Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Ordine di reintegra e trasferimento presso altra sede
Cessione di ramo d'azienda: autonomia funzionale e preesistenza del ramo
Licenziamento orale
Nozione di mobbing
Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Ordine di reintegra e trasferimento presso altra sede

Cass. Sez. Lav. 17 dicembre 2020, n. 29007

Pres. Raimondi; Rel. Lorito; Ric. G.C.; Controric. S.G.

Ordine di reintegra - Trasferimento presso altra sede - Negozio in frode alla legge - Sussistenza - Nullità del recesso

È nullo per frode alla legge il licenziamento irrogato al lavoratore che a seguito dell'ordine di reintegra per un precedente licenziamento venga trasferito presso altra sede strutturalmente esuberante rispetto alle esigenze aziendali e in perdita già da anni. La manifesta consequenzialità temporale dei due provvedimenti datoriali rende evidente lo schema negoziale pianificato, facendo emergere il meccanismo fraudolento - perché articolato in una serie di condotte nella loro atomistica essenza "apparentemente" lecite - posto in essere dalla società che ha condotto alla definitiva espulsione del lavoratore dall`assetto organizzativo aziendale.
NOTA
Nel caso di specie il Tribunale di Roma dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore e ordinava alla società di reintegrarlo nel posto di lavoro precedentemente occupato e la condannava al pagamento di un'indennità risarcitoria pari a dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali. In accoglimento del reclamo proposto in via incidentale dal lavoratore ed in parziale riforma dell'impugnata sentenza, la Corte distrettuale, respinto il ricorso principale, dichiarava la nullità del licenziamento perché intimato in frode alla legge e condannava parte datoriale alla corresponsione di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto da giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegra. A fondamento della decisione, la Corte territoriale osservava che la società, in esecuzione della precedente pronunzia del Tribunale di Roma - con la quale era stato annullato il licenziamento - aveva disposto la reintegra del lavoratore non presso il negozio in Roma ove era in precedenza occupato, bensì̀ presso il punto vendita sito in Trieste. Cinque giorni dopo la reintegra del ricorrente, la Società aveva comunicato l'avvio di una procedura per riduzione del personale mediante licenziamento collettivo di nove dipendenti, tutti addetti all'unità produttiva di Trieste, strutturalmente esuberante rispetto alle esigenze della società. Opinava, pertanto, la Corte che l'atto risolutivo del rapporto di lavoro, inserito nella vicenda così ricostruita, era da inquadrarsi nella categoria degli atti in frode alla legge, per essere l'operazione complessivamente realizzata, unitamente al trasferimento al punto vendita di Trieste, un mezzo per eludere l'applicazione delle disposizioni imperative in materia di limitazione alle facoltà datoriali di recesso e per sottrarre la società all'ordine di reintegra disposto dalla sentenza del Tribunale di Roma. In tal senso osservava, quanto alla eccezione, sollevata dalla Società, di decadenza dalla impugnativa del trasferimento, che, una volta impugnato in via principale un licenziamento e dedotta la frode alla legge per il collegamento con un preesistente trasferimento, così come nella specie, il giudizio aveva per oggetto entrambi i negozi anche nelle ipotesi in cui quest'ultimo non fosse stato impugnato in via diretta oppure fosse stato impugnato tardivamente.
