Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore
Incentivo all'esodo e contributi per il mancato preavviso
Appalto fraudolento


Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. ord. 20 maggio 2021, n. 13790

Pres. Leone; Rel. Esposito; Ric. P.I.S.P.A.; Controric. P.G.;

Licenziamento - Giusta causa - Sanzione espulsiva sperequata - Sussistenza sanzione conservativa - Conseguenza: reintegrazione - Insussistenza sanzione conservativa - Conseguenza: applicazione comma 5 art. 18, l. n. 300/1970

A mente delle modifiche apportate dalla legge n. 92 del 2012 al regime sanzionatorio dettato dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970 il giudice deve procedere ad una valutazione più articolata nel caso in cui escluda la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva e deve svolgere, al fine di individuare la tutela applicabile, una ulteriore disamina circa la sussistenza o meno di una delle condizioni previste dal comma 4 dell'art. 18 per accedere alla tutela reintegratoria ("insussistenza del fatto contestato" ovvero fatto rientrante "tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili"), dovendo, in assenza, applicare il regime dettato dal comma 5 (che non prevede la reintegrazione).
NOTA
Nel caso di specie la Corte d'Appello di Napoli aveva dichiarato, confermando la decisione di primo grado nell'ambito di un procedimento cd. Fornero (ex legge n.92/2012), la illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore.
In particolare al lavoratore era contestata la movimentazione di valori al di fuori degli ambiti consentiti dai regolamenti aziendali in relazione ad alcuni buoni fruttiferi. Secondo la Corte territoriale, pur essendo accertata la sussistenza di quanto contestato, la condotta in esame non avrebbe dovuto dare luogo a sanzione espulsiva in quanto, secondo il CCNL applicato al rapporto, la condotta in questione può essere oggetto di sanzione conservativa o espulsiva (con o senza preavviso), a seconda della gravità del fatto. Nel caso di specie il Giudice di prime cure e la Corte d'Appello avevano ritenuto che la gravità del fatto fosse limitata da circostanze quali il fatto che la condotta non integrava un'ipotesi di frode, aveva generato un reinvestimento delle somme presso la società datrice di lavoro e fosse stata effettuata secondo prassi e al fine di rendere a clienti noti un servizio più celere.
Contro tale decisione ha proposto ricorso per Cassazione la società datrice di lavoro sostenendo, tra l'altro, violazione e falsa applicazione dell'art. 18, comma 5, L. 300/1970 nella misura in cui la Corte territoriale, pur avendo ritenuto sperequata la sanzione espulsiva comminata al lavoratore, ha disposto la reintegra dello stesso senza però individuare la sanzione conservativa ritenuta applicabile.
La Suprema Corte ha ritenuto tale censura meritevole di accoglimento e cassato la sentenza.
In particolare la Corte ha rilevato che, a seguito delle modifiche introdotte dalla L. 92/2012, l'applicazione dell'art. 18 L. 300/1970 imponga al Giudice, in casi come quello in discussione, una valutazione maggiormente articolata di quella svolta, non potendosi lo stesso limitare ad escludere la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva dovendo verificare la sussistenza di una delle due condizioni previste dal comma 4 per l'applicazione della reintegra (insussistenza del fatto contestato o rientranza del fatto tra le condotte punibili con sanzione conservativa). In assenza di una di tali condizioni, rileva la Suprema Corte, il Giudice di merito deve applicare il disposto di cui al comma 5 dell'art 18 L. 300/1970 (che non prevede la reintegra del lavoratore).

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 19 maggio 2021, n. 13643

Pres. Raimondi; Rel. Garri; P.M. Sanlorenzo; Ric. pric. e Controric. P.S.; Controric. e Ric. Inc. H. S.r.l.

Licenziamento - Giustificato motivo oggettivo - Generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile - Comparazione con altri lavoratori - Necessità - Violazione - Tutela indennitaria ex art. 18 S.L. - Applicazione

