Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Demansionamento e risarcimento del danno
Trasferimento d'azienda e demansionamento
Licenziamento collettivo e criteri di scelta
Licenziamento disciplinare
Licenziamento ritorsivo

Demansionamento e risarcimento del danno

Cass. Sez. Lav., 18 maggio 2021, n. 13536

Pres. Raimondi; Rel. Leo; Ric. C.R.; Controric. T.I. S.p.A.

Demansionamento – Danno alla professionalità – Danno in re ipsa – Esclusione – Onere della prova a carico del dipendente – Specifica allegazione – Necessità

In tema di demansionamento e di dequalificazione professionale, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio lamentato. Infatti, va distinto il momento della violazione degli obblighi contrattuali da quello relativo alla produzione del danno da inadempimento, essendo quest'ultimo eventuale, in quanto il danno non è sempre diretta conseguenza della violazione di un dovere
NOTA
La Corte di Appello di Napoli, confermato il demansionamento (seppur con diversi inquadramento e decorrenza rispetto a quanto stabilito dal giudice di prime cure), riformava però la sentenza del Tribunale di Napoli, respingendo la domanda svolta dal lavoratore di risarcimento del danno conseguente all'accertata dequalificazione.
La Corte di merito aveva evidenziato, in particolare, che l'esistenza e l'entità del danno non fossero stati adeguatamente allegati e provati «incombendo, comunque, sul lavoratore il relativo onere probatorio anche attraverso il ricorso alle presunzioni (Cass. Sez. Unite 24.3.2006, n. 6572)». A giudizio della Corte d'Appello, infatti, il lavoratore, nel ricorso introduttivo, si era genericamente ed insufficientemente «limitato a sottolineare l'entità dell'avvenuto demansionamento evidenziando che ciò costituiva "di per sé un danno che va valutato in via equitativa, avendo anche riguardo agli influssi negativi che possono compromettere la capacità psico-fisica" o la possibilità di trovare un nuovo impiego presso altre aziende», senza quindi dedurre e dimostrare né particolari pregiudizi né determinati e specifici danni (tra cui: pregiudizi alla salute, danni all'immagine professionale, ripercussioni in ambito familiare o extralavorativo, danni economici correlati al mancato avanzamento professionale non tutelabili attraverso la disposta ricostruzione della carriera).
Avverso la sentenza d'appello promuoveva ricorso per cassazione il lavoratore che ha lamentato, in principalità, la violazione e falsa applicazione degli art.li 2103 e 2697 c.c. poiché la Corte d'Appello avrebbe errato nel respingere la domanda di risarcimento del danno professionale, avendo il ricorrente dedotto che la prova del lamentato danno risiedesse, tra l'altro, nella durata della condotta, nell'anzianità di servizio quale parametro per valutarne la professionalità acquisita, nella perdita del potere di coordinamento di altro personale e nella gravità del comportamento datoriale.
La Corte di legittimità rigetta integralmente il ricorso del lavoratore decidendo come da massima e ribadendo il principio già enunciato dalla medesima Corte (ex multis, Cass. 5590/2016; Cass. 691/2012) per cui «le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione di una condotta datoriale colpevole, produttiva di danni nella sfera giuridica del lavoratore, ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo il ricorrente mettere la controparte in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall'assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo». Richiamati i principi generali dettati dagli art.li 2697 e 1223 c.c., afferma quindi la Corte di Cassazione che «grava sul lavoratore l'onere di provare l'esistenza del danno lamentato, la natura e le caratteristiche del pregiudizio subito, nonché il relativo nesso causale con l'inadempimento del datore di lavoro» (Cass. 2886/2014; Cass. 11527/2013; Cass. 14158/2011; Cass. 29832/2008).

Trasferimento d'azienda e demansionamento

Cass. Sez. VI, 20 maggio 2021, n. 13787

Pres. Leone; Rel. Esposito; Ric. T. S.p.A.; Controric. C.S.; Int. T. S.p.A.

