Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Infortunio sul lavoro e concorso di colpa del dipendente
Computo di recessi per la procedura di licenziamento collettivo
Licenziamento collettivo contrario ai principi di correttezza e buona fede
Licenziamento collettivo illegittimo e domanda di annullamento


Infortunio sul lavoro e concorso di colpa del dipendente

Cass. Sez. Lav., 1° giugno 2021, n. 15238

Pres. Raimondi; Rel. Pagetta; P.M. Fresa; Ric. R.P.; Controric. P.A.

Salute e sicurezza – Infortunio sul lavoro – Fattispecie: accesso a zona interdetta – Concorso di colpa del dipendente – Non sussiste

In tema di sicurezza nei cantieri, l'infortunio occorso al dipendente dell'appaltatore in una zona vietata e transennata genera comunque il diritto di quest'ultimo (o dei suoi eredi come nella specie stante la morte dell'infortunato) al risarcimento del danno se il lavoratore vi si è recato per eseguire un ordine di un suo superiore. La condotta seppur inidonea dell'operaio non comporta, infatti, un concorso di colpa.
Nella specie il direttore tecnico della società appaltatrice, alle cui dipendenze era ascritto il lavoratore deceduto, aveva disposto la prosecuzione dei lavori nel cantiere nonostante l'ordine di sospensione per la necessaria messa in sicurezza di quest'ultimo.
NOTA
Gli eredi di un lavoratore avevano convenuto in giudizio il datore di lavoro per sentire affermare la sua responsabilità nel decesso del loro congiunto avvenuto sul luogo di lavoro. In particolare, il lavoratore era deceduto in conseguenza della caduta da una scala di circa 3 metri mentre controllava il getto di cemento all'interno di una colonna in costruzione. Gli eredi, dedotta la violazione di molteplici misure antinfortunistiche, chiedevano il risarcimento del danno morale da perdita della vita del loro congiunto, oltre a rivalutazione monetaria ed interessi legali. Il giudice di primo grado dichiarava che l'infortunio si era verificato per responsabilità attribuibile al 60% al lavoratore e per il 40% al datore di lavoro, condannando quest'ultimo al pagamento della somma di Euro 80.000. La Corte d'Appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava invece che l'infortunio in oggetto si era verificato per responsabilità attribuibile nella misura del 60% al datore di lavoro e per il 40% al lavoratore e condannava la società a pagare in favore degli eredi la somma di Euro 294.730. In particolare, il giudice di secondo grado rilevava che dagli atti emergeva che «era rimasto disatteso il divieto impartito il giorno precedente di accedere all'area transennata perché pericolosa (area ove il giorno dopo sarebbe caduto il lavoratore), con sospensione dei lavori fino a che non fossero state messe in sicurezza le passerelle non protette; il mancato rispetto del divieto aveva costituito una grave violazione da parte dell'infortunato, caposquadra ed operaio esperto, al quale andava ascritta una responsabilità pari al 40% nella produzione dell'accaduto; la maggiore responsabilità pari al 60%, era configurabile nei confronti del datore di lavoro per la condotta omissiva del proprio dipendente, dal momento che la violazione del divieto di accedere nell'area pericolosa non poteva avvenire per la semplice iniziativa del lavoratore e che il getto di calcestruzzo, nel corso del quale era avvenuto l'incidente, comportava un'attività ben più complessa di quella che si sarebbe svolta nell'arco temporale di una distrazione del direttore tecnico, come sostenuto».
Per la cassazione della decisione hanno proposto ricorso gli eredi in quanto, tra il resto, la sentenza aveva ritenuto il lavoratore corresponsabile nella misura del 40% in relazione al verificarsi dell'infortunio per avere violato l'ordine di non recarsi nella zona in cui erano presenti le passerelle che non erano ancora state messe in sicurezza con dei parapetti. In particolare, secondo gli eredi, «la corresponsabilità non considerava che la violazione ascritta al dipendente era frutto dell'ordine del direttore tecnico della società che aveva disposto la prosecuzione dei lavori».
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso affermando che «secondo il condivisibile orientamento di questa Corte la condotta incauta del lavoratore non comporta un concorso idoneo a ridurre la misura del risarcimento ogni qual volta la violazione di un obbligo di prevenzione da parte del datore di lavoro sia munita di incidenza esclusiva rispetto alla determinazione dell'evento dannoso; in particolare, tanto avviene quando l'infortunio si sia realizzato per l'osservanza di specifici ordini o disposizioni datoriali che impongano colpevolmente al lavoratore di affrontare il rischio, quando l'infortunio scaturisca dall'integrale impostazione della lavorazione su disposizioni illegali e gravemente contrarie ad ogni regola di prudenza o, infine, quando vi sia inadempimento datoriale rispetto all'adozione di cautele, tipiche o atipiche, concretamente individuabili, nonché esigibili ex ante ed idonee ad impedire il verificarsi dell'evento nonostante l'imprudenza del lavoratore, che in questa ipotesi degrada a mera occasione dell'infortunio ed è, pertanto, giuridicamente irrilevante».