Ove risulti accertata la mancanza di un nesso causale tra il progettato ridimensionamento e lo specifico provvedimento di recesso, il licenziamento deve essere ricondotto nell'alveo di quella particolare evidenza richiesta per integrare la manifesta insussistenza del fatto che giustifica, ai sensi dell'art. 18, comma 7, della legge n. 300/1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, la tutela reintegratoria attenuata.
NOTA
La Corte di Appello di L'Aquila, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Chieti, accoglieva il reclamo proposto dalla datrice di lavoro, dichiarando risolto il rapporto di lavoro intercorso con il lavoratore a far data dal licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatogli il 21.9.2016, del quale ne confermava l'illegittimità, con condanna della datrice di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria quantificata in quindici mensilità di retribuzione.
La Corte territoriale riconosceva accertata una situazione di crisi aziendale di carattere non temporaneo, «crisi che non si era risolta alla data del licenziamento intimato per effetto della riorganizzazione e soppressione del posto di lavoro».
La Corte di Appello riteneva, comunque, che, «identificandosi il giustificato motivo oggettivo con la generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile», la datrice di lavoro avrebbe dovuto «individuare il soggetto da licenziare estendendo la parametrazione a tutti i dipendenti in servizio nella sede di Ortona aventi il medesimo inquadramento».
In sostanza la Corte territoriale sosteneva che «non sarebbe applicabile il criterio della soppressione della posizione lavorativa né quello dell'impossibilità del repêchage essendo le posizioni lavorative equivalenti e dunque tutti i lavoratori erano potenzialmente licenziabili».
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto diversi profili, e, benché non risulti depositato in atti un controricorso della datrice di lavoro recante un ricorso incidentale, il lavoratore ha depositato un proprio controricorso.
La Suprema Corte ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte territoriale che «pur accertata l'esistenza di una situazione di crisi aziendale, ha tuttavia verificato che le prestazioni svolte dal P. nella sostanza erano state oggetto di una redistribuzione senza modifiche dell'organizzazione interna del reparto».
Da tale elemento fattuale la Corte di Appello «ha accertato che si era inteso provvedere ad una "generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile" che perciò, alla luce dei principi sopra esposti, imponeva di individuare il lavoratore da licenziare in virtù di principi di correttezza e buona fede tra tutti i lavoratori addetti alla sede e non solo tra quelli del reparto maintenance», ritenendo illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore ed applicando la tutela indennitaria.
Sul punto la Corte di Cassazione, peraltro, precisa che, ai fini del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l'art. 3 della L. 604/1966 richiede «a) la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente, senza che sia necessaria la soppressione di tutte le mansioni in precedenza attribuite allo stesso; b) la riferibilità della soppressione a progetti o scelte datoriali – insindacabili dal giudice quanto ai profili di congruità e opportunità, purché effettivi e non simulati – diretti ad incidere sulla struttura e sull'organizzazione dell'impresa, ovvero sui suoi processi produttivi, compresi quelli finalizzati ad una migliore efficienza ovvero ad incremento di redditività; c) l'impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, elemento che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore. L'onere probatorio in ordine alla sussistenza di questi presupposti è a carico del datore di lavoro, che può assolverlo anche mediante ricorso a presunzioni, restando escluso che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili».
In particolare, la Suprema Corte rileva che il concetto di "manifesta insussistenza" del fatto posto a base di un recesso per giustificato motivo oggettivo deve essere riferito «ad una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso, cui non può essere equiparata una prova meramente insufficiente».
Conclusivamente la Suprema Corte rigetta il ricorso del lavoratore e dichiara improcedibile il ricorso incidentale della datrice di lavoro.

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore

Cass. Sez. Lav. ord. 19 maggio 2021, n. 13604

Pres. Sestini; Rel. Scrima; Ric. S. A.; Controric. S.N.

Infortunio sul lavoro - Mancata nomina del responsabile del responsabile del servizio di prevenzione e protezione - Responsabilità del datore - Sussiste - Limite - Prova del nesso di causalità tra evento e misure inattuate - Necessità.

