Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento collettivo e criteri di scelta
Licenziamento collettivo e successivo licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Licenziamento per giusta causa
Licenziamento per giustificato motivo soggettivo
Lavoro giornalistico e accertamento di natura subordinata

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 26 aprile 2021, n. 10996

Pres. Berrino; Rel. Lorito; PM Mastroberardino Ric. C. S.C.P.A.; Controric. D.V.

Licenziamento collettivo - Criteri di scelta legali ex art. 5 L. 223/1991 - Carichi familiari - Interpretazione - Reale fabbisogno economico familiare - Rilevanza -
- Esaustività del mero dato fiscale - Esclusione

Nell'individuare quale criterio di scelta i "carichi di famiglia", lo scopo dell'art. 5 della L. 223/1991 è quello di avere riguardo alla situazione economica effettiva della situazione familiare dei singoli lavoratori che non può limitarsi alla semplice verifica del numero delle persone a carico da un punto di vista fiscale che potrebbe risultare anche riduttiva. Dalla necessità di tutelare maggiormente i lavoratori più onerati, ne deriva che il riferimento ai "carichi di famiglia" debba essere individuato in relazione al fabbisogno economico determinato dalla situazione familiare e, quindi, dalle persone effettivamente a carico e non da quelle risultanti in relazione ad altri parametri che potrebbero rivelarsi non esaustivi
NOTA
La decisione in commento ha ad oggetto la nozione del criterio di scelta legale nell'ambito di una procedura di licenziamento collettivo, individuato dall'art. 5 della L. 223 del 1991, dei carichi di famiglia. Nel caso in esame il lavoratore era stato licenziato all'esito di una procedura di licenziamento collettivo in applicazione del menzionato criterio, in quanto non risultava avere carichi di famiglia dalla documentazione in possesso della società datrice di lavoro. Tuttavia, il Tribunale di Genova prima, e la Corte d'Appello successivamente, ritenevano il licenziamento illegittimo e reintegravano (con diritto anche al risarcimento del danno patito) il lavoratore in ragione del fatto che quest'ultimo, separato consensualmente, era tenuto a corrispondere un assegno per il mantenimento della figlia minore.
In particolare, la Corte d'Appello di Genova osservava che detto criterio non andasse identificato in base ad una nozione strettamente fiscale, ma dovesse includere anche quelle situazioni di fatto rilevanti come il mantenimento della figlia minore nel caso di specie e dunque riteneva che la società avesse errato nell'assegnare il relativo punteggio al lavoratore esclusivamente in base ai familiari a carico risultanti dalla documentazione fiscale.
La società datrice di lavoro proponeva ricorso contro la decisione della Corte d'Appello, sulla base di vari motivi. In particolare, per quel che qui interessa, la società sosteneva, innanzitutto, che la Corte d'Appello avesse errato nell'accreditare una nozione ampia del criterio dei carichi di famiglia di cui all'articolo 5 della L. 223/1991 (e non, quindi, un riferimento al mero dato fiscale). Inoltre, la datrice di lavoro deduceva la necessità di applicare il criterio di natura fiscale per il calcolo del punteggio dei carichi di famiglia dei lavoratori, in quanto criterio razionale ed oggettivo, conforme ai principi di correttezza e buona fede.
La Suprema Corte ha ritenuto infondate le censure mosse dalla società e rigettato il ricorso, richiamando principi già espressi dalla giurisprudenza di legittimità.
In particolare la Suprema Corte ha affermato che il citato art. 5, allorquando fa riferimento al criterio dei carichi di famiglia, richiama il criterio previsto dall'accordo interconfederale del 1965 avente ad oggetto "la situazione economica" del lavoratore interessato dalla procedura di mobilità. Con ciò la legge punta dunque ad individuare i lavoratori più deboli socialmente.
Secondo la Cassazione lo scopo della norma è, quindi, quello di avere riguardo alla situazione economica effettiva della situazione familiare dei singoli lavoratori che non può limitarsi alla semplice verifica del numero delle persone a carico da un punto di vista fiscale, integrante una prospettiva riduttiva rispetto al fine perseguito dal legislatore.
Dalla necessità di tutelare maggiormente i lavoratori più onerati, ne deriva che il riferimento ai "carichi di famiglia" debba essere individuato in relazione al fabbisogno economico determinato dalla situazione familiare e, quindi, dalle persone effettivamente a carico e non da quelle risultanti in relazione ad altri parametri che potrebbero rivelarsi non esaustivi». Pertanto, prosegue la Corte, correttamente la Corte di merito ha fatto riferimento ad una nozione "elastica" del criterio citato da applicare mediante lo scrutinio, da parte datoriale, di tutti gli elementi che possano concorrere a definire in senso sostanziale, gli oneri economici derivanti dal mantenimento di un familiare e gravanti sul singolo lavoratore.