Avverso tale decisione la Società ha proposto ricorso per cassazione contestando, tra il resto, gli approdi ai quali è pervenuta la Corte distrettuale «sul rilievo che il concetto di frode alla legge è stato previsto dal legislatore solo per i contratti e non già per gli atti unilaterali quale il licenziamento, riguardo al quale la configurabilità e la valenza del motivo illecito ex art.1345 c.c. non può prescindere dalla prova della ritorsività o dell'inesistenza di un diverso motivo del recesso a carico del lavoratore, prova mai fornita ex adverso».
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ricordando il principio secondo cui «la peculiarità del contratto in frode alla legge disciplinato dall'art. 1344 c.c. consiste nel fatto che gli stipulanti raggiungono, attraverso gli accordi contrattuali, il medesimo risultato vietato dalla legge, di guisa che, nonostante il mezzo impiegato sia lecito, è illecito il risultato che, attraverso l'abuso del mezzo, la predisposizione di uno schema fraudolento e la distorsione della sua funzione ordinaria, si vuole in concreto realizzare. Diversamente, non si ha invece contratto in frode alla legge (art. 1344 c.c.), bensì in violazione di disposizioni imperative (art. 1343 c.c.), qualora le parti perseguano il risultato vietato dall'ordinamento, non già attraverso la combinazione di atti di per sé leciti, ma mediante la stipulazione di un contratto la cui causa concreta si ponga direttamente in contrasto con disposizioni di tale natura.
Nello specifico, come fatto cenno nello storico di lite, la Corte distrettuale ha bene lumeggiato il meccanismo fraudolento posto in essere dalla società che ha condotto alla definitiva espulsione del lavoratore, dall'assetto organizzativo aziendale».
La Corte ha quindi concluso affermando che: «Ricordato che presupposto indefettibile affinché si possa parlare di contratto in frode alla legge è che il negozio posto in essere non realizzi quella che è una causa tipica - o comunque meritevole di tutela ex art. 1322, secondo comma, c.c. -, bensì una causa illecita in quanto finalizzata alla violazione della legge, non può non concludersi per la conformità a diritto degli approdi ai quali è pervenuta la Corte di merito la quale ha dichiarato la nullità dell'atto di licenziamento, integrante ipotesi di illiceità della causa del contratto perché finalizzata alla elusione delle norme imperative in materia di limitazione alle facoltà datoriali di recesso dal rapporto di lavoro, e, segnatamente, all'ordine di reintegrazione nel posto di lavoro ed al rispetto delle disposizioni che scandiscono la procedura di licenziamento collettivo ex lege n.223 del 1991; così non realizzando alcuna violaziune delle disposizioni codicistiche richiamate applicabili chiaramente anche agli atti unilaterali».