Il datore di lavoro, in caso di mancata designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, è responsabile dell'infortunio occorso al dipendente qualora abbia provveduto personalmente all'organizzazione dell'attività lavorative verificando l'azione delle misure di sicurezza richieste dalla normativa vigente e sia dimostrato il nesso di causalità tra l'evento subito e le misure non adottate.
NOTA
Gli eredi di un lavoratore avevano convenuto in giudizio il datore di lavoro per sentire affermare la sua responsabilità nel decesso del loro congiunto avvenuto sul luogo di lavoro. In particolare, sostennero che il lavoratore era stato impegnato nell'armatura in cemento armato di una buca di 5 metri per 10 ore ed al termine del lavoro era uscito pallido e barcollante comportandosi in modo strano. Il lavoratore era stato poi ritrovato deceduto sotto un albero all'interno del luogo di lavoro. In relazione a tali fatti si era svolta un'istruttoria della Procura della Repubblica di Roma, conclusasi con l'archiviazione per infondatezza della notizia di reato, essendo stato il decesso ricondotto all'intossicazione alcolica e alla temperatura dell'ambiente. L'istruttoria INAIL si era conclusa con il rigetto, non essendo stata ritenuta la causa del decesso ascrivibile al lavoro. Avverso tale diniego gli eredi avevano fatto ricorso al Tribunale di Roma che, da un lato, aveva condannato l'INAIL a corrispondere agli eredi del decuius un risarcimento del danno, ritenendo il decesso del lavoratore dipendente da causa di servizio, dall'altro, aveva rigettato la domanda volta all'accertamento della responsabilità della società e del datore di lavoro per non aver provveduto a predisporre le misure necessarie a prevenire l'incidente. Tale decisione venne appellata dai familiari del lavoratore, che proposero una diversa lettura dell'esame autoptico, collocando il decesso immediatamente dopo il termine dell'attività lavorativa ed individuandone le cause nell'intossicazione da alcool che, unitamente alla temperatura particolarmente elevata dell'ambiente di lavoro, avrebbe favorito l'insorgere dell'insufficienza cardio-circolatoria. In sintesi, gli appellanti sostennero che «il datore di lavoro avrebbe dovuto adottare tutte le precauzioni necessarie per non esporre gli operai a patologie da calore, in presenza di condizioni climatiche di caldo elevato, aggravato da un lavoro manuale pesante, in una buca profonda, stretta, non aerata, in cui il lavoratore sdarebbe rimasto per lungo tempo, con due brevi pause, senza alternanza con i colleghi; del resto, tutte le consulenze, allegate agli atti, avrebbero concluso nel senso della responsabilità del datore di lavoro, individuando la causa di morte nel colpo di calore».
La Corte di appello di Roma accolse in parte il gravame, ritendo che l'assunzione di alcool non costituiva causa unica o preponderante del decesso ma rilevava ai fini della configurabilità del concorso colposo del lavoratore, nella misura dei 1/3, unitamente al datore di lavoro, il quale non aveva disposto adeguati controlli, e rilevando che le condizioni di lavoro non erano assolutamente conformi alla normativa vigente. La Corte territoriale reputò, altresì, di accogliere la domanda di condanna in solido della società e del datore di lavoro, in quanto, anche in qualità di responsabile legale della società, aveva provveduto personalmente all'organizzazione dell'attività lavorativa, verificando l'adozione delle misure di sicurezza richiesta dalla normativa vigente.
Avverso la sentenza della Corte di merito hanno proposto ricorso per cassazione la società e il legale rappresentante per contraddittorietà «avendo il giudice di appello accertato che responsabile del cantiere (intendendo dei fatti avvenuti) fosse il legale rappresentante della società̀ ricorrente sull'assunto che il medesimo avesse posto in essere direttamente le attività̀ contestate, mentre in realtà̀ vi era un altro soggetto che aveva tali responsabilità̀, il capocantiere, responsabile dell'organizzazione del cantiere stesso». Pertanto, ad avviso dei ricorrenti, al legale rappresentante della società non avrebbe potuto essere attribuita nessuna responsabilità̀.
La Corte di legittimità ha rigettato il ricorso affermando che «in mancanza di esplicita designazione di un responsabile del servizio di prevenzione e protezione ex art. 2, comma 1, lett. e) d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, applicabile ratione temporis, secondo la giurisprudenza di legittimità costante, la responsabilità civile delle norme di prevenzione dagli infortuni ricade sul datore di lavoro».

Incentivo all'esodo e contributi per il mancato preavviso

Cass. Sez. Lav. 13 maggio 2021, n. 12932

Pres. D'Antonio; Rel. Rossana; P.M. Cimmino; Ric. M.P.S. S.p.A.; Controric. I.N.P.S.

Licenziamento - Risoluzione consensuale - Incentivo all'esodo - Rinuncia all'indennità sostitutiva del preavviso - Obbligo contributivo - Sussistenza - Ratio: autonomia dell'obbligazione previdenziale - Estraneità della transazione al rapporto previdenziale

