Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Assenza per malattia e svolgimento di attività extralavorativa
Illegittimità del licenziamento disciplinare e conseguenze sanzionatorie
Licenziamento per giusta causa
Contratto di solidarietà difensivo e procedura di mobilità
Pubblico impiego e azione disciplinare

Assenza per malattia e svolgimento di attività extralavorativa

Cass. Sez. Lav. 13 aprile 2021, n. 9647

Pres. Berrino; Rel. Lorito; P.M. Sanlorenzo; Ric. A. S.p.A.; Controric. B.R.

Assenza per malattia - Svolgimento di attività extralavorativa - Attività compatibile con lo stato patologico - Licenziamento - Giusta causa - Illegittimità

Lo svolgimento di attività extralavorativa durante il periodo di assenza per malattia costituisce illecito disciplinare per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, quando l'attività esterna sia di per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, ovvero quando, in violazione del dovere preparatorio all'adempimento e valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l'attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore.
NOTA
Il Tribunale di Napoli dichiarava illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore che, durante l'assenza per malattia, era stato impegnato in attività ricreative, ordinandone la reintegrazione nel posto di lavoro. La Corte d'Appello confermava tale pronuncia, ritenendo che nel caso concreto, vertendosi in un'ipotesi di patologia neurologica, i comportamenti ascritti al lavoratore non fossero né sintomatici di una simulazione della malattia né incompatibili con essa o forieri di ritardi nella guarigione.
Avverso tale decisione interpone ricorso per Cassazione il datore di lavoro, denunciando, inter alia, una violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375 e 2104 cod. civ.
In particolare, la società eccepisce che, mostrandosi impegnato in attività ricreative durante il periodo di malattia, il lavoratore avrebbe assunto un comportamento incompatibile con la dichiarata condizione depressiva, venendo meno ai propri doveri di collaborazione con il datore di lavoro alla stregua dei principi di buona fede e correttezza.
La Suprema Corte rigetta il motivo di ricorso, confermando innanzitutto il proprio orientamento consolidato secondo cui la malattia deve essere intesa non come uno stato che comporta l'impossibilità assoluta di svolgere qualunque tipo di attività, bensì come una condizione che impedisce lo svolgimento della normale prestazione lavorativa. Nell'ipotesi in cui il lavoratore assente per malattia venga sorpreso nello svolgimento di altre attività, questi dovrà dimostrare la compatibilità tra dette attività e la malattia che impedisce lo svolgimento dell'attività lavorativa, la mancanza di elementi idonei a far presumere l'inesistenza della malattia e l'inidoneità delle attività svolte a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche.
Inoltre, la Corte ribadisce i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui lo svolgimento di attività extralavorativa durante il periodo di assenza per malattia costituisce illecito disciplinare – e può quindi giustificare il recesso del datore di lavoro – soltanto qualora l'attività esterna sia sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia ovvero qualora essa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore (in senso conforme, Cass. 15916/2000, Cass. 586/2016, Cass. 10416/2017, Cass. 26496/2018).
Nel caso in esame, la Corte d'Appello aveva correttamente applicato i suddetti principi e – alla luce delle risultanze probatorie e degli elaborati medico-legali stilati dai consulenti tecnici nominati nei diversi gradi di giudizio – aveva correttamente concluso che i comportamenti assunti dal lavoratore durante l'assenza fossero compatibili con la diagnosi di una patologia neurologica di natura depressiva, escludendo di conseguenza che tale attività giustificasse un licenziamento.

Illegittimità del licenziamento disciplinare e conseguenze sanzionatorie

Cass. Sez. Lav. 7 aprile 2021, n. 9305

Pres. Berrino; Rel. Patti; P.M. Sanlorenzo; Ric A.B.S.; Controric. G.V

Licenziamento disciplinare - Plurime condotte - Impugnazione del licenziamento - Insussistenza del fatto contestato - Interpretazione - Mancata realizzazione del nucleo minimo di condotta - Configurabilità - Conseguenze: reintegrazione nel posto di lavoro - Sproporzione tra sanzione e infrazione - Mancata previsione del CCNL - Conseguenze: indennità tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità

