Contenzioso

Rassegna di Cassazione

d a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Superminimo e aumento della retribuzione
Licenziamento intimato a mezzo telegramma
Licenziamento disciplinare
Licenziamento collettivo e criteri di scelta
Cigs e criteri per la scelta


Superminimo e aumento della retribuzione

Cass. Sez. Lav. ord. 16 aprile 2021, n. 10164

Pres. Berrino; Rel. Piccone; Ric. S. s.p.a. Controric. C.M., G.L., D.A.M., G.V.;

Superminimo - Aumento della retribuzione - Pagamento suddiviso in più tranche - Erogazione della prima senza assorbimento - Validità anche per le altre - Sussistenza - Rinuncia della società all'assorbimento - Configurabilità

La condotta della società che, a seguito dell'aumento della retribuzione previsto in sede collettiva, provveda al pagamento dello stesso in più tranche senza avvalersi in occasione della corresponsione della prima tranche dell'assorbimento con il superminimo è indicativa della volontà concludente del datore di ritenere quest'ultimo non assorbibile anche con riferimento alle successive tranches. L'aumento in questione deve, infatti, ritenersi unico, anche se corrisposto in diverse tranche, per cui il fatto di avere corrisposto la prima senza ridurre il superminimo ha comportato una rinuncia da parte della società anche per le tranche successive, superando la presunzione del principio generale dell'assorbimento del superminimo
NOTA
Con sentenza datata 8 settembre 2017, la Corte di Appello di Milano respingeva l'appello proposto dalla società S. nei confronti di alcuni lavoratori, e confermava l'illegittimità dell'assorbimento del superminimo negli aumenti dei minimi retributivi disposti dal CCNL industria alimentare, condannando la società alla corresponsione delle differenze retributive dovute ai lavoratori.
In particolare, secondo la Corte territoriale, il comportamento assunto dalla società a seguito degli aumenti retributivi previsti nel CCNL aveva creato nei lavoratori la legittima aspettativa che il superminimo stabilito convenzionalmente non si ritenesse assorbito nell'aumento contrattuale unico disposto dai CCNL succedutisi nel tempo.
Avverso la summenzionata sentenza la società proponeva ricorso per Cassazione contestando, con più motivi, l'accertamento operato dalla Corte territoriale in ordine alla ritenuta volontà datoriale di non reputare assorbibile il superminimo.
Secondo la ricorrente, infatti, non solo nel nostro ordinamento vige una presunzione relativa di assorbibilità del superminimo, nel senso che, salvo dichiarazioni di senso contrario, il superminimo si ritiene comunemente assorbibile nei successivi aumenti retributivi disposti in sede collettiva, ma inoltre la società aveva manifestato sempre la volontà di procedere con l'assorbimento.
Con la sentenza in epigrafe, la Suprema Corte rigetta il ricorso presentato dalla società.
E, infatti, secondo il Collegio, l'apprezzamento svolto dal Giudice del gravame in merito alla volontà datoriale risultava del tutto corretto e coerente con il materiale probatorio acquisito, sottraendosi pertanto ad un sindacato in sede di legittimità. Dall'istruttoria svolta infatti era emerso che la società, con il CCNL dell'ottobre 2012, aveva previsto un aumento retributivo unico ma liquidato in tranches a scadenze diverse e che al momento della liquidazione della prima tranche non aveva dato luogo ad alcun assorbimento. La scelta di non procedere con l'assorbimento, secondo la S.C., indicava una volontà concludente della società, a che l'aumento della retribuzione base non dovesse comportare alcuna diminuzione del superminimo anche in ordine al pagamento delle tranches successive.
E, infatti, dal momento che l'aumento retributivo previsto era unico, anche se pagato in diverse tranches (come ammesso dalla stessa società) il fatto di aver corrisposto integralmente la prima tranche, senza ridurre il superminimo, indicava una sostanziale rinuncia della società di procedere all'assorbimento anche per le tranches successive.
Secondo la Corte, peraltro, una simile ricostruzione non si pone in contrasto con la presunzione che normalmente opera in connessione all'assorbimento (e in base alla quale il superminimo si ritiene comunemente assorbito dai miglioramenti retributivi previsti dalla contrattazione collettiva ovvero per il conseguimento di un inquadramento superiore) trattandosi infatti di presunzione relativa, che il giudice di merito può ritenere di superare in base alle risultanze istruttorie acquisite.
D'altronde non esiste nessun principio generale dell'ordinamento di normale assorbimento del superminimo nei miglioramenti contrattuali né tale principio è mai stato affermato in sede di legittimità quale principio di diritto, essendo state, al massimo confermate sentenze di merito che avevano ritenuto sussistente, nel caso concreto, tale regola contrattuale.
Sulla base di questi argomenti la S.C. ritiene del tutto corretta la decisione Corte di appello di Milano con conseguente rigetto del ricorso della società.

