Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Comunicazione di chiusura del licenziamento collettivo
Cessione di ramo d'azienda
Lavoratore in malattia e svolgimento di altra prestazione lavorativa
Utilizzo dei dati contenuti nelle email e violazione della privacy
Conciliazione in sede sindacale

Comunicazione di chiusura del licenziamento collettivo

Cass. Sez. Lav., 31 maggio 2021, n. 15119

Pres. Berrino; Rel. Balestrieri; P.M. astroberardino; Ric. B. S.p.A.; Contr. S.E.M.

Licenziamento collettivo – Comunicazione finale – Omessa indicazione dei criteri di scelta – Omessa indicazione dell'elenco dei lavoratori e dei punteggi attribuiti – Tutela reintegratoria attenuata – Sussiste – Successiva conoscenza da parte del lavoratore dei criteri applicati – Irrilevanza

L'art. 4, comma 9, L. 223/1991, impone che la relativa comunicazione contenga, oltre all'elenco dei lavoratori licenziati, l'indicazione puntuale delle modalità con le quali i criteri di scelta sono stati applicati e, quindi, l'indicazione completa dell'elenco dei lavoratori e dei punteggi attribuiti a ciascuno di essi. La violazione di tale obbligo determina l'invalidità del licenziamento, e la conseguente reintegrazione del lavoratore, a prescindere dalla circostanza che successivamente il lavoratore abbia avuto conoscenza degli elementi che la comunicazione deve contenere.

Licenziamento collettivo – Individuazione dei lavoratori da licenziare – Ambito di applicazione – Complesso aziendale – Necessità – Eccezione – Comparazione limitata per aree geografiche – Esistenza di oggettive esigenze aziendali – Necessità

L'art. 5, L. 223/1991, dispone che l'individuazione dei lavoratori da licenziare debba avvenire in relazione alle esigenze tecnico produttive e organizzative del complesso aziendale, in forza della necessità di ampliare al massimo l'area in cui operare la scelta e approntare idonee garanzie contro il pericolo di discriminazioni a carico del lavoratore, in cui tanto più si può incorrere quanto più si restringe l'ambito di selezione. La platea dei lavoratori interessati dalla riduzione di personale può essere limitata soltanto sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale.

NOTA

La Corte d'appello di Catania, in riforma della sentenza di primo grado, annullava il licenziamento intimato all'esito di una procedura di riduzione del personale, con conseguente reintegrazione del dipendente e condanna del datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria, soggetta a contribuzione, pari a dieci mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto del lavoratore. La società proponeva ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, eccependo, inter alia, che la Corte d'Appello avesse erroneamente ritenuto la comunicazione di chiusura della procedura lesiva degli obblighi informativi imposti dall'art. 4, comma 9, L. 223/1991, poiché la graduatoria dei dipendenti riportava i punteggi attribuiti ai lavoratori comparati ma non i loro nominativi, che erano stati oscurati.La Suprema Corte ritiene il motivo di ricorso infondato, giacché la Corte d'Appello aveva correttamente ritenuto che, ai sensi dell'art. 4, comma 9, L. 223/1991, la relativa comunicazione debba contenere l'elenco dei lavoratori licenziati unitamente alla puntuale indicazione delle modalità con cui i criteri di scelta sono stati applicati e, quindi, l'elenco nominativo di tutti i lavoratori e dei punteggi attribuiti a ciascuno di essi (in senso conforme, Cass., 25807/2019). La violazione di tale norma determina l'invalidità del licenziamento, a prescindere dal fatto che i lavoratori successivamente abbiano avuto conoscenza di tutti gli elementi suddetti, giacché la comunicazione in oggetto è finalizzata a consentire ai lavoratori, alle organizzazioni sindacali ed agli uffici competenti di controllare tempestivamente la correttezza della selezione operata dal datore di lavoro (in senso conforme, Cass. 25737/2016).Quale ulteriore motivo di ricorso, la società lamentava l'erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui aveva ritenuto che le ragioni addotte a giustificazione della comparazione dei lavoratori per aree geografiche non fossero idonee ad escludere la necessità di una comparazione su base nazionale.La Corte di Cassazione ritiene anche questo motivo di ricorso infondato. Ai sensi dell'art. 5, L. 223/1991, infatti, l'individuazione dei lavoratori da licenziare deve avvenire di norma in relazione alle esigenze tecnico produttive e organizzative del complesso aziendale, in ragione dell'esigenza di ampliare al massimo l'area in cui operare la scelta dei dipendenti, approntando così maggiori garanzie contro il pericolo di discriminazioni a danno del singolo lavoratore. La platea dei lavoratori da licenziare può essere limitata ad una specifica area geografica soltanto qualora sussistano specifiche e oggettive esigenze aziendali correlate al progetto di ristrutturazione aziendale, ed è onere del datore di lavoro provare i fatti che giustificano la limitazione medesima (in senso conforme, Cass. 9991/2009, Cass. 8474/2005).