Nel caso di licenziamento disciplinare intimato per una pluralità di distinti ed autonomi comportamenti, solo alcuni dei quali risultino dimostrati, l`insussistenza del fatto si configura qualora possa escludersi la realizzazione di un nucleo minimo di condotte che siano astrattamente idonee a giustificare la sanzione espulsiva, o se si realizzi l`ipotesi dei fatti sussistenti ma privi del carattere di illiceità, ferma restando la necessità di operare in ogni caso una valutazione di proporzionalità tra la sanzione ed i comportamenti dimostrati. Ne consegue, nell`ipotesi di sproporzione tra sanzione e infrazione, l`applicazione della tutela risarcitoria se la condotta dimostrata non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi o i codici disciplinari applicabili prevedano una sanzione conservativa, ricadendo invece la proporzionalità tra le "altre ipotesi" di cui all`articolo 18, quinto comma, della legge 300/70, come modificato dall`articolo 1, comma 42 della legge 92/2012, per le quali è prevista la tutela indennitaria cosiddetta "forte".
NOTA
La fattispecie sottoposta al vaglio della Suprema Corte attiene al licenziamento disciplinare irrogato ad un dipendente che, secondo la ricostruzione della società datrice di lavoro, aveva a) causato un infortunio sul lavoro di un collega (ovvero lo schiacciamento di un braccio); b) rilasciato false dichiarazioni in merito alla dinamica dell'infortunio; c) approfittato della qualità di R.L.S. (Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza) per avallare una versione dei fatti che ne occultasse la responsabilità.
All'esito del procedimento ex L. n. 92/2012, Il Tribunale prima e la Corte d'Appello poi accertavano l'illegittimità del licenziamento del dipendente. In particolare, la Corte territoriale dichiarava l'insussistenza del fatto contestato con conseguente reintegrazione ai sensi dell'art. 18 comma 4 L. n. 300/1970 poiché, a seguito delle risultanze istruttorie, emergeva che il dipendente aveva seguito la procedura operativa aziendale e non aveva intenzionalmente travisto i fatti al fine di nascondere una sua responsabilità, né esercitato pressioni in tale senso in virtù della carica di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.
Avverso la predetta sentenza, la società datrice di lavoro proponeva ricorso per cassazione, contestando con un unico motivo l'applicazione della tutela reintegratoria, in quanto erroneamente la Corte d'Appello aveva ritenuto insussistenti tutti i fatti disciplinari contestati. In particolare, la società evidenziava la sussistenza del fatto relativo alla falsità della descrizione della dinamica dell'infortunio operata dal dipendente in qualità di R.L.S., specificamente addebitata e autonomamente rilevante sotto il profilo disciplinare, trovando, dunque, applicazione il comma quinto (i.e. la tutela indennitaria c.d. forte tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità) e non la reintegrazione nel posto di lavoro senza soluzione di continuità.
Il motivo è stato ritenuto infondato. La Corte di Cassazione, in particolare, ha chiarito che «nel caso di licenziamento disciplinare intimato per una pluralità di distinti ed autonomi comportamenti, solo alcuni dei quali risultino dimostrati, la "insussistenza del fatto" si configura, come noto, qualora possa escludersi la realizzazione di un nucleo minimo di condotte che siano astrattamente idonee a giustificare la sanzione espulsiva, o se si realizzi l'ipotesi dei fatti sussistenti ma privi del carattere di illiceità.». La tutela indennitaria ex art. 18 comma quinto della L. 330/1970 troverà, invece, applicazione nell'ipotesi di sproporzione tra sanzione e infrazione, sempreché la condotta oggetto di contestazione non sia riconducibile ad alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi o i codici disciplinari applicabili prevedano una sanzione conservativa.
La Corte di legittimità ha, dunque, disatteso le censure mosse dalla società, in quanto tese, nonostante la formale denuncia di violazioni di legge, a rimettere in discussione la ricostruzione del fatto storico così come operata dai giudici di merito. Ha osservato la Suprema Corte come questi ultimi, infatti, abbiano applicato correttamente i principi enunciati e accertato l'insussistenza dei fatti contestati in esito ad un critico scrutinio delle risultanze istruttorie congruamente argomentato e, pertanto, insindacabile in sede di legittimità.

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 7 aprile 2021 n. 9304

Pres. Berrino; Rel. Patti; P.M. Lorenzo; Ric. E.A.; Controric. H.M.S. S.r.l.