Trasferimento d'azienda – Illegittimità – Demansionamento – Risarcimento del danno – Responsabilità solidale – Esclusione – Responsabilità del solo cessionario per il periodo in cui ha usato la prestazione – Configurabilità

In caso di invalidità del trasferimento di azienda accertata giudizialmente, il rapporto di lavoro permane con il cedente e se ne instaura, in via di fatto, uno nuovo e diverso con il soggetto già, e non più, cessionario, alle cui dipendenze il lavoratore abbia materialmente continuato a lavorare, dal quale derivano effetti giuridici e, in particolare, la nascita degli obblighi gravanti su qualsiasi datore di lavoro che utilizzi la prestazione lavorativa nell'ambito della propria organizzazione imprenditoriale; ne consegue che la responsabilità per violazione dell'art. 2103 c.c. deve essere imputata a quest'ultimo e non anche al cedente.
NOTA
La Corte di appello di Napoli confermava la sentenza emessa dal giudice di primo grado che aveva accolto la domanda di accertamento del demansionamento a far data dall'aprile 2002, proposta dal dipendente ceduto insieme ad un ramo di azienda dalla società cedente, diventando dal 1° marzo 2004 dipendente della società cessionaria, ed aveva condannato le due società in solido alla corresponsione del risarcimento del danno.
Avverso la sentenza della Corte d'appello ricorreva la società cedente davanti la Corte di Cassazione affermando che poiché era stato accertato che il demansionamento si era protratto dal mese di aprile 2002 fino ad ottobre 2010 e che da marzo 2004 il dipendente era alle dipendenze esclusive della società cessionaria era erronea la condanna solidale delle società per l'intero periodo, gravando la responsabilità del demansionamento sul soggetto utilizzatore delle prestazioni, che aveva il potere di assegnare le mansioni. Insisteva la società cedente sostenendo che «il danno scaturente dal demansionamento, infatti, non era conseguenza diretta e immediata della condotta della società cedente, bensì della scelta del cessionario del ramo di azienda di non utilizzare il lavoratore in attività coerenti con la sua professionalità, tanto più che l'art. 2112 c.c. prevede solo che il cedente sia obbligato solidalmente con il cessionario per i crediti del lavoratore anteriori alla cessione, mentre nulla prevede per il periodo successivo alla cessione, ed, anzi, impone la responsabilità della cessionaria anche per i crediti anteriori alla cessione». Si costituiva il lavoratore con controricorso riportando di avere proposto nel frattempo impugnazione della cessione del ramo di azienda la quale era stata giudicata illegittima ed inefficace da parte della Corte di Cassazione in un altro procedimento.
Alla luce della ricostruzione della vicenda processuale, la Corte di legittimità accoglie il ricorso della società cedente e motiva come da massima sopra riportata precisando che «accanto al rapporto di lavoro quiescente con l'originaria impresa cedente, ripristinato de iure con la declaratoria giudiziale di invalidità del trasferimento, vi è una prestazione materialmente resa in favore del soggetto con il quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo d'azienda, abbia instaurato un rapporto di lavoro in via di fatto, comunque produttivo di effetti giuridici e quindi di obblighi in capo al soggetto che in concreto utilizza la prestazione lavorativa nell'ambito della propria organizzazione imprenditoriale, tra i quali anche quello che discende dall'operatività dell'art. 2103 c.c., sicché l'eventuale violazione di tale norma non può essere imputata al cedente che in concreto non utilizza la prestazione lavorativa».
Gli ermellini cassano quindi la parte della sentenza della Corte d'appello che ha condannato in solido le due società per il risarcimento dei danni derivanti dalla violazione dell'art. 2103 c.c. per il periodo in cui il dipendente ha lavorato alle dipendenze della società cessionaria e rinviano alla Corte d'appello di Napoli in nuova composizione.

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav., 24 maggio 2021, n. 14180

Pres. Berrino; Rel. Balestrieri; P.M. Mastroberardino; Ric. T. S.p.A.; Contr. D.F.

Licenziamento collettivo – Vizi della comunicazione finale: tutela indennitaria – Violazione dei criteri di scelta: tutela reintegratoria attenuata