Licenziamento collettivo e successivo licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 23 aprile 2021, n. 10869

Pres. Berrino; Rel. Patti; P.M. Mastroberardino; Ric. D.C. S.p.A.; Controric. G.A.

Licenziamento collettivo - Successivo licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Medesime ragioni - Nullità - Negozio in frode alla legge - Limite - Licenziamento individuale - Ragioni oggettive diverse - Ammissibilità

Posto che non è consentito al datore di lavoro tornare sulle scelte già compiute quanto al numero, alla collocazione aziendale, ai profili professionali in esubero nonché ai criteri di scelta dei singoli lavoratori da licenziare nell'ambito di una procedura collettiva, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto per gli stessi motivi già addotti a fondamento di un precedente licenziamento collettivo è nullo in quanto negozio in frode alla legge, a meno che non sussistano situazioni di fatto differenti da quelle poste alla base della procedura collettiva.
NOTA
La Corte d'Appello di Roma confermava la sentenza di primo grado, che aveva accertato l'illegittimità, in quanto negozio in frode alla legge, del licenziamento intimato ad una dipendente per motivi oggettivi poco tempo dopo la conclusione di una procedura di licenziamento collettivo avviata per le medesime ragioni alla base del licenziamento individuale.
La società proponeva ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, inter alia, per avere la Corte d'Appello ritenuto che il licenziamento individuale intimato per le medesime ragioni del licenziamento collettivo costituisse negozio in frode alla legge, senza aver però approfondito le ragioni a fondamento del primo recesso, e sulla sola base della prossimità temporale tra il licenziamento medesimo e la conclusione della procedura di licenziamento collettivo, in assenza di alcuna prova di raggiri o condotte simili poste in essere dalla Società al fine di eludere la normativa in materia di licenziamenti collettivi.
La Suprema Corte ritiene i suddetti motivi infondati per le ragioni che seguono.
Innanzitutto, la Corte ribadisce il proprio consolidato orientamento secondo cui – posto che non è consentito al datore di lavoro tornare sulle scelte già compiute quanto al numero, alla collocazione aziendale, ai profili professionali in esubero ed ai criteri di scelta dei singoli lavoratori da licenziare nell'ambito di una procedura collettiva – il licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto per gli stessi motivi già addotti a fondamento di un precedente licenziamento collettivo realizza uno schema fraudolento, a meno che non sussistano situazioni di fatto differenti da quelle poste alla base della procedura collettiva (in senso conforme, Cass. 16 gennaio 2020, n. 808, Cass. 26 settembre 2018, n. 23042).
La Suprema Corte chiarisce altresì che la peculiarità del negozio in frode alla legge consiste nel fatto che le parti raggiungono, avvalendosi di un mezzo formalmente lecito, un risultato vietato dalla legge, con la conseguenza che nonostante il mezzo sia lecito è illecito il risultato che le parti vogliono realizzare avvalendosi di esso (in senso conforme, Cass. 26 gennaio 2010, n. 1523). La verifica dell'esistenza di una frode alla legge è rimessa ai giudici di merito, la cui valutazione è incensurabile in sede di legittimità qualora correttamente e adeguatamente motivata (in senso conforme, Cass. 26 settembre 2018, n. 23042, Cass. 7 febbraio 2008, n. 2874), come nel caso in oggetto, ove la Corte d'Appello aveva ritenuto sussistente un negozio in frode alla legge alla luce dell'identità delle ragioni alla base del licenziamento collettivo e di quello individuale nonché della vicinanza temporale tra gli stessi.