Licenziamento - Giusta causa - Tipizzazioni del CCNL - Natura vincolante - Esclusione - Limite - Sanzione conservativa

Nella valutazione della giusta causa di licenziamento il giudice non è soggetto ad alcun vincolo derivante dalla tipizzazione contrattuale collettiva e può fare riferimento alle valutazioni di gravità di determinate condotte presenti nei ccnl come espressive di criteri di normalità dovendo appunto "tenerne conto", con il solo limite di non potere, qualora un determinato comportamento del lavoratore addotto dal datore di lavoro a giusta causa di licenziamento sia previsto integrare una specifica infrazione disciplinare cui corrisponda una sanzione conservativa, farne oggetto di un'autonoma valutazione di maggior gravità.
NOTA
La Corte di Appello di Reggio Calabria, confermando la sentenza del Tribunale, rigettava la domanda proposta da un lavoratore avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli dalla società datrice.
Il lavoratore, nella fattispecie, aveva violato le norme di sicurezza stradale, immettendosi su un viadotto in contromano mentre si trovava alla guida dell'auto di servizio aziendale e reagiva al controllo degli agenti di polizia stradale, tentando di convincerli a non elevare la contravvenzione, adducendo inesistenti ragioni di servizio, e di intimidirli, dettando al proprio telefono a voce alta il numero di targa della "volante" che lo aveva fermato.
La Corte d'Appello, scrutinate le risultanze istruttorie del primo grado, confermava la legittimità del licenziamento per giusta causa in considerazione della gravità del comportamento del lavoratore e della proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto ad esso.
Avverso tale decisione ha proposto ricorso per Cassazione il lavoratore lamentando, per un motivo, la violazione e falsa applicazione degli artt. 7 L. 300/1970 e 20 CCNL 26 febbraio 2011 settore terziario, assumendo che la Corte d'Appello avesse errato nella qualificazione del licenziamento per giusta causa, quale sanzione espulsiva non proporzionata all'effettiva gravità della condotta, e per la non riconducibilità del comportamento tenuto dal lavoratore ad alcuna delle ipotesi di licenziamento disciplinare stabile dal CCNL di riferimento, con conseguente (auto)limitazione del potere di recesso datoriale. Per altro motivo, il lavoratore ha dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt. 113 cod. proc. civ., 3 L. 604/1966, 2119 c.c., 30, terzo comma, L. 183/2010, 18 L. 300/1970, assumendo che la Corte d'Appello avesse erroneamente ricondotto il fatto storico nell'ipotesi di notevole inadempimento, senza accertamento della sua incidenza sulla struttura del contratto di lavoro.
La Suprema Corte, in continuità con il consolidato orientamento sul punto, afferma, innanzitutto, che la "clausola generale della giusta causa", in quanto norma cd. "elastica", indica solo parametri generali e presuppone da parte del Giudice un'attività di integrazione giuridica della norma, a cui dà così concretezza per adeguarla ad un determinato contesto storico-sociale. In particolare, la Corte di Cassazione ribadisce l'orientamento (Cass. n. 4060 del 2011; Cass. n. 2830 del 2016; Cass. n. 21162 del 2018) secondo cui il giudice, nell'accertamento della sua sussistenza o meno della "giusta causa", non sia soggetto ad alcun vincolo derivante dalla tipizzazione datane dalla contrattuale collettiva che ha valenza «meramente esemplificativa» e non impedisce una valutazione circa l'idoneità di un grave inadempimento del lavoratore «contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile» e l'irreparabilità del rapporto fiduciario con il suo datore di lavoro. Il giudice, secondo la Corte di Cassazione, ha il solo limite di non potere svolgere un'autonoma valutazione di maggiore gravità qualora il comportamento contestato al lavoratore posto a fondamento del licenziamento per giusta causa integri una specifica infrazione disciplinare per cui la disciplina contrattuale collettiva preveda, invece, una sanzione conservativa (Cass. n. 13353 del 2011; Cass. n. 9223 del 2015; Cass. 8621 del 2020).
Sulla proporzionalità della sanzione disciplinare, la Corte di Cassazione, ha poi ribadito i principi in merito al relativo giudizio, che va operato «tenuto conto di tutti i connotati oggettivi e soggettivi della vicenda: entità del danno, grado della colpa o intensità del dolo, esistenza o meno di precedenti disciplinari», sia in sede di irrogazione della sanzione da parte del datore, sia da parte del giudice del merito, il cui apprezzamento, se sorretto da adeguata e logica motivazione – come è stato ritenuto nel caso di specie - si sottrae a censure in sede di legittimità.
La Corte di Cassazione, facendo applicazione dei principi sopra esposti, ha quindi ritenuto infondato il ricorso, rilevando (i) la corretta qualificazione, da parte sia del Tribunale che della Corte d'Appello, del licenziamento per giusta causa, attraverso l'esplicita valutazione della gravità dell'inadempimento del lavoratore ai propri obblighi «tale da far venire meno il rapporto fiduciario», (ii) il corretto richiamo alla «natura legale» della "giusta causa" di licenziamento, svincolata, quindi, dall'esistenza o meno di ipotesi tipizzate nel contratto collettivo, e, infine, (iii) la corretta e motivata valutazione di proporzionalità della sanzione disciplinare adottata, sia in riferimento all'elemento oggettivo, per la «sufficiente rimproverabilità della condotta sotto il profilo della colpa», sia in riferimento all'elemento oggettivo, ritenuto «compiutamente accertato» da parte della Corte d'Appello in base ad un «attento e critico scrutino delle risultanze istruttorie».