In tema di vizi del licenziamento collettivo devono distinguersi due ipotesi: la non corrispondenza della comunicazione finale al modello legale, che costituisce una violazione procedurale con conseguente condanna del datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria compresa tra dodici e ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto del dipendente, e la violazione dei criteri di scelta, che comporta l'annullamento del licenziamento con condanna alla reintegrazione del lavoratore e al pagamento di un'indennità risarcitoria in misura non superiore a dodici mensilità. Vi sarà annullamento del licenziamento altresì qualora i vizi della comunicazione ex art. 4, comma 9, L. 223/1991, si risolvano nell'illegittima applicazione dei criteri di scelta.
NOTA
La Corte d'appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza di primo grado, annullava il licenziamento intimato all'esito di una procedura di riduzione del personale, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria e condanna del datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria, soggetta a contribuzione, pari a dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto del dipendente. In particolare, la Corte rilevava che, nonostante la comunicazione di chiusura della procedura fosse stata effettivamente inviata, essa non conteneva alcuna indicazione circa le modalità di applicazione dei criteri di scelta, con ciò integrando non un mero vizio formale della comunicazione, bensì l'illegittima applicazione dei criteri medesimi.
La società proponeva ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, lamentando, inter alia, l'erronea applicazione del regime di tutela e invocando l'applicazione della tutela indennitaria prevista in caso di violazione della procedura.
La Suprema Corte ritiene il motivo di ricorso infondato.
In conformità al proprio consolidato orientamento, la Corte ribadisce infatti che soltanto la non corrispondenza della comunicazione di chiusura del licenziamento collettivo al modello legale costituisce una violazione formale e dà luogo alla tutela indennitaria, con conseguente cessazione del rapporto alla data del licenziamento e condanna del datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria, non soggetta a contribuzione, quantificabile tra dodici e ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto del dipendente. Al contrario, la violazione dei criteri di scelta, illegittimi per violazione di legge oppure applicati difformemente dalle previsioni legali o collettive, dà luogo all'annullamento del licenziamento con condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore ed al pagamento di un'indennità risarcitoria, soggetta a contribuzione, in misura non superiore a dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto del dipendente (in senso conforme, Cass., 2587/2018). Nel caso in cui la comunicazione di chiusura – carente da un punto di vista formale in merito alle modalità di applicazione dei criteri di scelta – abbia avuto come conseguenza l'illegittima applicazione di tali criteri, vi sarà annullamento del licenziamento con le ulteriori conseguenze appena viste (in tal senso, Cass. 19010/2018).
Nel caso in esame, la Corte d'Appello aveva fatto corretta applicazione dei suddetti principi. In particolare, dopo aver accertato che la comunicazione di chiusura non contenesse alcuna indicazione circa le modalità di applicazione dei criteri di scelta, il giudice di merito aveva annullato il licenziamento poiché tale violazione formale non aveva consentito ai destinatari di valutare la correttezza e la legittimità dei licenziamenti, con ciò risolvendosi in una violazione dei criteri di scelta.

Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. VI, 27 maggio 2021, n. 14777

Pres. Doronzo; Rel. Ponterio; Ric. R.G.; Contr. I.G. S.p.A.

Licenziamento disciplinare - Illegittimità - Art. 18 Fornero - Tutela reale ex art. 18, comma 4, L. 300/1970 - Proporzionalità tipizzata dalla contrattazione collettiva - Necessità - Esclusione - Ordinanza interlocutoria - Remissione degli atti alla IV Sezione