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 4 maggio 2021 n. 11644

Pres. Tria; Rel. Bellè; P.M. Celeste; Ric. C.L.; Controric. A.U.S.L.

Licenziamento - Giusta causa - Dirigente medico - Auto aziendale – Uso improprio – Denuncia falso sinistro – Vincolo Fiduciario – Compromissione - Legittimità del recesso - Sussistenza

È legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che denunci al datore di lavoro un falso sinistro con l'auto aziendale per occultarne altro, realmente accaduto ma fuori dall'orario di servizio. Tale condotta risulta, infatti, grave e idonea a ledere l'elemento fiduciario, non tanto perché integrante un utilizzo irregolare del bene aziendale, quanto piuttosto perché si è tradotta nell'aver celato al datore le reali modalità di verificazione dell'incidente e nell'aver cercato di mascherare la realtà.
NOTA
La Corte di Appello di Bologna, riformando la sentenza del Tribunale di Reggio Emilia, respingeva l'impugnativa del licenziamento disciplinare intimato dalla A.U.S.L. nei confronti di L.C.
Il dipendente, secondo la Corte di Appello, aveva dissimulato un sinistro avvenuto la sera precedente, alla guida di un'auto aziendale, allo scopo di occultare le violazioni alle norme interne aziendali sull'utilizzazione dei mezzi (tra cui, esclusività rispetto ai compiti di ufficio e divieto di detenere il mezzo presso l'abitazione privata), dichiarando al datore di lavoro che esso era avvenuto, in circostanze differenti, la mattina seguente, quando egli aveva effettivamente necessità del veicolo per ragioni di servizio.
La Corte di Appello territoriale, ha ritenuto indubbio che l'unico sinistro fosse quello della sera, essendo «inverosimile» che potessero essersi verificati, come sostenuto dal lavoratore, due incidenti sullo stesso mezzo a dodici ore di distanza, oltre al fatto che tale assunto risultava smentito dall'istruttoria.
Avverso la sentenza d'appello promuoveva ricorso per cassazione il lavoratore, contestando, tra le altre cose, l'assunto della Corte territoriale secondo cui sarebbe stata inverosimile la verificazione di due incidenti sullo stesso mezzo a dodici ore di distanza, poiché, a suo dire, mera affermazione priva di spiegazione, nonché l'omesso esame di un fatto decisivo, individuato dal ricorrente nell'effettiva esistenza del secondo incidente, tale da inficiare le accuse di simulazione a lui rivolte.
Inoltre, il lavoratore ha lamentato la violazione degli art. 7 e 8 del Codice Disciplinare aziendale, nonché degli art.li 1175, 1362, 1375, 2140, 2016 e 2119 c.c., per errata applicazione da parte della Corte territoriale dei canoni di ermeneutica contrattuale, difetto di proporzionalità ed omessa considerazione circa l'assenza di precedenti procedimenti disciplinari a carico del lavoratore.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
La Corte di Cassazione, stabilisce, innanzitutto, che «l'affermazione centrale» della sentenza impugnata per cui sarebbe "inverosimile" che possano essersi verificati due incidenti sullo stesso mezzo a distanza di dodici ore «ha l'effetto di una presunzione semplice (art. 2729 c.c.) costruita sull'identità del mezzo e sulla ravvicinatezza oraria dell'accaduto, cui la motivazione associa, subito di seguito, il rilievo in ordine all'esigenza del C di dare giustificazione ai danni provocati sull'autovettura da lui irregolarmente prelevata il giorno precedente rispetto alla necessità di servizio». Da qui, secondo la Suprema Corte, la non violazione delle regole sull'onere probatorio né l'omissione della valutazione circa la sussistenza del secondo incidente, avendo la Corte d'Appello ritenuto, provato che l'incidente fosse solo uno - pacificamente verificatosi, del giorno precedente - ed esclusa la verificazione del secondo sinistro.
Quanto all'ultimo motivo di ricorso, la Corte di Cassazione ha ritenuto corretta la sussunzione dell'illecito all'ipotesi generale contemplata dal Codice Disciplinare aziendale, ossia: "Atti e comportamenti (…) di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro ai sensi dell'art. 2119 c.c.". La Suprema Corte ha, infatti, ribadito «che una cosa è il mero occultamento di un danno al mezzo, altra e più grave cosa è l'aver cercato di mascherare la realtà, denunciando un falso sinistro», circostanza sulla quale è stata esplicitamente incentrata «la valutazione di gravità e quindi di proporzionalità dell'accaduto rispetto alla sanzione applicata ed in ragione dell'idoneità del comportamento a ledere il nesso fiduciario». Tale valutazione, precisa la Suprema Corte, spetta al giudice del merito ed è insuscettibile di essere rivisitata in sede di legittimità sulla base di elementi non decisivi, come l'assenza di precedenti illeciti disciplinari.