Computo di recessi per la procedura di licenziamento collettivo

Cass. Sez. Lav., 31 maggio 2021, n. 15118

Pres. Berrino; Rel. Balestrieri; P.M. Mastroberardino; Ric. S.G. S.p.A.; Controric. B.L.;

Licenziamento collettivo – Art. 4 L. 223/1991 – Requisito numerico – 5 licenziamenti – Intenzione di licenziare ex art. 7 L. 604/1966 – Computo – Esclusione

L'avvio di molteplici procedure secondo l'articolo 7 della legge 604/1966, per le medesime motivazioni economiche, di per sé non rileva ai fini del calcolo del numero minimo di cinque recessi che impone l'apertura della procedura di licenziamento collettivo ex L. 223/1991. L'espressione "intenda licenziare" secondo l'articolo 24 della legge 223/1991 rappresenta una chiara manifestazione della volontà di recesso, ancorché subordinata al previo esperimento della procedura collettiva stabilita dal legislatore. Diversamente, l'espressione «deve dichiarare l'intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo» del menzionato articolo 7 della legge 604/1966 è invece imposta al fine di intraprendere la nuova procedura di compensazione (o conciliazione) dinanzi alla Direzione territoriale del lavoro, e non può quindi ritenersi di per sé un licenziamento.
Licenziamento collettivo – Art. 4 L. 223/1991 – Requisito numerico – 5 licenziamenti – Cessazioni derivanti da una modifica sostanziale delle condizioni di lavoro – Inclusione
Nel numero minimo dei cinque licenziamenti, in presenza dei quali, in base all`articolo 4 della legge 223/1991, deve essere attivata la procedura collettiva di informazione e consultazione sindacale, rientrano anche ipotesi risolutorie del rapporto di lavoro su richiesta del lavoratore che siano comunque conseguenti a una modifica sostanziale delle condizioni del rapporto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore, stabilita unilateralmente dal datore a svantaggio del lavoratore
NOTA
Una lavoratrice lamentava l'illegittimità del licenziamento per ragioni oggettive irrogatole, evidenziando l'insussistenza delle ragioni economiche poste a suo fondamento e comunque la violazione dell'obbligo di repêchage, stante la persistenza di posizioni libere presso altre società del gruppo. Peraltro, a fondamento della sua domanda, la lavoratrice deduceva anche la violazione dell'art. 24 L. 223/1991, dal momento che subito dopo il suo licenziamento, e comunque nell'arco dei successivi 120 giorni, la società aveva attivato, per gli stessi motivi, numerose (nove) procedure di licenziamento L. 604/1966, ex art. 7, che imponevano piuttosto l'attivazione di una procedura di licenziamento collettivo, che invece era stata del tutto omessa.
Se in primo grado il Tribunale respingeva tutte le domande proposte dalla ricorrente, in sede di gravame la Corte d'appello di Trieste, qualificato il licenziamento della lavoratrice come licenziamento collettivo ed accertata di conseguenza l'illegittima omissione da parte della società datrice di lavoro della procedura di cui alla L. 223/1991, art. 24, comma 1 quinquies, condannava la società a pagare alla lavoratrice un'indennità pari a 18 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
Avverso questa sentenza la società proponeva ricorso per Cassazione, affidato a due diversi motivi.
Secondo la società, infatti, la Corte territoriale aveva erroneamente ritenuto sussistenti le condizioni per l'attivazione della procedura di licenziamento collettivo, non considerando che nell'arco di 120 giorni erano avvenuti non già dei licenziamenti ma solo delle dichiarazioni dell'intenzione di licenziare ex art. 7, L. 604/1966; dichiarazioni di intenzione, appunto, che giammai potrebbero essere equiparate a dei veri e propri licenziamenti ai fini previsti dall'art. 24, L. 223/1991.
Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte accoglie il ricorso della società.
Infatti l'espressione "intenda licenziare" di cui alla L. 223/1991, art. 24 presuppone che vi sia un chiara manifestazione della volontà di recesso datoriale – pur necessariamente ancorata al fatto che i licenziamenti non possono essere intimati se non successivamente all'iter procedimentale di legge – mentre cosa ben diversa è l'espressione «deve dichiarare l'intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo» ai sensi della novellata legge n. 604 del 1966, art. 7, che è invece imposta al fine di intraprendere la nuova procedura di compensazione (o conciliazione) dinanzi alla DTL, e non può quindi ritenersi di per sé un licenziamento. In altre parole, secondo la Suprema Corte, non potendo assimilarsi le dichiarazioni di intenzione al licenziamento, ex art. 7, ad un vero e proprio recesso, il licenziamento irrogato alla lavoratrice appare del tutto legittimo, non avendo la società alcun onere di avviare la procedura collettiva.
A questo principio di diritto la Suprema Corte ne aggiunge - in conclusione della sentenza in epigrafe – anche un altro, che sancisce il definitivo superamento di un suo precedente orientamento in merito alla natura dei recessi idonei all'attivazione della procedura di licenziamento collettivo. Secondo il Collegio, infatti, una corretta interpretazione della nozione di "licenziamento" – ai sensi dell'articolo 1, paragrafo 1, comma 1, lettera a) della direttiva 98/59/Ce del Consiglio del 20 luglio 1998 – impone di includere nel numero minimo di cinque licenziamenti, sufficiente ad integrare l'ipotesi del licenziamento collettivo, anche altre differenti ipotesi risolutorie del rapporto di lavoro, addirittura richieste dal lavoratore, purché riferibili all'iniziativa del datore di lavoro. In altre parole, nella nozione di "licenziamento" rientrano tutte le ipotesi di cessazione del contratto di lavoro, anche derivanti dalla richiesta del lavoratore medesimo, conseguenti però al fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente ed a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso.
Per un approfondimento si veda Guida al Lavoro n. 26/2021