Licenziamento intimato a mezzo telegramma

Cass. Sez. Lav. 15 aprile 2021, n. 10023

Pres. Berrino; Rel. Amendola; P.M. Mastroberardino; Ric. G.S.P.A.; Controric. S.A.;

Lavoro subordinato - Licenziamento - Art. 2 L. 604/66 - Forma scritta - Invio tramite telegramma - Onere della prova del datore - Necessità

L'art. 2 della legge 15 luglio 1966 n. 604, modificato dall'art. 2 della legge 11 maggio 1990 n. 108, esige che il licenziamento sia comunicato per iscritto al lavoratore e tale onere di forma impone che l'atto con il quale sia stato intimato il recesso sia sottoscritto dal datore di lavoro (o dal suo rappresentante che ne abbia il potere generale o specifica procura scritta). Ne consegue che in caso di contestazione da parte del destinatario, il datore di lavoro che abbia intimato il licenziamento con telegramma ha l'onere di fornire la prova della ricorrenza delle condizioni poste dall'art. 2705 cod. civ. per l'equiparazione del telegramma alla scrittura privata e cioè che l'originale consegnato all'ufficio di partenza sia sottoscritto dal mittente, ovvero che in mancanza di sottoscrizione l'originale sia stato consegnato o fatto consegnare all'ufficio di partenza dal mittente.
NOTA
La pronuncia in esame ha ad oggetto la riferibilità al datore di lavoro del licenziamento intimato a mezzo telegramma. Nel caso di specie la Corte di Appello di Catanzaro aveva accolto la domanda della lavoratrice volta ad ottenere la dichiarazione di inefficacia del recesso, considerato che lo stesso era stato intimato a mezzo telegramma e che il datore di lavoro non aveva offerto alcuna prova della riferibilità alla società del licenziamento, nonostante la contestazione della lavoratrice sul punto.
In conseguenza di ciò la Corte d'Appello aveva dichiarato inefficace il licenziamento con tutte le conseguenze reintegratorie e patrimoniali connesse.
Contro la decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso in Cassazione la società datrice di lavoro sostenendo, in sintesi e per quanto qui interessa, che la Corte territoriale avesse errato nel gravare la società dell'onere della prova in merito alla provenienza del telegramma che comunicava il recesso sulla base di una contestazione del tutto generica.
La Suprema Corte ha respinto le censure di cui sopra, rigettando il ricorso.
In particolare la Cassazione ha rilevato che la Corte territoriale si era correttamente attenuta ai principi della giurisprudenza in materia, sostenendo che fosse preciso onere della società datrice di lavoro dimostrare, a seguito del licenziamento intimato a mezzo telegramma e della contestazione della lavoratrice destinataria della comunicazione, la «ricorrenza delle condizioni poste dall'art. 2705 cod. civ. per l'equiparazione del telegramma alla scrittura privata e cioè che l'originale consegnato all'ufficio di partenza sia sottoscritto dal mittente, ovvero che in mancanza di sottoscrizione l'originale sia stato consegnato o fatto consegnare all'ufficio di partenza dal mittente».
Nel caso di specie, ha rilevato la Suprema Corte, la società datrice di lavoro non ha fornito alcuna prova della ricorrenza di tali requisiti limitandosi a sostenere la genericità e la natura esplorativa della contestazione della lavoratrice circa la mancata prova della provenienza datoriale del telegramma.

Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 13 aprile 2021, n. 9657

Pres. Della Torre; Rel. Patti; P.M. Celeste; Ric. A.F.; Contr. P.I. S.p.A.;

Licenziamento disciplinare - Contestazione degli addebiti - Immediatezza - Carattere relativo - Complessità degli accertamenti - Rilevanza