C essione di ramo d'azienda

Cass. Sez. Lav., 31 maggio 2021, n. 15129

Pres. Raimondi; Rel. Amendola; P.M. Celeste; Ric. B.M. – M.C. S.p.A. + 1; Controric. L.R.

Trasferimento di ramo d'azienda – Requisiti – Testo post riforma del D.lgs 276/2003 – Autonomia funzionale del ramo – Preesistenza del ramo – Necessità

Ai fini del trasferimento di ramo d'azienda previsto dall'art. 2112 c.c., rappresenta elemento costitutivo della cessione l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere – autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario – il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell'ambito dell'impresa cedente al momento della cessione.

NOTA

La Corte d'appello di Roma, in riforma della pronuncia di primo grado, accertata la illegittimità della cessione di ramo di azienda, dichiarava la sussistenza, senza soluzione di continuità, del rapporto di lavoro di una dipendente con la società cedente. La Corte di merito escludeva che nel caso di specie potesse configurarsi la cessione di ramo di azienda, in difetto del requisito di autonomia funzionale, presupposto necessario ex art. 2112 c.c.Avverso tale sentenza proponevano ricorso per Cassazione sia la società cedente che la società cessionaria, denunciando entrambe, tra l'altro, la violazione dell'art. 2112 c.c., per aver escluso la sussistenza dei requisiti di "autonomia funzionale" e "preesistenza". La società cessionaria contestava, altresì, il principio, condiviso dalla sentenza impugnata, circa la necessità della preesistenza del ramo ceduto quale requisito di legittimità della cessione del ramo d'azienda ex art. 2112, co. 5, c.c., nella versione di testo applicabile alla fattispecie.La Suprema Corte ribadisce dapprima i consolidati limiti del sindacato di legittimità relativamente all'applicazione dell'art. 2112 c.c., osservando che « l'accertamento in concreto dell'insieme degli elementi fattuali idonei o meno a configurare la fattispecie legale tipica del trasferimento di ramo d'azienda, delineata in astratto dal comma 5 dell'art. 2112 c.c., implica prima una individuazione ed una selezione di circostanze concrete e, poi, il loro prudente apprezzamento, traducendosi in attività di competenza del giudice di merito, cui non può sostituirsi il giudice di legittimità.» e che, pertanto, in sede di ricorso per cassazione, alla Corte non resta che accertare o un'errata ricognizione degli elementi legali identificativi del trasferimento del ramo d'azienda oppure l'omesso esame di un fatto decisivo per la decisione, ovvero, alternativamente, una motivazione che violi il cd. "minimo costituzionale". Prosegue, poi, la Corte, affermando che i motivi di ricorso sopra enunciati non possano trovare accoglimento, in quanto da un lato, propongono un diverso apprezzamento del peso da attribuire alle varie circostanze di fatto alla base della vicenda e, dall'altro, anche in punto di diritto, la decisione della Corte d'appello romana risulta conforme alla giurisprudenza della Corte di legittimità in materia. In particolare, la Suprema Corte si sofferma sulla ratio della disciplina comunitaria, come interpretata dalla stessa giurisprudenza europea, affermando che la stessa è volta a tutelare la continuità dei rapporti di lavoro esistenti nell'ambito di un'attività economica indipendentemente dal cambiamento del proprietario. Alla luce di tale disciplina, la Corte di Cassazione ribadisce il proprio consolidato orientamento, secondo cui, ai fini del trasferimento di ramo d'azienda, previsto dall'art. 2112 c.c., anche nel testo modificato dall'art. 32, d. lgs. n. 276/2003, è elemento costitutivo della cessione l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la sua capacità, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e, quindi, di svolgere – senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario – il servizio o la funzione finalizzati nell'ambito dell'impresa cedente. Ed è in tal senso che l'elemento costitutivo rappresentato dall'autonomia funzionale del ramo d'azienda ceduto deve esser letto in reciproca integrazione con il requisito della preesistenza dello stesso, infatti, prosegue la Corte, la riforma intervenuta non ha modificato la «tradizionale impostazione secondo cui non è consentita la creazione di una struttura produttiva ad hoc in occasione del trasferimento o come tale identificata dalle parti del negozio traslativo, essendo preclusa l'esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell'imprenditore e non dall'inerenza del rapporto ad un ramo di azienda già costituito».

