo di malattia, che ne avrebbe determinato la sospensione, il procedimento relativo alla contestazione delle assenze ingiustificate comprese tra il 3 e 1'8 ottobre 2014 ed altresì sulla sancita congruità della sanzione irrogata già prevista dall'art. 42 lett. E) del CCNL di categoria per ogni singolo episodio contestato".
Pertanto, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di merito che ha escluso la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare intimato al lavoratore.

Responsabilità ex art. 2087 c.c. e onere della prova

Cass. Lav. 26 agosto 2020, n. 17788

Pres. Raimondi; Rel. Piccone; P.M. Cimmino; Ric. R.G.; Controric. S.A.

Responsabilità ex art. 2087 c.c. - Responsabilità oggettiva - Esclusione - Danno, nocività dell'ambiente di lavoro e nesso causale - Onere della prova del lavoratore - Necessità

L'art. 2087 c.c. non contempla una ipotesi di responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, pertanto, il mero fatto di lesioni riportate dal dipendente in occasione dello svolgimento dell'attività lavorativa non determina di per sé l'addebito delle conseguenze dannose al datore di lavoro, occorrendo la prova del danno, della nocività dell'ambiente di lavoro e del nesso causale tra l'uno e l'altro.
NOTA
Nel caso di specie, la Corte d'Appello di Milano confermava la sentenza del Tribunale locale che aveva respinto la domanda di risarcimento del danno avanzata da un lavoratore nei confronti della Società datrice di lavoro, in relazione all'infortunio occorsogli nello svolgimento della sua prestazione lavorativa. In particolare, il giudice di secondo grado, nel condividere integralmente le valutazioni del Tribunale con riguardo alla dinamica dell'infortunio, ritenuta pacifica tra le parti, aveva sottolineato il difetto di deduzioni probatorie da cui potesse evincersi la ricorrenza di una prassi ovvero di direttive atte ad indurre il dipendente a scaricare le attrezzature da un automezzo in prossimità della recinzione del cantiere e a scendere dal pianale posteriore anziché utilizzare normalmente il passo carraio. Con tale modalità, infatti, il lavoratore si era procurato un danno attingendo uno dei tondini che sorreggevano la rete plastificata posta a delimitazione dell'area.
Per la cassazione della pronuncia ha proposto ricorso il lavoratore lamentando tra il resto la violazione delle regole relative alla ripartizione dell'onere della prova con riguardo all'infortunio da lui subìto «per essere stati imposti allo stesso oneri probatori asseritamente gravanti sulla controparte», nonché falsa applicazione dell'art. 2087 c.c. sul presupposto della ritenuta insussistenza di una precisa responsabilità in capo alla Società, sia per non aver predisposto misure idonee ad evitare l'insorgere di danni nello svolgimento di attività di carico e scarico in prossimità della recinzione del cantiere, sia per non aver impedito l'assunzione da parte del lavoratore della condotta posta in essere.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ricordando che la consolidata giurisprudenza di legittimità afferma che «l'art. 2087 c.c. non contempla una ipotesi di responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, con la conseguenza di ritenerlo responsabile ogni volta che il lavoratore abbia subito un danno nell'esecuzione della prestazione lavorativa, occorrendo sempre che l'evento sia riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento, concretamente individuati, imposti da norme di legge e di regolamento o contrattuali ovvero suggeriti dalla tecnica e dall'esperienza».
Oltre a ciò ha precisato che ai fini dell'accertamento della responsabilità datoriale, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, «l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, mentre grava sul datore di lavoro – una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze – l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo».
La Corte di Cassazione ha quindi concluso affermando che la Corte d'Appello si è correttamente pronunciata in quanto, dopo aver ritenuta pacifica la dinamica del sinistro, nonché la circostanza che il cantiere fosse munito di apposito accesso carraio idoneo a consentire l'ingresso degli automezzi, ha evidenziato come lo stesso non fosse stato, inopinatamente, utilizzato dal dipendente, il quale aveva invece intrapreso lo scarico sulla sede stradale, in prossimità della recinzione, scendendo dal pianale posteriore del veicolo e scavalcandone la sponda, così procurandosi l'infortunio.