Licenziamento per giustificato motivo soggettivo

Cass. Sez. Lav. 4 maggio 2021, n. 11635

Pres. Tria; Rel. Marotta; P.M. Visonà; Ric. M.G.; Controric. A. FG.

Giustificato motivo soggettivo - Giusta causa - Nozione e differenza - Fattispecie: comportamento assenteista del dipendente e scarsa produttività

Pur se il giustificato motivo soggettivo si caratterizza rispetto alla giusta causa in quanto ravvisabile in presenza di condotte che, seppure idonee a ledere il vincolo fiduciario, per la loro minore gravità, non legittimano l'interruzione immediata del rapporto e, quindi, sono compatibili con la momentanea prosecuzione dello stesso (ciò sulla base del combinato disposto degli artt. 2119 cod. civ., 1 e 3 della legge n. 604/1966), non sussistono differenziazioni qualitative fra i due diversi tipi di licenziamento disciplinare, perché il profilo distintivo attiene alla gravità della violazione contrattuale addebitata al dipendente, che è minore nell'ipotesi del licenziamento senza preavviso, pur essendo entrambe le fattispecie accomunate dalla necessità che la sanzione espulsiva sia fondata su inadempimenti contrattuali di entità tale da ledere il vincolo fiduciario posto a fondamento del rapporto, minando l'affidamento che il datore di lavoro deve poter riporre sulla futura correttezza dell'adempimento della prestazione lavorativa. La fiducia, infatti, è fattore che condiziona la permanenza del vincolo contrattuale e può avere un'intensità differenziata a seconda della funzione, della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell'oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che le stesse esigono.
NOTA
La Corte di appello di Bari confermava la sentenza emessa dal Tribunale di Foggia che aveva rigettato la domanda proposta dal dipendente il quale aveva impugnato il proprio licenziamento per giustificato motivo soggettivo. La Corte territoriale aveva ritenuto legittimo il licenziamento del dipendente di una pubblica amministrazione che aveva posto in essere nell'arco di due anni, dei comportamenti attestanti il perdurare di una situazione di scarso rendimento dovuta ad assenteismo, negligenza e ad altri fatti dimostrativi della piena incapacità di adempiere adeguatamente agli obblighi di servizio.
Avverso la sentenza della Corte d'appello ricorreva il dipendente davanti la Corte di Cassazione, lamentando, tra gli altri motivi, che la predetta sentenza non aveva offerto «una chiara e coerente disamina sulla proporzionalità della sanzione irrogata ovvero sulla effettiva e definitiva compromissione del vincolo fiduciario anche in rapporto alla posizione difensiva del ricorrente che aveva lamentato la mancata assegnazione di una precisa e adeguata posizione di lavoro, i continui trasferimenti e, comunque, in rapporto al profilo soggettivo, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto».
La Corte di legittimità nel respingere il ricorso, afferma che nella specie la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi indicati nella massima sopra riportata, laddove, premesso che il dipendente non aveva, in realtà, «articolato alcuna contestazione, in fatto, sui periodi di mancata presenza in ufficio ovvero di ripetuta violazione degli orari di lavoro oggetto dell'addebito disciplinare ha ritenuto che tali fatti fossero dimostrativi del venir meno del vincolo fiduciario, dovendo, altresì, essere esclusa, sulla base di una puntuale disamina degli esiti istruttori, ogni ragione giustificativa dei comportamenti addebitati al predetto».