Contratto di solidarietà difensivo e procedura di mobilità

Cass. Sez. Lav. 7 aprile 2021, n. 9307

Pres. Berrino; Rel. Lorito; Ric. T.I. S.p.A.; Controric. S.F.

Contratto di solidarietà difensivo - Procedura di mobilità - Compatibilità - Sussistenza

È legittimo il contratto di solidarietà applicato ai dipendenti nel corso di una procedura di mobilità volontaria anche per ambiti aziendali parzialmente coincidenti. Difatti, il contratto di solidarietà è uno strumento atto a fronteggiare situazioni di eccedenza di personale, che permette di evitare in tutto o in parte di addivenire ad una riduzione di personale, essendo riconosciuta all'impresa la possibilità di fronteggiare le criticità produttive sopravvenute in un determinato settore per non compromettere la continuità aziendale. Al contrario è da ritenersi illegittima la situazione inversa, in cui, nella vigenza del contratto di solidarietà il datore di lavoro avvii una procedura di licenziamento collettivo.
NOTA
Un dipendente addetto alla funzione Directory Assistance, lamentando di essere stato illegittimamente collocato in solidarietà con riduzione dell'orario di lavoro e della retribuzione, adiva il Tribunale di Roma, il quale, accogliendo parzialmente la domanda del ricorrente, condannava il datore di lavoro a reintegrare il dipendente nel proprio orario di lavoro e a corrispondergli la parte di retribuzione contrattuale da lui non percepita per effetto della citata riduzione di orario.
La Corte di appello di Roma, adita dal datore di lavoro, confermava la sentenza del giudice di prime cure.
Il datore di lavoro impugnava quindi davanti alla Corte di Cassazione la sentenza della Corte di appello che aveva considerato illegittimo il contratto di solidarietà difensivo oggetto del giudizio, in quanto convenuto nell'ambito di una procedura di mobilità che interessava ambiti aziendali parzialmente coincidenti. A sostegno delle proprie difese, il datore di lavoro afferma che non vi è alcuna previsione normativa che sancisce un'incompatibilità tra ricorso alla solidarietà e quello ad altri strumenti di riduzione di personale, tra cui la mobilità e che «la sentenza impugnata non aveva considerato come qualora sopraggiungessero nel corso del tempo particolari situazione di crisi aziendali - nella fattispecie puntualmente dedotte con riferimento alla funzione di Directory Assistance e non contestate, nonché comunque documentalmente dimostrate - l'impresa abbia la facoltà di avviare procedure di mobilità in base alle vigenti disposizioni normative per poterle fronteggiare- e tentare di preservare la continuità aziendale».
La Corte di Cassazione accoglie il ricorso del datore di lavoro affermando che «ciò che rileva nello specifico, è che la procedura di mobilità volontaria già avviata per l'intera azienda da circa un anno, non aveva consentito di fronteggiare gli esuberi di personale che si erano evidenziati successivamente, anche sub specie di aggravamenti della situazione di crisi pregressa, e che la serietà delle ragioni sottese alla adozione dell'accordo di solidarietà era stata oggetto di positivo scrutinio da parte della Amministrazione, consacrato dal provvedimento ministeriale di ammissione dei lavoratori alla integrazione salariale». Continua la Corte sostenendo che «Diversamente opinando, secondo la tesi accreditata dalla Corte d'appello, si dovrebbe ritenere che qualora l'impresa avvii una procedura di mobilità volontaria di personale in un determinato arco temporale non potrebbe, nel perdurare dello stesso, fronteggiare alcuna criticità produttiva sopravvenuta inerente ad uno specifico settore anche qualora questa comprometta la continuità aziendale».
Al contrario, invece, secondo la Corte di Cassazione l'espressa previsione legislativa della possibilità che la riduzione oraria realizzi un impedimento anche solo parziale di esuberi implica il riconoscimento da parte del legislatore della possibilità che un contratto di solidarietà difensiva intervenga nel corso di una procedura di riduzione di personale laddove, invece, deve ritenersi illegittima l'inversa situazione in cui, nella vigenza del contratto di solidarietà c.d. difensivo, previsto dall'art. 1 del d.l. n. 726 del 1984, conv. con modif. in l. n. 863 del 1984, il datore di lavoro avvii una procedura di licenziamento collettivo.