L'immediatezza della contestazione disciplinare va intesa in senso relativo, dovendosi dare conto delle ragioni che possono cagionare il ritardo (quali il tempo necessario per l'accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell'impresa), con valutazione riservata al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici.
Licenziamento disciplinare - Nozione legale - Tipizzazione del CCNL - Natura esemplificativa - Accertamento in concreto da parte del giudice - Necessità
Il giustificato motivo soggettivo, al pari della giusta causa di licenziamento, è nozione legale rispetto alla quale non sono vincolanti le previsioni dei contratti collettivi, che hanno valenza esemplificativa, con il solo limite all'irrogazione di un licenziamento per giusta causa quando costituisca più grave sanzione di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione.
NOTA
Nel caso di specie una società aveva licenziato il direttore di un ufficio postale di Nola all'esito di un procedimento disciplinare dopo avergli contestato di avere commesso 128 operazioni di prelievo sui conti intestati ad un cliente, consentito altri 11 prelievi di importo pari ad € 20.000 senza la prescritta autorizzazione ed omesso la segnalazione delle operazioni sospette.
La Corte d'Appello di Napoli rigettava il reclamo proposto dal lavoratore e, confermando la sentenza di primo grado, escludeva la tardività della contestazione disciplinare rispetto alla commissione dei fatti, in ragione della complessità degli accertamenti compiuti dal datore di lavoro e riteneva proporzionata la misura espulsiva adottata, considerando la gravità degli addebiti, comunque non riconducibili ad alcuna sanzione conservativa del contratto collettivo.
Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, con plurimi motivi di ricorso.
In particolare, con il terzo motivo di ricorso censurava la sentenza impugnata per l'avere la Corte territoriale ritenuto rispettato il principio di "immediatezza relativa" della contestazione disciplinare, nonostante la lettera contenente gli addebiti fosse stata formulata a distanza di un anno rispetto agli accertamenti effettuati dall'azienda in seguito alla segnalazione ricevuta dalla polizia ferroviaria di operazioni sospette sul conto di un cliente delle poste.
Il motivo di ricorso è stato ritenuto inammissibile.
Ad avviso della Corte di Cassazione, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio di immediatezza, la cui ratio «è individuata nella connessione dell'onere di tempestività al principio di buona fede oggettiva e più specificamente al dovere di non vanificare la consolidata aspettativa, generata nel lavoratore, di rinuncia all'esercizio del potere disciplinare» (Cass. n. 29480 del 2008 e Cass. n. 28974 del 2017).
La Suprema Corte, ritenendo congruo il lasso temporale intercorso tra la commissione dei fatti e la loro contestazione, ha infatti posto in evidenza che l'accertamento dei fatti, così come la complessità della struttura organizzativa dell'impresa, costituiscono valide ragioni che possono giustificare il ritardo dell'avvio del procedimento disciplinare.
Con il sesto motivo di ricorso, il lavoratore ha inoltre lamentato la violazione del principio di proporzionalità, non ricorrendo i presupposti per la sanzione espulsiva comminata.
Tale motivo di ricorso è stato ritenuto infondato.
Al riguardo, la Suprema Corte ha ribadito il principio, ormai consolidato, secondo il quale «in tema di licenziamento disciplinare, la tipizzazione delle cause di recesso contenute nella contrattazione collettiva non è vincolante, potendo il catalogo delle ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo essere esteso, in relazione a condotte comunque rispondenti al modello di giusta causa o giustificato motivo, ovvero ridotto, se tra le previsioni contrattuali ve ne siano alcune non rispondenti al modello legale, dunque nulle per violazione di norma imperativa; con la conseguenza che il giudice non possa limitarsi a verificare se il fatto addebitato sia riconducibile ad una previsione contrattuale, dovendo comunque valutare in concreto la condotta addebitata e la proporzionalità della sanzione» (Cass. n. 3283 del 2020).
Le nozioni di giustificato motivo soggettivo e quella di giusta causa di licenziamento rappresentano dunque "nozioni legali", rispetto alle quali non sono vincolanti le previsioni dei contratti collettivi, «che hanno valenza esemplificativa, con il solo limite all'irrogazione di un licenziamento per giusta causa quando costituisca più grave sanzione di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione» (Cass. n. 27004 del 2018 e Cass. n. 19023 del 2019).
La Corte di Cassazione, facendo applicazione di tale principio, ha dunque ritenuto che il licenziamento (con preavviso) intimato al lavoratore fosse proporzionato alla condotta addebitata e, dunque, legittimo, avuto riguardo anche alla chiara riconducibilità del comportamento contestato alle ipotesi punite con la sanzione espulsiva dal contratto collettivo applicato.