Lavoro giornalistico e accertamento di natura subordinata

Cass. Sez. Lav. 10 maggio 2021, n. 12344

Pres. Raimondi; Rel. Blasutto; P.M. Fresa; Ric. A.; Contr. D.L.

Lavoro giornalistico - Accertamento natura subordinata - Presupposto - Iscrizione all'albo dei professionisti - Mancanza - Conseguenza - Nullità del contratto per violazione di norma imperativa - Art. 2126 c.c. - Applicazione - Tutele del licenziamento - Riassunzione - Esclusione

In tema di lavoro giornalistico, lo svolgimento di mansioni di redattore da parte di soggetto iscritto nel solo elenco dei cc.dd. pubblicisti non comporta la nullità del contratto per illiceità della causa o dell'oggetto, bensì la nullità per violazione di norma imperativa e produce gli effetti previsti dall'art. 2126 cod. civ., per il tempo in cui il rapporto di lavoro ha avuto esecuzione, restando escluso il diritto di continuare a rendere la prestazione o di pretenderne la esecuzione, sicché, in tale ipotesi, nel caso di accertamento della natura subordinata di un rapporto di lavoro giornalistico, il giudice deve limitarsi a riconoscere il diritto alle differenze retributive ai sensi dell'art. 2126, primo comma, cod. civ., ma non può ordinare la riassunzione del lavoratore, assumendone l'illegittimo licenziamento, atteso che nel contratto nullo per violazione di norma imperativa non è concepibile un negozio di licenziamento e non sono configurabili le conseguenze che la legge collega al recesso ingiustificato.
Crediti di lavoro - Prescrizione - Rapporto formalmente autonomo - Decorrenza - Cessazione del rapporto - Configurabilità - Metus del lavoratore - Sussistenza
Il presupposto della stabilità reale - che consente il decorso della prescrizione quinquennale dei crediti del lavoratore durante il rapporto - va verificato avendo riguardo al concreto atteggiarsi del rapporto stesso e alla configurazione che di esso danno le parti nell'attualità del suo svolgimento, dipendendo da ciò l'esistenza o meno di un'effettiva situazione psicologica di metus del lavoratore. Ne consegue che in un rapporto formalmente autonomo la prescrizione decorre solo dalla cessazione del rapporto.
NOTA
La Corte d'Appello di Roma in parziale riforma della sentenza resa in primo grado, accertava e dichiarava la natura subordinata dell'attività giornalistica, ascrivibile alla qualifica di redattore corrispondente dall'estero, resa a favore di un'azienda da una lavoratrice iscritta all'albo dei pubblicisti.
Conseguentemente, la Corte territoriale condannava la società ai sensi dell'art. 2126 cod. civ. al pagamento, in favore della lavoratrice, delle relative differenze retributive tra quanto dovuto in base alle previsioni del CCNLG relative a detta qualifica e quanto percepito, nonché al pagamento del TFR, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla maturazione al saldo, e al versamento in favore dell'Ente competente dei dovuti oneri previdenziali.
In particolare, per i profili che rilevano, la Corte d'Appello riteneva fondata l'eccezione sollevata dalla società in merito al fatto che per la costituzione di un valido rapporto subordinato di lavoro giornalistico è richiesta l'iscrizione all'Albo dei giornalisti professionisti (la lavoratrice si era iscritta a tale Albo solo successivamente al licenziamento, in corso di giudizio), non potendo valere a tale fine né l'iscrizione all'Albo dei pubblicisti, né l'iscrizione all'Albo dei praticanti giornalisti, a norma dell'art. 45 legge n. 69 del 1963 e dell'art. 5 CNLG del 2005.