Licenziamento collettivo contrario ai principi di correttezza e buona fede

Cass. Sez. Lav., 26 maggio 2021, n. 14990

Pres. Berrino; Rel. Balestrieri; P.M. Mastroberardino; Ric. P. S.p.A.; Controric. T.G.S.

Lavoro subordinato – Procedura collettiva – Posizione in esubero – Adibizione pochi mesi prima del recesso – Correttezza e buona fede – Violazione – Sussistenza – Violazione dei criteri di scelta – Configurabilità – Conseguenza – Art. 18 Fornero – Tutela reintegratoria – Applicazione

È illegittimo, perché contrario agli elementari principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, il licenziamento, disposto nell'ambito di una procedura collettiva, di un dipendente addetto alle mansioni considerate in esubero solo temporaneamente e pochi mesi prima del recesso (nella specie archivista).
NOTA
Nel caso di specie la lavoratrice aveva impugnato il licenziamento intimatole dalla società datrice di lavoro all'esito di una procedura di mobilità nell'ambito della quale era stato dichiarato un esubero di sette unità.
In particolare la stessa lamentava di aver sempre svolto mansioni diverse da quelle assegnate pochi mesi prima dell'apertura della procedura di mobilità, a suo dire dequalificanti e volte all'allontanamento dalla compagine aziendale (poi avvenuto, mediante inserimento del suo profilo tra quelli in esubero nell'ambito della detta procedura di mobilità). L'adibizione a tali mansioni peraltro, sempre secondo la lavoratrice, era stata dichiarata dalla società come solo temporanea e – pertanto – non avrebbe dovuto essere inclusa tra i profili in esubero.
La società sosteneva dal canto suo la correttezza del licenziamento in quanto la procedura aveva passato il vaglio dei sindacati (concludendosi con accordo sindacale) e che il cambio di mansioni della ricorrente era dovuto alla soppressione delle mansioni precedentemente svolte dalla lavoratrice.
Il giudice di prima cure accoglieva parzialmente il ricorso della lavoratrice annullando il licenziamento e condannando la datrice di lavoro alla reintegra e al risarcimento nella misura di dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.
Tale decisione veniva confermata tanto dal Tribunale in sede di opposizione quanto dalla Corte d'Appello all'esito del reclamo della società.
Contro la decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso in Cassazione la società datrice di lavoro osservando che la sentenza impugnata aveva ritenuto che la illegittimità della procedura non derivava dalla soppressione della mansione di cui era stata da ultimo adibita la lavoratrice, sicché tale soppressione doveva ritenersi legittima a prescindere dal fatto che l'adibizione ad essa della lavoratrice fosse definitiva o provvisoria.
La Suprema Corte ha respinto le censure di cui sopra, rigettando il ricorso.
In particolare la Cassazione ha rilevato, da un lato che la Corte territoriale non ha mai statuito la legittimità della soppressione della posizione cui la lavoratrice era adibita al momento dell'apertura della procedura di mobilità in esame, dall'altra che la stessa si è limitata ad applicare un principio elementare di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto di lavoro: è contrario a buona fede il licenziamento del dipendente che sia stato adibito alle mansioni in esubero solo pochi mesi prima del recesso.