È nel momento stesso in cui il licenziamento acquista efficacia che sorge il diritto del lavoratore all'indennità sostitutiva del preavviso e la conseguente obbligazione contributiva su tale indennità: se poi, successivamente, il lavoratore licenziato rinunci al diritto all'indennità, tale rinuncia non potrà avere alcun effetto sull'obbligazione pubblicistica, preesistente alla rinuncia e ad essa indifferente perché il negozio abdicativo proviene da soggetto (il lavoratore) diverso dal titolare (l'INPS).
NOTA
Nel caso in esame una banca si era opposta alle pretese avanzate dall'INPS riguardanti il mancato versamento contributivo sulle somme da questa corrisposte a titolo di indennità di mancato preavviso spettante ad oltre 90 dirigenti licenziati tra il 2012 e il 2013.
Secondo la banca i contributi non erano dovuti perché i lavoratori, all'esito di accordi transattivi raggiunti con la società, avevano concordato ed accettato la cessazione dal servizio, con rinuncia all'indennità di mancato preavviso.
La Corte d'Appello di Firenze, in riforma della sentenza di primo grado, affermava che i contributi erano dovuti perché i rapporti di lavoro in esame si erano precedentemente risolti con il licenziamento dei dirigenti, con effetto dal ricevimento della lettera di recesso e con comunicazione del diritto all'indennità di mancato preavviso. Pertanto, poiché il licenziamento aveva già prodotto l'effetto risolutivo del rapporto lavorativo, l'indennità di mancato preavviso, espressamente riconosciuta dalla società nell'intimare il recesso, costituiva elemento retributivo già entrato a far parte del patrimonio dei dipendenti, e come tale soggetto ad obbligazione contributiva. Conseguentemente, ad avviso della Corte territoriale, era priva di rilievo la scrittura privata sottoscritta, qualche settimana dopo il licenziamento, da ogni dirigente licenziato e mediante la quale era stata pattuita la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro a epoca successiva rispetto alla firma della scrittura medesima, con rinuncia ad ogni ulteriore pretesa, compresi il preavviso o l'indennità sostitutiva del preavviso: in essa non era stata fatta alcuna menzione ad un'eventuale revoca del licenziamento.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione la banca, censurandola, in particolare, per il fatto di non avere ritenuto revocato il licenziamento, per fatti concludenti, sulla base dell'accordo transattivo sottoscritto con i dirigenti, dal quale si evinceva la scelta delle parti di ripristinare il rapporto di lavoro e di addivenire ad una risoluzione contrattuale dello stesso.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.
La Suprema Corte, confermando quanto stabilito dalla Corte territoriale, ha anzitutto rilevato che l'estraneità della transazione, intervenuta tra datore e lavoratore, al rapporto contributivo, discende dal principio per cui alla base del calcolo dei contributi previdenziali deve essere posta la retribuzione, dovuta per legge o per contratto individuale o collettivo, e non quella di fatto corrisposta. Secondo i Giudici di legittimità, infatti, l'obbligazione contributiva del datore verso l'istituto previdenziale sussiste indipendentemente dal fatto che gli obblighi retributivi, nei confronti del dipendente, siano stati in tutto o in parte soddisfatti, ovvero che il lavoratore abbia rinunciato ai suoi diritti.
Infatti, l'assoggettamento dell'indennità sostitutiva alla contribuzione previdenziale consegue alla sua natura retributiva ed è nel momento stesso in cui il licenziamento acquista efficacia che sorge il diritto del lavoratore alla medesima indennità e alla conseguente obbligazione contributiva. In sentenza si afferma, infatti, che «con l'intimazione del licenziamento, l'indennità sostitutiva del preavviso rientra nel novero di «tutto ciò che ha diritto di ricevere» il lavoratore e viene attratta, per il suo intrinseco valore retributivo, nel rapporto assicurativo, autonomo e distinto, completamente insensibile, per quanto detto, all'effettiva erogazione e, dunque, all'argomento difensivo dell'essere o meno entrata nel patrimonio del lavoratore».
Se poi, successivamente, il lavoratore licenziato rinunci al diritto all'indennità, tale rinuncia non ha alcun effetto sull'obbligazione pubblicistica, preesistente alla rinuncia e ad essa indifferente in quanto il negozio abdicativo proviene dal lavoratore, ossia da soggetto diverso dal titolare INPS (cfr. Cass. n. 17670 del 2007).
Ad avviso della Suprema Corte, da ciò consegue che le somme pagate a titolo transattivo dipendono dall'accordo conciliativo e non dal contratto di lavoro, posto che la funzione della transazione è quella di precludere alle parti stipulanti l'accertamento giudiziale del rapporto o delle sue regole, tanto che la sua esecuzione non riguarda le obbligazioni derivanti dal rapporto oggetto della controversia (in questo senso, Cass. n. 17495 del 2009 e Cass. n. 15411 del 2020).
Su tali presupposti, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della società, confermando la debenza della somma richiesta dall'INPS a titolo di contribuzione omessa.
Per un commento di approfondimento si veda Guida al Lavoro n. 23/2021.