Cessione di ramo d'azienda: autonomia funzionale e preesistenza del ramo

Cass. Sez. Lav. 13 gennaio 2021, n. 438

Pres. Balestrieri; Rel. Arienzo; P.M. Fresa; Ric.C.M e altri; Controric. T.I. S.p.A. e MP F. S.p.A.

Trasferimento di azienda - Nozione di ramo - Autonomia organizzativa e funzionale - Preesistenza alla cessione - Necessità - Successivo appalto di servizi - Irrilevanza
Ai fini dell'applicazione dell'art. 2112 c.c., anche nel testo modificato dall'art. 32 del d.lgs. n. 276 del 2003, applicabile "ratione temporis", costituisce elemento costitutivo della cessione l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la sua capacità, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere, autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario, il servizio cui risultava finalizzato nell'ambito dell'impresa cedente, non essendo ostativo a tal fine che tale servizio sia espletato in favore della stessa cedente poi divenuta committente.
NOTA
Alcuni lavoratori impugnavano la cessione del ramo di azienda intervenuta tra due società con passaggio del loro rapporto di lavoro alla cessionaria, sostenendo la nullità e/o inefficacia del trasferimento.
La Corte d'Appello di Palermo, confermando la pronuncia resa in primo grado, aveva ritenuto che l'operazione realizzata dalle due società fosse legittima e configurasse un trasferimento di ramo di azienda, in quanto, dal punto di vista oggettivo, sussisteva, prima della cessione, una precisa autonomia funzionale del ramo "manutenzioni" ceduto e, dal punto di vista soggettivo, in quanto i contraenti avevano ben individuato i beni da trasferire come «unitario compendio connesso con l'attività economica trasferita», a nulla rilevando che il servizio di manutenzione venisse quindi espletato dalla cessionaria in favore della cedente, rimasta proprietaria degli immobili. Peraltro, ad avviso della Corte territoriale, sussisteva «una reale organizzazione delle prestazioni di lavoro da parte dell'appaltatore finalizzata al raggiungimento di un risultato produttivo autonomo, indice di un appalto genuino».
Contro la decisione della Corte d'Appello hanno proposto ricorso in Cassazione i lavoratori, formulando plurimi motivi di ricorso.
In particolare, per quanto di interesse, con il terzo motivo hanno censurato la sentenza impugnata per l'avere ritenuto sussistente la cessione di ramo di azienda, ex art. 2112 c.c., rilevando come non sussistessero i requisiti richiesti dalla giurisprudenza per l'applicazione di tale norma al caso in esame.
La Suprema Corte ha ritenuto infondato il suddetto motivo di ricorso.
La Corte di Cassazione ha anzitutto ricordato che tanto la normativa comunitaria (direttive CE nn. 98/50 e 2001/23), quanto quella nazionale (art. 2112 c.c., comma 5), perseguono il fine di evitare che «il trasferimento si trasformi in semplice strumento di sostituzione del datore di lavoro, in una pluralità di rapporti individuali, con altro sul quale i lavoratori possano riporre minore affidamento sul piano sia della solvibilità sia dell'attitudine a proseguire con continuità l'attività produttiva». In particolare, la citata direttiva del 1998 richiede che il ramo di azienda oggetto del trasferimento costituisca una entità economica avente propria identità «intesa come insieme di mezzi organizzati per un'attività economica, essenziale o accessoria». Analogamente, l'art. 2112 c.c., comma 5, si riferisce alla «parte di azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata».
La Corte di Cassazione, ricordando il principio di cui alla massima, ha quindi ritenuto che, nel caso in esame, si fosse configurata una cessione di ramo di azienda, in quanto al momento dello scorporo dal complesso cedente il ramo ceduto aveva già una propria autonomia funzionale «ed era in grado di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere, autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario, il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell'ambito dell'impresa cedente, anche rispetto ad un complesso stabile organizzato di persone, addirittura in via esclusiva, purché dotate di particolari competenze e stabilmente coordinate ed organizzate tra loro, così da rendere le loro attività interagenti e idonee a tradursi in beni e servizi ben individuabili» (cfr. Cass. 8/11/2018, n. 28593).
La Suprema Corte ha concluso affermando che, rispetto alla fattispecie in esame, non assumeva alcun rilievo il fatto che il servizio di manutenzione degli immobili svolto dalla società cessionaria venisse quindi effettuato, successivamente a detto trasferimento di ramo, anche con riguardo ai beni della società cedente, divenuta committente del servizio.
Il ricorso dei lavoratori è stato, quindi, rigettato.

Licenziamento orale

Cass. Sez. Lav. 8 gennaio 2021, n. 149

Pres. Balestreri; Rel. Arienzo; Ric. Princ. A.R.P. Onlus; Controric. e Ric. Inc. M.M.; P.M. Fresa

Licenziamento orale - Impugnazione - Onere della prova - Esistenza del rapporto di lavoro - Volontà datoriale di cessare il rapporto (anche per fatti concludenti) - Necessità - Mera cessazione delle prestazioni - Insufficienza