Lavoratore in malattia e svolgimento di altra prestazione lavorativa

Cass. Sez. Lav., 3 giugno 2021, n. 15465

Pres. Tria; Rel. Spena; P.M. Mucci; Ric. R.R.; Controric. A.D.

Lavoratore in malattia – Svolgimento di altra prestazione lavorativa – Inesistenza della malattia – Licenziamento per giusta causa – Legittimità

È legittimo il licenziamento disciplinare adottato nei confronti di un lavoratore che, durante il congedo per malattia, sia sorpreso a svolgere attività lavorativa in modo non occasionale ma continuativo e caratterizzato da un impegno non meno gravoso di quello proprio delle mansioni svolte presso il datore, dimostrando in realtà di non essere affetto da alcun disturbo

NOTA

La Corte di Appello di Reggio Calabria confermava la sentenza del Tribunale che aveva accolto la domanda svolta dal datore di lavoro per la dichiarazione di legittimità del licenziamento disciplinare intimato ad un lavoratore e respinto la domanda riconvenzionale con la quale quest'ultimo impugnava il licenziamento.Il lavoratore, nella fattispecie, era stato licenziato per aver utilizzato un periodo di malattia conseguente ad infortunio sul lavoro per svolgere attività lavorativa nella panetteria della figlia, come accertato da agenzia investigativa privata.In particolare, dalla CTU espletata in sede di appello era risultato che la sindrome depressiva lamentata dal lavoratore come conseguente all'infortunio era di lieve entità e non ricollegabile all'infortunio stesso. La Corte d'Appello ha ritenuto che vi fossero in realtà indizi significativi circa l'inesistenza della patologia psichica lamentata da R.R., rilevando che se la stessa fosse stata presente nell'intensità lamentata dal lavoratore, non avrebbe, invero, consentito a quest'ultimo lo svolgimento di alcuna attività lavorativa.Avverso tale decisione ha proposto ricorso per Cassazione il lavoratore denunciando inter alia la violazione dell'art. 55, comma 3, del CCNL di categoria che prevedeva la sanzione della sospensione dal servizio e dalla retribuzione, fino ad un massimo di dieci giorni, in caso di «svolgimento di altre attività durante lo stato di malattia o di infortunio, incompatibili e di pregiudizio per la guarigione».La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso inammissibile, sotto più profili.In particolare, la Suprema Corte ha rilevato l'inammissibilità della denunciata violazione dell'art. 55 del CCNL di categoria, perchè non conferente alla ratio decidendi della sentenza impugnata, laddove la Corte d'Appello ha confermato il licenziamento perchè ritenuta inesistente l'asserita inabilità lavorativa, non già per lo svolgimento da parte del lavoratore di altra attività in costanza di malattia o di infortunio, incompatibile o di pregiudizio per la guarigione. Ed infatti, stabilisce la Corte di Cassazione, «la sanzione conservativa prevista dalle parti collettive, presuppone l'effettiva esistenza di uno stato di malattia o infortunio, che nella fattispecie di causa è stata invece esclusa». 

Utilizzo dei dati contenuti nelle email e violazione della privacy

Cass. Sez. I Civ., 31 maggio 2021, n. 15161

Pres. Genovese; Rel. Lamorgese; Ric. P.S.; Contr. S.S.N.R.P..; Int. G.P.

Sindacalista – Mailing list del sindacato – Offese al datore di lavoro – Segnalazione esterna – Utilizzo dei dati contenuti nelle email – Violazione privacy – Insussistenza

L'utilizzo a fini disciplinari dei messaggi di posta elettronica dal contenuto offensivo, inviati da un dipendente in una mailing list ed appresi dal datore esclusivamente a seguito di una segnalazione esterna, non integra una violazione del codice della privacy laddove il datore non conservi ed elabori i dati raccolti al fine di indagare sugli orientamenti sindacali o sulle opinioni del lavoratore, ma esclusivamente con il precipuo scopo di sanzionare gli apprezzamenti offensivi e inopportuni.