Pubblico impiego e azione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 7 aprile 2021, n. 9313

Pres. Tria; Rel. Marotta; P.M. Celeste; Ric. I.; Contr. F.A.

Pubblico impiego - Notizia di reato - Procedimento disciplinare - Contestazione disciplinare - Tempestività - Decorrenza del termine

In tema di pubblico impiego non basta l'informazione di garanzia per far scattare il termine per la contestazione disciplinare. Infatti, solo una notizia circostanziata dell'illecito consente all'Amministrazione di formulare l'incolpazione e garantisce al dipendente un effettivo diritto di difesa.
Procedimento disciplinare - Diritto di difesa del lavoratore - Audizione orale - Diritto del lavoratore al differimento - Insussistenza - Impossibilità di presenziare - Malattia - Non sufficienza -Esigenza difensiva particolare -Necessità
Il lavoratore raggiunto da una contestazione disciplinare ha diritto, qualora ne abbia fatto richiesta, ad essere sentito oralmente dal datore di lavoro; tuttavia, ove il datore, a seguito di tale richiesta, abbia convocato il lavoratore per una certa data, questi non ha diritto ad un differimento dell'incontro laddove si limiti ad addurre un'impossibilità di presenziare, poiché l'obbligo di accogliere la richiesta del lavoratore sussiste solo ove la stessa risponda ad un'esigenza difensiva non altrimenti tutelabile. È onere del dipendente, infatti, dimostrare di non poter presenziare all'audizione a causa di una patologia così grave da risultare ostativa all'esercizio assoluto del diritto di difesa, dovendosi ritenere che talune malattie non gli precludono altre forme partecipative, quali, ad esempio, l'invio di memorie esplicative o la delega ad un avvocato.
NOTA
La Corte d'Appello di Bari confermava la sentenza resa in primo grado dal Tribunale di Foggia, con la quale era stata dichiarata l'illegittimità del licenziamento disciplinare irrogato ad un dipendente, con conseguente diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro e condanna del datore al pagamento delle retribuzioni dovute dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegra.
In particolare, la Corte territoriale riteneva che l'azione disciplinare avviata dal datore di lavoro nel novembre 2000, conclusasi con il licenziamento del dipendente, fosse tardiva, tenuto conto del fatto che la società datrice aveva ricevuto, già nel maggio del 1998 dalla Procura del Tribunale di Foggia, un'informazione di garanzia nei confronti del dipendente inerente i medesimi fatti sulla base dei quali, una volta rinviato a giudizio il dipendente nell'ottobre 2000, si era dato successivamente avvio al procedimento disciplinare nei suoi riguardi.
Ad avviso della Corte, dall'informazione di garanzia si evincevano tutti gli elementi utili ai fini del tempestivo esercizio dell'azione disciplinare, ovvero l'identità soggettiva degli autori del fatto illecito, le modalità esecutive, il contenuto e le finalità della condotta incriminata, il nominativo della vittima, nonché la data ed il luogo di commissione dell'illecito, cosicché il datore avrebbe dovuto avviare il procedimento disciplinare già dal momento della ricezione della comunicazione della predetta informazione di garanzia.
In aggiunta a quanto sopra, la Corte d'Appello rilevava un ulteriore profilo di illegittimità del provvedimento espulsivo irrogato al dipendente sulla base del fatto che il datore di lavoro non aveva mosso alcuna contestazione in ordine alla serietà ed alla veridicità dell'impedimento allegato dal lavoratore a presenziare all'audizione orale dallo stesso richiesta, dopo una prima istanza di differimento per motivi di salute.
Nella specie, infatti, vi era stata una prima istanza di differimento dell'audizione orale per un impedimento a comparire del lavoratore per motivi di salute e, fissata dal datore una seconda data per tale audizione, il dipendente aveva rappresentato altro impedimento a comparire, sempre per motivi di salute, chiedendo un ulteriore differimento. Tale seconda istanza, però, era stata respinta dal datore che aveva ritenuto chiuso il procedimento disciplinare procedendo all'irrogazione del provvedimento espulsivo.
Avverso tale decisione il datore di lavoro propone ricorso per cassazione, censurando la decisione sotto due distinti profili.