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 14 aprile 2021, n. 9828

Pres. Raimondi; Rel. Piccone; P.M. Fresa; Ric. D.R.; Controric. A.O.;

Licenziamento collettivo - Violazione criteri di scelta - Impugnazione - Interesse ad agire - Lavoratori che hanno subito un concreto pregiudizio - Necessità

In tema di licenziamento collettivo, il relativo annullamento per violazione dei criteri di scelta non può essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati, ma soltanto da coloro che abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione. Infatti, l'invalidità del licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta rientra nel novero dell'annullabilità e non in quello della nullità, per cui l'azione per l'annullamento può essere proposta non da chiunque vi abbia interesse (inteso in termini di interesse ad agire), ma soltanto da parte dei titolari dell'interesse di diritto sostanziale.
NOTA
La Corte d'Appello di Roma ha respinto il reclamo avverso la decisione del Tribunale che, in accoglimento dell'opposizione avanzata dalla Società, ha rigettato l'impugnativa del licenziamento intimato alla lavoratrice, previa revoca dell'ordinanza precedentemente emessa. Il giudice di secondo grado, condividendo l'iter argomentativo del primo giudice in tema di licenziamento collettivo, e muovendo dalla considerazione che il sindacato giudiziale non può spingersi sino al merito della decisione datoriale di attribuire il punteggio per le esigenze aziendali a taluni uffici in luogo di altri, ha valorizzato la progettata esternalizzazione del servizio oggetto di causa, ritenendo, quindi, corretto il riconoscimento di un determinato punteggio soltanto ai lavoratori non impegnati nello specifico servizio in via di soppressione. La Corte ha ritenuto, quindi, congrua l'applicazione dei criteri di scelta concordali in sede di accordo sindacale, ove si era convenuto di attribuire un punteggio pari al 34% all'anzianità aziendale, al 36% in ordine ai carichi di famiglia, e al 30% in relazione alle esigenze tecniche, organizzative e produttive aziendali.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la lavoratrice lamentando «la violazione e falsa applicazione degli artt. 5, comma 1, e 4, comma 9, L. n. 223 del 1991 rispettivamente, per aver la Corte d'Appello ritenuto legittimo il criterio di scelta delle esigenze tecniche ed organizzative collegato alla mera appartenenza ad un ufficio soppresso, nonché per omessa e, comunque, incompleta puntuale indicazione delle modalità applicative dei criteri di scelta».
La Corte ha rigettato il ricorso ricordando che «in tema di licenziamento collettivo, il relatìvo annullamento per violazione dei criteri di scelta ai sensi dell'art. 5 della l. n. 223 del 1991 non può essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati ma soltanto da coloro che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione, perché avente rilievo determinante rispetto alla collocazione in mobilità dei lavoratori stessi». I giudici di legittimità hanno quindi specificato che «l'invalidità del licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta rientra nel novero dell'annullabilità ex art. 1441 comma l cod. civ. e non in quello della nullità, talché l'azione per l'annullamento può essere proposta non da chiunque vi abbia interesse (inteso in termini di interesse ad agire) ma soltanto da parte dei titolari dell'interesse di diritto sostanziale». Da queste considerazioni la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso affermando che, come correttamente rilevato dai giudici di secondo grado, nel caso di specie, la ridotta anzianità della ricorrente e l'assenza di canchi di famiglia hanno indotto ad confermare che, anche qualora fosse stato alla stessa attribuito il punteggio di 30, eccettuato per tutti i dipendenti addetti al servizio in via di dismissione, la lavoratrice non avrebbe avuto una collocazione utile nella graduatoria atta ad escluderne la licenziabilità. Pertanto hanno concluso che «la circostanza che parte ricorrente abbia del tutto omesso di addurre qualsivoglia elemento a sostegno del proprio personale interesse alla diversa determinazione dei criteri di scelta e, cioè, in ordine alla sussistenza di una diretta ripercussione sulla propria sfera giuridica della decisione di attribuire rilievo alle esigenze tecnico - produttive nell'accordo sindacale intercorso fra le parti sociali induce a confermare la carenza di interesse della stessa che risulta, poi, avvalorata dalle conclusioni già raggiunte in secondo grado dalla Corte territoriale».

Cigs e criteri per la scelta

Cass. Sez. Lav. 20 aprile 2021, n. 10378

Pres. Berrino; Rel. De Marinis; P.M. Mastroberardino; Ric. S. S.p.A.; Controricorrente O. M.