Il lavoratore che impugna un licenziamento deducendo che esso si è realizzato senza il rispetto della forma prescritta ha l'onere di provare, oltre la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, il fatto costitutivo della sua domanda rappresentato dalla manifestazione di detta volontà datoriale, anche se realizzata con comportamenti concludenti. Infatti, la mera cessazione definitiva nell'esecuzione delle prestazioni derivanti dal rapporto di lavoro non è di per sé sola idonea a fornire la prova del licenziamento, trattandosi di circostanza di fatto di significato polivalente, in quanto può costituire l'effetto sia di un licenziamento, sia di dimissioni, sia di una risoluzione consensuale.
NOTA
Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte torna a delineare gli oneri probatori a carico del lavoratore, in caso di impugnativa di un licenziamento asseritamente orale.
Questi i fatti di causa: un lavoratore adiva il Tribunale di Cosenza lamentando, per quel che qui rileva, di aver subito un licenziamento orale nel marzo del 2007 da parte dell'onlus datrice di lavoro. Il giudice di prime cure, prima e, ancor più specificamente, la Corte distrettuale poi, rigettavano la domanda attorea. In particolare, secondo la Corte di appello, la sussistenza del licenziamento orale sembrava contraddetta dal dato documentale del recesso datoriale intimato con missiva del novembre 2007, non impugnato dal lavoratore, il quale non aveva neppure fornito la prova che il rapporto fosse realmente cessato in epoca precedente a tale ultima data su impulso del datore. Secondo i giudici del gravame, in altre parole, la mancata impugnazione del licenziamento irrogato per iscritto nel novembre 2007, unita all'assenza di prova circa la riconducibilità della cessazione della prestazione nel marzo 2007 alla volontà datoriale (e non ad altre circostanze), rendevano non accoglibile la domanda attorea.
Avverso tale pronuncia il lavoratore ricorreva (incidentalmente) per Cassazione, lamentando la violazione dell'art. 2697 c.c. da parte della Corte di appello. Secondo il lavoratore, infatti, in caso di impugnativa di un licenziamento adottato senza comunicazione scritta, è a carico del datore la prova concernente il requisito della forma scritta del licenziamento mentre il lavoratore è gravato unicamente della prova circa la cessazione del rapporto. Chiedendo al lavoratore di provare le ragioni sottese alla cessazione del rapporto (i.e. di provare che si fosse trattato espressamente di un licenziamento, ossia di un'estromissione riconducibile alla volontà datoriale) la Corte territoriale sostanzialmente aveva onerato il ricorrente di una prova diabolica.
Con la sentenza in epigrafe, la Suprema Corte rigetta il ricorso incidentale. Secondo i giudici di legittimità, infatti, la sentenza impugnata appare del tutto conforme a precedenti consolidati in giurisprudenza secondo cui, in caso di licenziamento orale, è a carico del lavoratore la prova che il rapporto si sia concluso per volontà del datore.
E, infatti, secondo la S.C. la mera cessazione definitiva nell'esecuzione delle prestazioni derivanti dal rapporto di lavoro non è di per sé sola idonea a fornire la prova del licenziamento, trattandosi di circostanza di fatto di significato polivalente, in quanto può costituire l'effetto sia di un licenziamento, sia di dimissioni, sia di una risoluzione consensuale. Tale cessazione non equivale necessariamente a un'"estromissione", parola che peraltro non ha un immediato riscontro nel diritto positivo e a cui va attribuito il significato normativo di "licenziamento", ossia di allontanamento dall'attività lavorativa quale effetto di una volontà datoriale di esercitare il potere di recesso e risolvere il rapporto. Occorre che la cessazione nell'esecuzione delle prestazioni si combini ad altri elementi probatori indicativi della volontà di recesso datoriale perché il giudice radichi il convincimento che si tratti di un licenziamento e che quindi il lavoratore abbia assolto l'onere probatorio sul medesimo gravante circa l'intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro ad iniziativa datoriale.
Secondo la S.C., peraltro, è solo nel momento in cui l'attore ha fornito la prova dei fatti posti a fondamento della sua domanda (ossia di aver subito un licenziamento orale) che il convenuto è gravato dell'onere probatorio in ordine alle eccezioni da lui proposte (quindi, ad esempio, che il licenziamento è avvenuto per iscritto o che la cessazione del rapporto sia riconducibile alla volontà del lavoratore). Ciò significa che l'insufficienza (o anche la mancanza) della prova sulle circostanze dedotte dal convenuto a confutazione dell'avversa pretesa non vale a dispensare la controparte dall'onere di dimostrare adeguatamente la fondatezza nel merito della pretesa stessa.
Ebbene, è proprio alla luce dei suddetti principi che, secondo la S.C. la domanda del lavoratore deve essere rigettata non avendo quest'ultimo fornito alcuna prova circa la riconducibilità della cessazione del rapporto nel marzo 2007 alla volontà datoriale, e avendo – invece - il datore non solo negato l'esistenza di una cessazione del rapporto di lavoro in quella data ma, soprattutto, provato di avere intimato per iscritto il licenziamento con missiva del novembre 2007.