Appalto fraudolento

Cass. Sez. Lav. 11 maggio 2021, n. 12413

Pres. Berrino; Rel. Negri Della Torre; Ric. C.G Controric. R.R.I. s.p.a.; PM Sanlorenzo

Appalto - Disposizioni impartite dall'appaltante - Concrete modalità di svolgimento della prestazione - Verifica - Necessità - Non riconducibilità delle stesse al datore di lavoro - Interposizione illecita - Non sussiste

In tema di interposizione nelle prestazioni di lavoro, non è sufficiente, ai fini della configurabilità di un appalto fraudolento, la circostanza che il personale dell'appaltante impartisca disposizioni agli ausiliari dell'appaltatore, occorrendo verificare se esse siano riconducibili al potere direttivo del datore di lavoro, in quanto inerenti a concrete modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, oppure al solo risultato di tali prestazioni, il quale può formare oggetto di un genuino contratto di appalto. Detto potere direttivo deve estrinsecarsi nell'emanazione di ordini specifici, oltre che nell'esercizio di un'assidua attività di vigilanza e controllo nell'esecuzione delle prestazioni lavorative, sia pure nella necessaria considerazione della specificità dell'incarico conferito e del modo della sua attuazione.
NOTA
Un lavoratore lamentava di avere prestato la propria attività lavorativa, di programmatore ed analista informatico, presso la sede della committente per moltissimi anni e di aver ricevuto direttive solo da quest'ultima, pur rimanendo alle dipendenze formali di altre società. Pertanto, chiedeva che venisse accertata la sussistenza di una fattispecie di interposizione illecita di manodopera ai sensi della L. n. 1369 del 1960 e D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 20 e segg.
Accolta in primo grado, la domanda veniva respinta invece in sede di gravame. Secondo la Corte di appello di Torino, infatti, il lavoratore aveva prestato attività lavorativa per la committente in esecuzione di un contratto di appalto perfettamente regolare, con conseguente impossibilità per il primo di rivendicare l'imputazione del rapporto in capo alla appaltante. A sostegno della propria decisione, la Corte territoriale evidenziava che il contratto di appalto nell'ambito del quale il lavoratore aveva prestato attività lavorativa, riguardava un servizio estraneo al core business della società, richiedente un apporto di conoscenze specifiche e professionalità non presenti in azienda; che il fatto che le prestazioni lavorative fossero rese all'interno dei locali della committente e in stretta relazione con i responsabili di essa per i vari settori era determinato dalla necessità di rapportare l'attività dell'appaltatore al sistema informatico della committente e di corrispondere alle esigenze operative di volta in volta rappresentate; e che risultava dimostrato che era l'appaltatore, e non la committente, a fornire le disposizioni di carattere organizzativo ai propri dipendenti.
Avverso questa sentenza il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione affidato, per quel che qui rileva, ad un unico motivo.
Secondo il lavoratore, infatti, la Corte territoriale, in contrasto con le risultanze probatorie, aveva erroneamente escluso il suo inserimento costante, nel corso dell'intero periodo dedotto in giudizio, nel contesto produttivo della committente e aveva altresì escluso che fosse stata quest'ultima a organizzarne e dirigerne le prestazioni lavorative, senza la presenza di alcun referente per l'appaltatore.
Con la sentenza in epigrafe la S.C. rigetta il ricorso.
Secondo i Giudici di legittimità infatti la Corte di appello, in modo del tutto corretto, aveva verificato che nel caso di specie non sussistevano gli elementi dell'appalto illecito/fraudolento, e conseguentemente aveva escluso la tutela per l'interposizione fittizia di manodopera. Secondo la S.C. infatti non è sufficiente, ai fini della sua configurabilità dell'appalto illecito la circostanza che il personale dell'appaltante impartisca disposizioni agli ausiliari dell'appaltatore, occorrendo verificare se esse siano riconducibili al potere direttivo del datore di lavoro, in quanto inerenti a concrete modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, oppure al solo risultato di tali prestazioni, il quale può formare oggetto di un genuino contratto di appalto. Peraltro, secondo la Corte, perché il comportamento del committente integri gli estremi dell'esercizio del potere direttivo, occorre che esso si estrinsechi nell'emanazione di ordini specifici, oltre che nell'esercizio di un'assidua attività di vigilanza e controllo nell'esecuzione delle prestazioni lavorative, sia pure nella necessaria considerazione della specificità dell'incarico conferito e del modo della sua attuazione.

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