Cassa integrazione guadagni straordinaria - Criteri di scelta - Violazione - Conseguenze - Riammissione in servizio - Esclusione - Risarcimento del danno - Configurabilità - Prescrizione decennale - Sussiste

La violazione dei criteri, stabiliti in sede di contrattazione collettiva, per la scelta dei lavoratori da porre in cassa integrazione comporta, per il lavoratore ingiustificatamente sospeso, non il diritto alla riammissione in servizio, versandosi in tema di facere infungibile fuori della sfera di operatività dell'art. 18, I. n. 300/1970, ma solo il diritto al risarcimento del danno, nella misura corrispondente alla differenza tra le retribuzioni spettanti nel periodo di ingiustificata sospensione del rapporto ed il trattamento di cassa integrazione corrisposto nello stesso periodo, derivandone l'assoggettamento del diritto alla prescrizione ordinaria decennale e non alla prescrizione breve quinquennale.
NOTA
La Corte di Appello di Cagliari, Sezione distaccata di Sassari, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Sassari, accoglieva in parte la domanda del lavoratore avente ad oggetto, previo accertamento dell'illegittimità della collocazione in CIGS dello stesso con sospensione a zero ore, la condanna della datrice di lavoro sia al pagamento della differenza tra la normale retribuzione di fatto ed il trattamento percepito dal lavoratore a titolo di CIGS, che al risarcimento del danno non patrimoniale nella componente biologica, esistenziale morale e professionale.
La Corte territoriale riconosceva in favore del lavoratore il diritto al risarcimento del danno patrimoniale, con riferimento a tutti i periodi di sospensione, nell'importo determinato in sede di CTU e del danno non patrimoniale nella sola componente professionale.
La Corte di Appello considerava «infondata l'eccezione proposta dalla Società, con appello incidentale, circa l'essere la pretesa azionata assoggettata a prescrizione breve anziché ordinaria decennale, escluso il determinarsi per il mero decorso del tempo dal mutuo consenso delle parti in ordine alla sospensione del rapporto, fondata la pretesa risarcitoria stante l'illegittima collocazione in CIGS dell'O. con sospensione a zero ore, non essendo rispondente al vero che la sospensione abbia coinvolto tutto il personale dipendente con la medesima professionalità dell'istante e conseguendone dalla mancata comunicazione alle organizzazioni sindacali dei criteri di individuazione del personale da sospendere la lesione degli interessi del medesimo, quantificabile il danno patrimoniale sulla base dell'espletata CTU, spettante, secondo quanto sancito dal primo giudice, il danno non patrimoniale soltanto nella sua componente professionale in ragione dell'incidenza sul livello di qualificazione professionale dell'istante».
Avverso tale decisione la datrice di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto diversi profili.
La Suprema Corte ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte territoriale secondo cui «contrariamente a quanto affermato dal primo giudice è risultato non essere vero che la sospensione ha interessato, dal marzo 2001 in poi, tutto il personale dipendente della S. S.p.A. con la medesima professionalità dell'O».
Da tale elemento fattuale la Corte di Appello «prende le mosse per la verifica della correttezza delle comunicazioni trasmesse dalla Società alle organizzazioni sindacali circa i criteri di scelta del personale da collocare in CIG con riguardo a tutti i periodi di sospensione» ritenute «prive della specificazione della ragione per la quale sin da marzo 2001 l'O., diversamente dagli altri dipendenti, era stato collocato in CIGS a zero ore e prima ancora inidonee a dar conto dei criteri di individuazione dei soggetti da sospendere in CIGS a rotazione».
Sul punto la Corte di Cassazione, peraltro, precisa che tali comunicazioni «riportavano soltanto il numero massimo dei lavoratori da porre in CIGS, che non consentiva di ritenere che interessati alla sospensione a zero ore fossero tutti i dipendenti dell'unità produttiva e neppure tutti coloro che svolgevano le medesime mansioni dell'O.».
In particolare, la Suprema Corte rileva che «la specificità dei criteri di scelta consiste nell'idoneità dei medesimi ad operare la selezione e nel contempo a consentire la verifica della corrispondenza della scelta ai criteri. Infatti un criterio di scelta generico non è effettivamente tale ma esprime soltanto un generico indirizzo nella scelta, essendo palese che in una situazione in cui è genericamente indicato il numero di coloro che avrebbero subito la sospensione è impedita la preventiva conoscibilità dei fattori che in concreto determineranno la scelta di un lavoratore piuttosto che di un altro».
La Suprema Corte, dunque, in caso di violazione dei criteri per la scelta dei lavoratori da porre in CIGS, si uniforma all'impostazione data dal suo costante orientamento (da ultimo Cass. 4.12.2015, n. 24738), secondo il quale al dipendente ingiustificatamente sospeso non è riconosciuto il diritto alla riammissione in servizio, trattandosi di un fare infungibile fuori dalla sfera di operatività dell'art. 18 Stat. Lav., ma solo il diritto al risarcimento del danno, diritto, peraltro, soggetto al termine di prescrizione ordinario decennale e non a quello breve quinquennale.
Conclusivamente la Suprema Corte rigetta il ricorso della datrice di lavoro.

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