Infatti – precisava la Corte territoriale – lo svolgimento di una valida attività giornalistica nella posizione di corrispondenti dalle capitali estere è riservata ai giornalisti iscritti all'Albo dei "professionisti", conseguentemente, riteneva ricorrere nel caso in esame un'ipotesi di nullità del contratto per violazione di norma imperativa. Ciononostante, la Corte d'Appello chiariva che, non ricadendo la fattispecie in esame in un'ipotesi di nullità per illiceità della causa o dell'oggetto, la stessa produceva gli effetti previsti dall'art. 2126 cod. civ. per il tempo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, con diritto della lavoratrice al pagamento di differenze retributive, ma non alla "reintegrazione" nel posto di lavoro.
Da ultimo, la Corte territoriale riteneva infondata l'eccezione di decorrenza della prescrizione quinquennale dei crediti di lavoro in costanza di rapporto, sollevata dalla società, avendo accertato che la lavoratrice nel corso del rapporto di lavoro non era libera dal timore (metus) nei confronti del datore, conseguentemente il termine di prescrizione non poteva decorrere se non dalla cessazione del rapporto.
Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione sotto numerosi profili, mentre la lavoratrice ha interposto ricorso incidentale.
In particolare, per i motivi che rilevano, la società, in primo luogo, ha ritenuto erronea la sentenza di appello nella parte in cui, pur avendo riconosciuto che l'iscrizione della lavoratrice all'Albo dei giornalisti professionisti era avvenuta solo dopo la cessazione della collaborazione autonoma, in ogni caso, aveva riconosciuto la natura subordinata del rapporto di lavoro.
La Cassazione, condividendo il ragionamento della Corte territoriale, ritiene anche tale profilo di censura infondato affermando che «In tema di lavoro giornalistico lo svolgimento di mansioni di redattore da parte di soggetto solamente iscritto nell'elenco dei pubblicisti non comporta la nullità del contratto per illiceità della causa o dell'oggetto e produce gli effetti previsti dall'art. 2126 cod. civ., per il tempo in cui il rapporto di lavoro ha avuto esecuzione, restando escluso il diritto di continuare a rendere la prestazione o di pretenderne la esecuzione, sicché, in tale ipotesi, nel caso di accertamento della natura subordinata di un rapporto di lavoro giornalistico, il giudice deve limitarsi a riconoscere il diritto alle differenze retributive ai sensi dell'art. 2126, primo comma, cod. civ., ma non può ordinare la riassunzione del lavoratore, assumendone l'illegittimo licenziamento, atteso che nel contratto nullo per violazione di norma imperativa non è concepibile un negozio di licenziamento e non sono configurabili le conseguenze che la legge collega al recesso ingiustificato».
In secondo luogo, la società ha lamentato l'erroneità della sentenza di appello nella parte in cui ha rigettato l'eccezione di prescrizione sollevata dal datore di lavoro, il cui termine – a suo dire – doveva decorrere in costanza di rapporto di lavoro, poiché l'azienda – che occupava più di 60 dipendenti sul territorio nazionale – era soggetta al regime della c.d. tutela reale.
La Suprema Corte condivide nuovamente il percorso logico-giuridico seguito dalla Corte d'Appello, che aveva escluso la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto sulla base della considerazione che il presupposto della stabilità reale - che consente il decorso della prescrizione quinquennale dei crediti del lavoratore durante il rapporto - va verificato avendo riguardo al concreto atteggiarsi del rapporto stesso e alla configurazione che di esso danno le parti nell'attualità del suo svolgimento, dipendendo da ciò l'esistenza, o meno, di una effettiva situazione psicologica di metus del lavoratore.
Ne consegue che, con riferimento al caso in esame, trattandosi di rapporto formalmente autonomo, la Suprema Corte afferma che la prescrizione poteva decorrere solo dalla cessazione del rapporto.
Conseguentemente, la Cassazione rigetta sia il ricorso principale della società sia quello incidentale proposto dalla lavoratrice.

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