Il termine di decadenza per l'impugnazione dei trasferimenti d'azienda

Cass. Sez. Lav. 25 settembre 2020, n. 20240

Pres. Berrino; Rel. Cinque; Ric. I.S.P.A.; Controric. D.M.+12;

Lavoro subordinato – Trasferimento di ramo d'azienda – Art. 2112 c.c. - Decadenza - Cessioni dei contratti di lavoro precedenti all'entrata in vigore della L. 183/2010 - Effetto retroattivo - Esclusione - Nozione di ramo d'azienda

Alle cessioni di contratti di lavoro, ai sensi dell'art. 2112 cc, il cui trasferimento sia avvenuto prima della entrata in vigore della legge n. 183 del 2010, non si applica il termine di decadenza di cui all'art. 32 co. 4 lett. c) della legge citata.
NOTA
Nel caso di specie la Corte d'Appello di Trieste aveva confermato la decisione del giudice di prime cure il quale aveva accolto l'impugnazione del trasferimento di ramo d'azienda proposta dai lavoratori ceduti e, conseguentemente, dichiarato illegittime le cessioni dei contratti di lavoro dei ricorrenti. In particolare e per quanto qui interessa, tanto il Tribunale che la Corte d'Appello avevano ritenuto inapplicabile alla cessione di ramo d'azienda in esame il termine di decadenza per la relativa impugnazione previsto dall'art.32, comma 4, lett. c) della L. n. 183/2010 in quanto la stessa cessione era intervenuta prima dell'entrata in vigore di tale norma e, inoltre, in virtù della ritenuta insussistenza di un ramo d'azienda che fosse preesistente al trasferimento e altresì economicamente e funzionalmente autonomo.
Contro la decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso in Cassazione la società cedente sostenendo, in sintesi, che da un lato la Corte territoriale avesse errato nel ritenere inapplicabile il termine decadenziale introdotto dalla sopra citata legge alla fattispecie in esame (trasferimento avvenuto il 1° gennaio 2009 e impugnazioni verificatesi circa 5 anni dopo), dovendosi esso applicare anche ai trasferimenti avvenuti precedentemente all'entrata in vigore della Legge; dall'altro che la Corte avesse errato nel ritenere che il ramo in esame non fosse preesistente alla cessione e dotato di autonomia funzionale.
La Suprema Corte ha respinto le censure di cui sopra, rigettando il ricorso.
In particolare la Corte ha rilevato che, secondo le regole generali dell'ordinamento, la previsione di un nuovo e precedentemente non previsto termine di decadenza da parte del legislatore non possa avere effetto retroattivo ma la nuova disciplina andrebbe applicata alle situazioni soggettive ancora in essere all'entrata in vigore della nuova norma. In tal caso la decadenza dovrebbe decorrere dalla data della modifica legislativa (nel caso di specie introdotta nel 2010).
Quanto sopra però, sempre secondo la Corte, resta fermo solo nel caso in cui il legislatore non abbia previsto una disciplina transitoria tra i due regimi (che prevale dunque sulle regole generali sopra enunciate). Nel caso di specie, prosegue la Cassazione, il legislatore ha limitato il campo di applicazione temporale della norma unicamente alle cessioni di contratti di lavoro in cui la data del trasferimento, ex art. 2112 cod. civ., sia successiva alla data di entrata in vigore della Legge n. 183 del 2010 attraverso l'introduzione della locuzione «con termine decorrente dalla data del trasferimento» che rappresenta sia il dies a quo da cui far decorrere il nuovo termine sia un'espressione di diritto intertemporale volta a disciplinare i limiti di applicabilità del nuovo termine.
Conseguentemente la Suprema Corte ha concluso per l'inapplicabilità del termine decadenziale in esame ai trasferimenti avvenuti prima dell'entrata in vigore della Legge di cui sopra.
Alla stessa stregua, poi, la Corte di Cassazione ha rilevato la corretta applicazione da parte della Corte territoriale dei principi di diritto relativi alla nozione di ramo d'azienda e ai requisiti di un trasferimento legittimo (sussistenza di un'entità economica preesistente al trasferimento «che conserva la propria identità intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere una attività economica, sia essa essenziale o accessoria») concludendo, pertanto, per la piena correttezza del suo operato e per l'inammissibilità di un riesame del merito della vicenda.