Il discrimine tra tutela reale e indennitaria di cui all'art. 18, commi 4 e 5, non può risiedere nella tipizzazione dell'illecito da parte dei contratti collettivi e dei codici disciplinari, escludendo tutte quelle fattispecie rilevanti sul piano disciplinare espresse attraverso clausole generali o formule aperte. Diversamente, si realizzerebbe un'irrazionale disparità di trattamento tra comportamenti non gravi tipizzati e comportamenti di pari o minore rilievo non espressamente previsti dal contratto collettivo.
NOTA
La Corte d'Appello di Trieste riformava parzialmente la sentenza con la quale il Tribunale di Udine aveva annullato il licenziamento intimato ad un lavoratore, a seguito di contestazione disciplinare, per difetto di giusta causa e condannato la società datrice a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro ed a corrispondergli l'indennità risarcitoria di cui all'art. 18, comma 4, L. 300/1970.
In particolare, il Tribunale – giudicando in sede di opposizione ad ordinanza Fornero – aveva accertato l'assenza di una causa che giustificasse il recesso in tronco del lavoratore con riferimento alla condotta contestatagli e consistente: a) nell'avere, in una conversazione via chat con una collega, criticato e denigrato i responsabili dell'impresa; b) nel non aver denunciato l'aggressione con lesioni subita da una guardia giurata durante il servizio; c) nell'avere omesso per cinque mesi di segnalare alla Questura di Udine i turni di servizio del personale, come imposto da precise direttive.
La Corte territoriale, investita del gravame, accertava l'illegittimità del licenziamento disciplinare subìto da lavoratore, ritenendo, tuttavia, di dover applicare il comma 5 e non il comma 4 dell'art. 18 citato e dichiarando, pertanto, risolto il rapporto di lavoro con la società datrice e condannando quest'ultima al pagamento di un'indennità risarcitoria pari a venti mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
In particolare, accertata l'irrilevanza disciplinare della prima contestazione e il "minimo rilievo" disciplinare delle altre due contestazioni che erano state mosse al dipendente, i giudici di appello hanno esaminato le previsioni del contratto collettivo applicato che comminava, tra le sanzioni conservative: il rimprovero scritto per le condotte caratterizzate da lievi irregolarità nell'adempimento; la multa per i casi di ritardo nell'inizio del lavoro e di esecuzione del lavoro senza la necessaria diligenza; la sospensione per chi esegua il lavoro con negligenza grave od ometta parzialmente di eseguire il servizio.
La Corte riteneva difficile ricondurre il caso in oggetto - di omessa denuncia di un fatto di servizio e di omessa trasmissione di alcuni documenti all'Autorità locale di Polizia - a dette ipotesi formulate in modo assai generico ed indefinito e richiamava, da un lato, la granitica giurisprudenza di legittimità secondo cui «solo ove il fatto contestato ed accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore ...che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento sarà non solo illegittimo ma anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dal comma 4 dell'art. 18 (L. 300 del 1970) novellato...», nonché, dall'altro lato, la tesi consolidata sulla natura tendenzialmente residuale della tutela reintegratoria, e riteneva, conseguentemente, applicabile il regime indennitario, di cui all'art. 18, comma 5 citato.
Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi, mentre la società ha resistito con controricorso e ricorso incidentale basato su un unico motivo.
In particolare, il dipendente ha eccepito l'errore della Corte territoriale nell'aver applicato la tutela indennitaria in luogo di quella reintegratoria, senza considerare che il fatto contestato integrava una delle fattispecie punite dal CCNL di riferimento con sanzione conservativa.
La Corte di Cassazione, per quanto qui rileva, ritiene che l'orientamento della giurisprudenza di legittimità sull'interpretazione dell'art. 18, comma 4 citato, presenti profili di irragionevolezza e ciò, in particolare, laddove individua il discrimine tra la tutela reintegratoria di cui al comma 4 e quella indennitaria di cui al comma 5 dell'art. 18, in base al dato della coincidenza del fatto addebitato con una specifica fattispecie tipizzata dal contratto collettivo come punibile con sanzione conservativa.
La Corte rileva, infatti, che la circostanza che alcune condotte non risultino tipizzate dai contratti collettivi come suscettibili di sanzioni conservative - specie in presenza di formule generali o aperte oppure di norme di chiusura - non può costituire un indice significativo e plausibile della volontà delle parti sociali di escludere tali condotte dal novero di quelle meritevoli delle sanzioni disciplinari più blande, cioè conservative.
Sulla base di tali premesse, la Cassazione non ritiene rispondente ad un criterio di ragionevolezza attribuire alla tipizzazione, ad opera dei contratti collettivi, delle condotte punibili con sanzione conservativa il ruolo di discrimine per la scelta, in ipotesi di illegittimità del licenziamento, tra la tutela reintegratoria e quella indennitaria.
«Anzitutto – spiega la Corte – perché la tipizzazione di alcune condotte non è concepita dalle parti sociali in vista e in funzione della distinzione che l'art. 18 pone, ai commi 4 e 5, tra le due forme di tutela; inoltre, perché quella tipizzazione non è realizzata secondo un criterio idoneo a dare ragione del fatto per cui solo alcuni illeciti disciplinari, e non altri, meritino la tutela reintegratoria».
In altre parole, la Cassazione ritiene che quella tipizzazione non ha un nesso eziologico e valoriale rispetto alla funzione di discrimine che viene ad essa attribuita, con la conseguenza, ritenuta irragionevole, di far ricadere sui lavoratori le lacune e la approssimazione della disciplina contrattuale collettiva.
La Suprema Corte sottolinea, altresì, che l'orientamento di legittimità che si va sempre più cristallizzando come "diritto vivente", rischia di entrare, peraltro, in conflitto col principio di uguaglianza, stante l'irrazionale disparità di trattamento allorquando si ritenga legittima una diversità di tutela, rispettivamente reintegratoria e indennitaria, tra comportamenti non gravi, tipizzati dal contratto collettivo e puniti con sanzioni conservative, e comportamenti di pari o minore rilevanza disciplinare, solo perché non espressamente contemplati dalla disciplina contrattuale.
La Corte ritiene, parimenti, vi siano forti dubbi di ragionevolezza ove faccia riferimento ai codici disciplinari redatti unilateralmente dal datore di lavoro. «Se la tutela reintegratoria si considera accessibile solo ove il fatto addebitato coincida con una specifica condotta tipizzata e punibile con misura conservativa – afferma la Corte - sarebbe agevole per il datore di lavoro redigere il regolamento disciplinare senza inserire tipizzazioni di condotte punibili con misure conservative, così da evitare sempre il rischio della tutela reintegratoria».
Conclusivamente, la Sesta Sezione (Civile) della Cassazione ritiene che la decisione della fattispecie oggetto di causa assume rilievo paradigmatico e, quindi, nomofilattico, per un'ulteriore riflessione sulla portata precettiva dell'art. 18, commi 4 e 5, L. n. 300/1970 e dispone, con ordinanza interlocutoria, la trasmissione del procedimento alla Sezione Quarta, competente per la materia Lavoro.