Con riferimento al primo motivo di ricorso, il datore ritiene che la Corte territoriale abbia errato nel considerare non tempestivo l'avvio del procedimento disciplinare, in quanto la mera sussistenza di un avviso di garanzia a carico di un lavoratore, stante la sua genericità e il contenuto indiziario, non è di per sé sufficiente per avviare un procedimento disciplinare, essendo invece necessario e prodromico l'avvio di indagini a carico del lavoratore per far decorrere i termini per l'esercizio dell'azione disciplinare ed il contestuale effettivo diritto di difesa.
Con il secondo motivo di ricorso, il datore di lavoro assume che la Corte territoriale abbia errato nel ritenere violate le norme sull'audizione a difesa del lavoratore laddove era stato quest'ultimo a formulare una prima istanza di differimento, allegando un impedimento a comparire per motivi di salute, e successivamente una richiesta di rinvio, evenienze, queste, che non interrompendo i termini per la conclusione del procedimento disciplinare – previsti dalla normativa speciale di settore – avevano legittimato il datore a procedere.
La Corte di Cassazione, per quanto qui rileva, ritiene fondato il ricorso proposto dal datore di lavoro disattendendo le argomentazioni fatte proprie dai giudici dei precedenti gradi di giudizio.
In primo luogo, la Suprema Corte afferma che «in tema di procedimento disciplinare, ai fini della decorrenza del termine per la contestazione dell'addebito, assume rilievo esclusivamente il momento in cui l'ufficio competente abbia acquisito una "notizia di infrazione" di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l'avvio al procedimento mediante la contestazione, la quale può essere ritenuta tardiva solo qualora la P.A. rimanga ingiustificatamente inerte, pur essendo in possesso degli elementi necessari per procedere, sicché il suddetto termine non può decorrere a fronte di una notizia che, per la sua genericità, non consenta la formulazione dell'incolpazione e richieda accertamenti di carattere preliminare volti ad acquisire i dati necessari per circostanziare l'addebito».
La Corte, poi, ribadisce il principio secondo il quale, con la contestazione disciplinare, il dipendente deve essere posto in grado di esercitare pienamente il diritto di difesa, ritenendo che la semplice denuncia – non (ancora) supportata da altri elementi istruttori – non può essere tale da consentire una completa ed autonoma valutazione in sede disciplinare, né può consentire allo stesso incolpato un completo ed effettivo esercizio del diritto di difesa.
Con riferimento al caso di specie, dunque, la Suprema Corte ritiene che erra la Corte territoriale nel ritenere che era nel momento della ricezione da parte del datore di tale informazione di garanzia che poteva essere individuato il dies a quo per la valutazione della tempestività dell'azione disciplinare.
In secondo luogo la Cassazione, relativamente alla questione della mancata audizione orale del lavoratore, discostandosi anche in questo caso, dal ragionamento seguito dai giudici di merito, sottolinea che, qualora il datore, a seguito di richiesta di audizione orale, abbia convocato il lavoratore per una certa data, lo stesso non abbia un incondizionato diritto al differimento dell'incontro.
Ritiene la Suprema Corte, infatti, che tanto in ambito di lavoro privato quanto in ambito di lavoro pubblico privatizzato, la sanzione dell'illegittimità del licenziamento – in caso di violazione del termine posto per le difese del lavoratore – viene sempre collegata alla deduzione di un pregiudizio subìto nell'articolazione delle giustificazioni da fornire al datore di lavoro. Il pregiudizio determinato dal mancato rispetto del termine a difesa deve, tuttavia, essere dedotto in concreto e non in via astratta.
Con riferimento al caso di specie, la Cassazione ritiene che era onere del dipendente dimostrare di non poter presenziare all'audizione a causa di una patologia così grave da risultare ostativa all'esercizio assoluto del diritto di difesa «dovendosi ritenere che altre malattie non gli precludono altre forme partecipative come l'invio di memorie esplicative o la delega ad un avvocato» e che nessuna verifica in tal senso era stata effettuata dalla Corte territoriale.
Sulla base di tali argomentazioni, la Corte di Cassazione accoglie il ricorso del datore, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'Appello di Bari, in diversa composizione, per il riesame di merito alla luce dei principi indicati in sentenza.

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