Permessi ex legge 104

Cass. Sez. Lav. ord. 25 settembre 2020, n. 20243

Pres. Raimondi; Rel. Boghetich; Ric. M. S.p.A.; Controric. R.S.;

Lavoro subordinato - Permessi ex art. 33, c. 6, L. 104/92 (fruiti dal disabile stesso) - Connessione con esigenze di cura - Esclusione - Ratio - Necessità di garantire una più agevole integrazione familiare e sociale

I permessi ex art. 33, c. 6, L. 104/92 sono riconosciuti al lavoratore portatore di handicap in ragione della necessità di una più agevole integrazione familiare e sociale, senza che la fruizione del beneficio debba essere necessariamente diretto alle esigenze di cura.
NOTA
La fattispecie in esame attiene al licenziamento per giusta causa di un disabile che ha utilizzato i permessi ex art. 33, c. 6, L. 104/92 per anticipare e/o prolungare le ferie.
Nello specifico, un lavoratore, portatore di disabilità, era stato licenziato per aver aumentato i giorni di assenza dal lavoro in concomitanza con le festività e, quindi, al di fuori delle esigenze di cura dettate dal suo status di invalido.
I giudici di primo e di secondo grado avevano ritenuto illegittimo il licenziamento, condannando il datore di lavoro, ai sensi dell'art. 18, comma 4, L. 300/1970, alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
Per la Corte d'Appello di Brescia i permessi di cui possono beneficiare i lavoratori disabili in base alla ratio della Legge 104/92 non devono essere necessariamente collegati a esigenze di cura, avendo essi la finalità di consentire al soggetto il pieno recupero fisico e psichico necessario per il suo inserimento nella vita sociale e lavorativa. Pertanto, ad avviso della Corte territoriale, l'utilizzo dei permessi in continuità con giorni festivi non configura alcuna violazione disciplinare.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per Cassazione la società, con quattro motivi di ricorso.
Con il primo motivo ha contestato l'interpretazione fornita dalla Corte territoriale dell'art. 33, L. 104/1992: la ricorrente afferma che i permessi sono utilizzabili esclusivamente per «scopi collegati direttamente all'esigenza di tutela e/o cura e/o assistenza e non certamente per finalità ricreative e/o personali, senza confusione con le esigenze di recupero delle energie psico-fisiche alle quali è preposto il diverso istituto delle ferie e senza utilizzi devianti dell'esercizio del diritto».
Con il secondo motivo di ricorso, la società ha contestato la violazione dell'art. 2119 c.c. La Corte d'Appello avrebbe ritenuto erroneamente insussistente la giusta causa di licenziamento, nonostante l'uso improprio dei permessi e l'intensità dell'elemento psicologico rispetto a tale utilizzo, già in precedenza sanzionato.
Con il terzo motivo di ricorso, la società ha censurato la sentenza impugnata per avere la Corte d'Appello trascurato alcune decisive prove documentali: all'esito dell'istruttoria espletata in corso di causa era infatti emerso che il lavoratore aveva svolto, durante le giornate di permesso, attività in contrasto con il suo stato di invalidità, come guidare l'auto per lunghi tratti e caricare la spesa.
Con il quarto e ultimo motivo di ricorso, la società ha contestato l'applicazione del regime reintegratorio di cui all'art. 18, comma 4, L. 300/1970, in quanto «l'abuso dei permessi integrava un fatto sussistente, imputabile al lavoratore e avente rilievo disciplinare».
La Corte di Cassazione, trattando congiuntamente i quattro motivi di ricorso, ha concluso per il rigetto dello stesso.
La Suprema Corte ha anzitutto ricordato che l'art. 33, comma 6 della Legge 104/92, prevede che il lavoratore disabile abbia la libertà di optare tra permessi giornalieri (due ore) o mensili (tre giorni) e di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e di non essere trasferito in un'altra sede lavorativa, senza il suo consenso. Dette provvidenze sono in linea con quanto dispone l'art. 38 della Costituzione, perché favoriscono l'assistenza al disabile da parte dei congiunti a condizione che il lavoratore sia affetto da grave disabilità, ai sensi del combinato disposto degli artt. 33, comma 3 e 33, della citata Legge 104/92.