Nozione di mobbing

Cass. Sez. Lav. ord. 29 dicembre 2020, n. 29767

Pres. Di Paolantonio; Rel. Tricomi; Ric. B.M.C.; Controric. C.P.;

Lavoro subordinato – Art. 2087 c.c. – Mobbing – Sussistenza – Requisiti – Intento persecutorio o vessatorio – Necessità

Ai fini della configurabilità di una ipotesi di "mobbing", non è condizione sufficiente l'accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione
NOTA
Nel caso di specie il Tribunale di Firenze aveva condannato al risarcimento del danno biologico l'ente convenuto ritenendo integrata la fattispecie del mobbing, scaturente da un'ipotesi di demansionamento professionale, nei confronti di una dipendente di quest'ultimo.
Tale decisione, su ricorso dell'ente datore di lavoro, veniva ribaltata dalla Corte d'Appello di Firenze secondo la quale non poteva dirsi integrata nella fattispecie – sulla base dell'istruttoria espletata – una condotta del datore di lavoro dolosamente preordinata alla vessazione della dipendente. Gli elementi di fatto emersi in corso di istruttoria, tra i quali il mancato saluto da parte del segretario dell'ente datore di lavoro, la circostanza che quest'ultimo correggesse alcuni scritti redatti dalla lavoratrice cosi come la mancata presenza di quest'ultima alle riunioni di giunta, evidenziavano esclusivamente delle difficoltà nell'ambito dei rapporti professionali e non la volontà del datore di lavoro di emarginare la dipendente in vista di un intento espulsivo o persecutorio di quest'ultima.
Contro la decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso in Cassazione la lavoratrice sostenendo, in sintesi, che la Corte territoriale avesse errato nel ritenere il mobbing insussistente in virtù del mancato esame e della mancata menzione di elementi ulteriori rispetto a quelli valutati e decisivi al fine di ritenere sussistente il dimensionamento, quali il fatto che alla stessa fosse stato sottratto il compito di rilasciare pareri tecnici o di partecipare alla contrattazione decentrata.
La Suprema Corte ha respinto le censure di cui sopra, dichiarando il ricorso inammissibile.
In particolare la Corte ha rilevato che affinché possa dirsi sussistente il cd. mobbing l'esistenza di un demansionamento o di condotte illegittime da parte del datore di lavoro non rappresentano requisiti sufficienti in quanto tale fattispecie richiede l'allegazione e prova di elementi ulteriori e concreti tali da far ritenere che tali comportamenti siano «il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione». La Cassazione ha peraltro confermato che la dimostrazione della sussistenza di tale elemento, così come degli altri necessari ai fini della configurazione di un'ipotesi di mobbing, è in capo al lavoratore.
Nel caso di specie la Corte d'Appello aveva posto a fondamento del rigetto della domanda proprio la mancanza dell'intento persecutorio e – tale statuizione – non è stata, ad avviso della Suprema Corte, correttamente censurata dalla lavoratrice la quale si è limitata a ritenere sussistente il demansionamento e lo stesso, contrariamente da quanto previsto dalla giurisprudenza di Cassazione, condizione sufficiente per la sussistenza del mobbing.

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 16 dicembre 2020, n. 28816

Pres. Raimondi; Rel. Blasutto; P.M. Celeste; Ric. R. S.p.A.; Controricorrente P. S.

Licenziamento collettivo - Criteri di scelta - Ambito di applicazione - Singola unità produttiva, reparto o settore dell'azienda - Ammissibilità - Limite - Fungibilità - Onere della prova del lavoratore - Necessità - Carenza - Valutazione del giudice - Preclusione