Licenziamento collettivo illegittimo e domanda di annullamento

Cass. Sez. Lav., 24 maggio 2021, n. 14198

Pres. Tria; Rel. Di Paolantonio; P.M. Giacalone; Ric. C.F.; Controric. E.D.O.

Licenziamento collettivo – Criteri di scelta ex art. 5 Legge 223/1991 – Violazione – Azione di annullamento – Presupposto – Interesse ad agire del lavoratore "qualificato" – Necessità

In caso di violazione dei criteri di scelta, l'annullamento non può essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati, bensì solo da chi non sarebbe stato ricompreso nella platea dei destinatari dell'atto espulsivo ove la violazione non fosse stata realizzata. Ciò perché l'azione di annullamento, a differenza di quella di nullità, presuppone un interesse qualificato e richiede che il vizio abbia avuto incidenza determinante nell'adozione dell'atto contestato.
NOTA
La Corte di Appello di Palermo accoglieva il reclamo proposto dalla datrice di lavoro, in riforma della sentenza del Tribunale di Palermo, che, all'esito del giudizio di opposizione, aveva accolto l'impugnazione proposta dal lavoratore avverso il licenziamento collettivo intimato dalla datrice in ragione dello stato di crisi aziendale derivato dalla riduzione dei corsi di formazione.
La Corte territoriale, richiamato il principio della ragione più fluida, riteneva «assorbente la fondatezza del motivo di reclamo proposta avverso il capo della decisione che aveva fatto discendere l'illegittimità del licenziamento dalla sola errata applicazione dei criteri di scelta, omettendo di considerare che il C., nell'ambito del profilo professionale "formatori settore meccanico", era preceduto da due lavoratori dello stesso profilo, in relazione al quale era previsto un esubero».
In sostanza la Corte di Appello accertava che, «anche qualora l'ente avesse valorizzato gli insegnamenti in precedenza assegnati al reclamato», quest'ultimo sarebbe stato comunque licenziato, e che «la violazione dei criteri di scelta può essere utilmente fatta valere dal lavoratore solo nel caso in cui sia stato concretamente pregiudicato dall'illegittima applicazione dei criteri di selezione, evenienza questa non riscontrata nella fattispecie».
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto diversi profili.
La Suprema Corte ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte territoriale che si è uniformata al principio di diritto affermato dalla stessa Corte e che «non ha perso attualità a seguito della riformulazione dell'art. 5, comma 3, della legge n. 223/1991 perché il legislatore, che in precedenza aveva espressamente qualificato annullabile il licenziamento intimato in violazione dei criteri di scelta, nell'adeguare le tutele al nuovo regime stabilito dall'art. 18 della legge n. 300/1970, come modificato dalla legge n. 92/2012, ha rinviato per la violazione dei criteri di scelta al comma 4 del testo modificato, non al comma 1, confermando in tal modo la precedente qualificazione del vizio ed escludendo che lo stesso possa essere ritenuto causa di nullità del recesso ( cfr. Cass. n. 4409/2021, pronunciata in fattispecie sovrapponibile a quella oggetto di causa)».
In sostanza la Suprema Corte rileva che, in tema di licenziamento collettivo, l'annullamento del licenziamento per violazione dei criteri di scelta non può essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati, «bensì solo da chi non sarebbe stato ricompreso nella platea dei destinatari dell'atto espulsivo ove la violazione non fosse stata realizzata», presupponendo l'azione di annullamento un interesse qualificato ed il fatto che «il vizio abbia avuto incidenza determinante nell'adozione dell'atto contestato».
Conclusivamente la Suprema Corte rigetta il ricorso del lavoratore.

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