Licenziamento ritorsivo

Cass. Sez. VI, 20 maggio 2021, n. 13781

Pres. Doronzo; Rel. Esposito; Ric. P&M A. S.n.c.; Controric. A.G.

Licenziamento per motivo oggettivo – Motivo apparente – Rifiuto di accettare una proposta di novazione del contratto con riduzione della retribuzione – Licenziamento ritorsivo – Configurabilità

È ritorsivo il licenziamento motivato dall'esternalizzazione delle attività assegnate al dipendente se, in realtà, la posizione lavorativa non viene soppressa e il recesso è disposto a seguito del rifiuto del lavoratore di accettare una proposta di novazione del contratto con riduzione della retribuzione.
NOTA
L'ordinanza in commento ha ad oggetto un licenziamento ritenuto ritorsivo sia dal giudice di prime cure che dalla Corte d'appello di Bologna, in quanto motivato dal rifiuto della lavoratrice di accettare una proposta di novazione del contratto con riduzione della retribuzione corrisposta.
Avverso la decisione della Corte territoriale ha proposto ricorso per cassazione la società datrice di lavoro.
In primo luogo, la datrice di lavoro deduceva l'illogicità della motivazione, poiché la Corte bolognese si era limitata a richiamare le valutazioni effettuate dal Tribunale, precludendo in tal modo la possibilità per la ricorrente di verificare il ragionamento in forza del quale il giudice è giunto ad affermare l'insussistenza di un'effettiva soppressione della posizione della lavoratrice.
In secondo luogo, la società ricorrente sosteneva che il giudice d'appello avesse operato un illegittimo sindacato delle scelte datoriali. Infatti, in base alla ricostruzione della società, il giudice aveva dato atto dell'avvenuta esternalizzazione e dell'effettività della ristrutturazione organizzativa, tuttavia, l'aveva, altresì, ritenuta inidonea ai fini del recesso dal rapporto di lavoro con la controricorrente.
Infine, la datrice di lavoro deduceva che l'onere della prova del carattere ritorsivo del licenziamento, gravasse sul lavoratore e potesse essere assolto con la dimostrazione di elementi specifici. In merito, la ricorrente osservava che, la Corte d'appello di Bologna aveva valutato, ai fini della prova della ritorsività, l'esistenza di una proposta novativa intervenuta in un momento anteriore al licenziamento, poiché nella bozza di accordo era previsto il passaggio al terzo livello contrattuale con una riduzione della retribuzione relativa esclusivamente al superminimo.
La Corte di Cassazione ha ritenuto infondati tutti i motivi di ricorso della società.
In particolare, ha chiarito che la Corte territoriale ha correttamente accertato l'insussistenza del giustificato motivo oggettivo e, al contempo, l'esistenza di elementi fattuali a riprova della ritorsività del licenziamento, esponendo l'iter logico effettuato in una congrua motivazione. Nello specifico, gli elementi di fatto considerati dalla Corte sono stati, da un lato, la correlazione tra la proposta novativa e il recesso e, dall'altro, la sussistenza, anche successivamente all'esternalizzazione, della necessità della posizione della ricorrente (le cui mansioni erano infatti state affidate ad una «ordinaria impiegata amministrativa pienamente inserita nell'unità produttiva de qua»).
Pertanto, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso, osservando, con riferimento alle altre due censure formulate dalla società che le stesse non si risolvevano in altro se non una prospettazione di una rivalutazione del merito della vicenda, preclusa in sede di legittimità.

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