La tutala e il sostegno del soggetto disabile sono quindi garantite sia a livello nazionale (artt. 2, 3, 38 Cost., Legge n. 68/1999), sia a livello internazionale (Direttiva 200/78/CE e la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità) anche tramite forme di tutela indiretta, ossia tramite agevolazioni che «costituiscono un articolato sistema di welfare, anche familiare, connesso lato sensu ai doveri di solidarietà sociale, quotidianamente costruito attorno al disabile».
L'esigenza di socializzazione per il disabile, secondo la Corte Costituzionale, è imprescindibile per lo sviluppo della sua personalità, come accezione del concetto di salute psico-fisica, che «costituisce un diritto fondamentale dell'individuo (art. 32 Cost.) e rientra tra i diritti inviolabili che la Repubblica riconosce e garantisce all'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost)».
Inoltre, come sottolineato dalla Corte di Giustizia Europea, non si può trascurare il fatto che il lavoratore disabile ha sempre più difficoltà a reinserirsi nel mondo del lavoro.
Con riferimento all'utilizzazione dei permessi fruiti dai familiari (art. 33, comma 3, L. 104/1992), la Suprema Corte ricorda che «l'assistenza non può essere intesa riduttivamente come mera assistenza personale al soggetto disabile presso la sua abitazione ma deve necessariamente comprendere lo svolgimento di tutte le attività che il soggetto non sia in condizioni di compiere autonomamente. L'abuso va quindi a configurarsi solo quando il lavoratore utilizzi i permessi per fini diversi dall'assistenza, da intendere in senso ampio, in favore del familiare» (Cass. n. 1394 del 2020, Cass. n. 21529 del 2019, Cass. n. 8310 del 2019, Cass. n. 17968 del 2016, Cass. n. 9217 del 2016 e Cass. n. 8784 del 2015).
L'interesse primario cui è preposta la L. 104/1992 è infatti quello di «assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell'assistenza al disabile che si realizzino in ambito familiare, attraverso una serie di benefici a favore delle persone che se ne prendono cura». Si è invece in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto, ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro, che dell'ente assicurativo, nel caso in cui il dipendente si avvalga di tali permessi per attendere ad esigenze diverse dalla cura e dalla assistenza al disabile (Cass. n. 17968 del 2016).
Per la Corte di Cassazione, non si può d'altra parte non tenere conto del fatto che «I lavoratori portatori di handicap rilevanti, proprio perché svolgono attività lavorativa, sono gravati più di quanto non sia un lavoratore che assista un coniuge o un parente invalido: la fruizione dei permessi non può essere, dunque, vincolata necessariamente allo svolgimento di visite mediche o di altri interventi di cura, essendo - più in generale - preordinata all'obiettivo di ristabilire l'equilibrio fisico e psicologico necessario per godere di un pieno inserimento nella vita familiare e sociale». Da qui il trattamento di favore previsto per il lavoratore disabile rispetto ai familiari, senza che questo dia origine a una qualche forma di discriminazione, trattandosi di situazioni oggettivamente diverse.
Alla luce delle considerazioni che precedono, la Suprema Corte ha affermato che la Corte territoriale ha fatto buon governo del principio di cui alla massima, laddove ha escluso la configurazione di un abuso del diritto nella fruizione dei permessi da parte del lavoratore portatore di handicap grave per finalità non collegate ad esigenze di cura e ha escluso una situazione antigiuridica di rilievo disciplinare. I permessi di cui all'art. 33, comma 6, della L. 104/1992 sono infatti riconosciuti al lavoratore portatore di handicap «in ragione della necessità di una più agevole integrazione familiare e sociale».
Il ricorso della società è stato dunque respinto.

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