Ove la ristrutturazione della azienda interessi una specifica unità produttiva o un settore, la comparazione dei lavoratori per l'individuazione di coloro da avviare a mobilità può essere limitata al personale addetto a quella unità o a quel settore, salvo l'idoneità dei dipendenti del reparto, per il pregresso impiego in altri reparti della azienda, ad occupare le posizioni lavorative dei colleghi a questi ultimi addetti, spettando ai lavoratori l'onere della deduzione e della prova della fungibilità nelle diverse mansioni.
NOTA
La Corte di Appello di Firenze, in accoglimento del reclamo proposto dal lavoratore, riformava la sentenza del Tribunale di Firenze, annullando il licenziamento intimato al dipendente dal datore di lavoro all'esito di una procedura di mobilità ex L. n. 223/91 ed ordinando la reintegra dello stesso nel posto di lavoro, con risarcimento del danno in suo favore nella misura di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali, e condanna del datore di lavoro alla regolarizzazione della posizione previdenziale del lavoratore.
La Corte territoriale rilevava che «a) nella procedura nulla risultava quanto alla posizione del lavoratore L. B., il quarto addetto allo stacco, secondo le allegazioni della convenuta; b) nelle operazioni di "stacco verniciatura" la società aveva impiegato anche il dipendente I., indicato nella comunicazione di apertura della procedura come "addetto allo stacco—mulettista", il quale era stato adibito sia prima che dopo il licenziamento del ricorrente con assoluta prevalenza allo stacco, di modo che egli avrebbe dovuto essere comparato con la posizione del P..».
La Corte territoriale riteneva dunque fondato il reclamo proposto dal lavoratore «con
cui erano stati riproposti gli argomenti già svolti dinanzi al Tribunale e, in particolare, il difetto della sua comparazione con tutte le altre posizioni effettivamente fungibili, quali emerse nel corso dell'istruttoria svolta in primo grado».
Avverso tale decisione il datore di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto diversi profili.
La Suprema Corte ritiene viziato l'iter argomentativo della Corte di Appello di Firenze, in quanto la "fungibilità", criterio adottato dalla stessa a sostegno della sua decisione, «opera nel senso che, ove il lavoratore interessato dal licenziamento abbia dimostrato di possedere una professionalità fungibile, la sua comparazione può non essere limitata a quella degli appartenenti allo stesso reparto o settore interessato dalla riduzione (nella specie, la ristrutturazione dell'azienda aveva interessato specifici settori e profili professionali), poiché la fungibilità rivela l'idoneità del lavoratore ad occupare posizioni lavorative di reparti diversi, in cui lo stesso si è trovato ad operare precedentemente in azienda, fermo restando che in tali casi spetta pur sempre al lavoratore l'onere di allegare e dimostrare tale sua fungibilità».
In particolare, la Suprema Corte rileva che il lavoratore non aveva dedotto e dimostrato di essere in possesso di una professionalità fungibile «rispetto allo I., avente il diverso profilo professionale di "addetto allo stacco-mulettista", profilo per il quale la società non aveva ritenuto esistenti eccedenze di personale", e che, invece, la Corte territoriale aveva applicato "erroneamente il principio di diritto relativo alla rilevanza della professionalità fungibile", spingendo quindi "la sua indagine sul merito delle scelte aziendali, compiendo un'indagine preclusa al giudice ai sensi dell'art. 41 Cost.».
Anche su questo punto, la Suprema Corte si uniforma all'impostazione data dal suo costante orientamento, secondo il quale «la L. n. 223 del 1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell'iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell'impresa, dovuto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda. I residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più, quindi, gli specifici motivi della riduzione del personale (a differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo obiettivo) ma la correttezza procedurale dell'operazione, con la conseguenza che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5 e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l'autorità giudiziaria di una indagine sulla presenza di "effettive" esigenze di riduzione o trasformazione dell'attività produttiva (v. Cass. n. 11455 del 1999, Cass. nn. 13450, 13727, 14434, 13839 e 14553 del 2000, n. 11194 del 2001, Cass. n. 11651 del 2003, Cass. n. 9134 del 2004, Cass. n. 21300 del 2006, Cass. 19347 del 2007, n. 5089 del 2009; da ultimo Cass. 30250 del 2018)».
Conclusivamente la Suprema Corte accoglie il ricorso del datore di lavoro, cassando con rinvio la sentenza impugnata alla Corte d'Appello di Firenze in diversa composizione, per il riesame dei motivi di appello alla luce dei principi di diritto dalla stessa indicati.

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