NOTA

Il Garante per la Protezione dei Dati Personali aveva ritenuto infondato il reclamo, proposto da un lavoratore sindacalista, per violazione della normativa sulla privacy da parte della datrice di lavoro, società pubblica, per avere quest'ultima acquisito, tramite una segnalazione esterna, alcune email inviate dal lavoratore ad una mailing list del sindacato dalle quali ne era successivamente generato un procedimento disciplinare a carico del dipendente in relazione al contenuto offensivo delle stesse nei confronti dei vertici aziendali.In particolare, il Garante aveva accertato che, sebbene le comunicazioni di posta elettronica avessero ad oggetto "dati personali" e soggiacessero alla disciplina del codice della privacy, ciononostante, il trattamento delle stesse non era stato illecito, essendo state trasmesse all'azienda a corredo di una segnalazione effettuata da un altro partecipante alla mailing list. Secondo il Garante, dunque, la società non aveva avuto alcun ruolo nella raccolta dei dati ivi contenuti, né aveva effettuato indagini o controlli sulle opinioni del lavoratore, ma li aveva trattati, legittimamente, nell'ambito del procedimento disciplinare a suo carico.Avverso il provvedimento del Garante, il lavoratore proponeva ricorso dinanzi al Tribunale di Torino, lamentando l'illegittimo trattamento da parte dell'azienda dei propri dati personali ritenuti afferenti a convinzioni sindacali espresse nelle predette comunicazioni email, in asserita violazione dello Statuto dei Lavoratori e della normativa sul procedimento disciplinare nei confronti dei dipendenti pubblici. Il Tribunale rigettava il ricorso del lavoratore ritenendo, tuttavia, contrariamente al decisum del Garante, che i messaggi di posta elettronica in questione non rientravano nella nozione di "dato personale" di cui all'art. 4 del Codice della privacy non trattandosi di «un'informazione ovverosia di un elemento identificativo della persona, di un suo tratto o di un suo comportamento», ma solo di «una dichiarazione che è invero la mera riproduzione del pronunciato o dello scritto (…) testimoniata proprio dal messaggio di posta elettronica».Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione censurando la decisione del Tribunale sotto svariati profili.Per quel che rileva, la Suprema Corte ritiene che il Tribunale «pur individuando la nozione di "dato personale" in "un elemento identificativo della persona, di un suo tratto o di un suo comportamento", giunge alla poco comprensibile e apodittica conclusione che "la dichiarazione resa dalla persona in una conversazione non è [mai] un elemento identificativo, bensì semplicemente quanto da essa dichiarato"». La Cassazione chiarisce che tale conclusione stride, infatti, con l'ampiezza della nozione di "dato personale" cui è approdata la Corte di giustizia UE secondo la quale esso «comprende potenzialmente ogni tipo di informazioni, tanto oggettive quanto soggettive a condizione che esse siano concernenti la persona interessata», confermata anche dal parere n. 4/2007 reso dal Comitato europeo per la protezione dei dati (allora "Gruppo per la tutela delle persone con riguardo al trattamento dei dati personali" o "WP29") sul concetto di dato personale, ove si chiarisce che «esso comprende qualsiasi tipo di informazione su una persona; può quindi includere informazioni "oggettive" come la presenza di una data sostanza nel sangue di una persona, ma anche informazioni "soggettive" come opinioni o valutazioni [poiché] il loro impiego può avere un impatto sui diritti e sugli interessi di quella persona, tenendo conto di tutte le circostanze del caso di specie».Ciononostante, la Suprema Corte ritiene tale correzione di diritto sulla pronuncia del Tribunale ininfluente ai fini dell'accoglimento del ricorso del lavoratore in quanto, in ogni caso, non ravvisa alcun trattamento illecito dei predetti dati personali in quanto, in linea con il decisum del Garante la società non aveva avuto alcun ruolo nella raccolta dei dati ivi contenuti, né aveva effettuato indagini o controlli sulle opinioni del lavoratore.Conclude la Cassazione affermando che la valutazione svolta dal Tribunale è coerente anche con le disposizioni concernenti il trattamento dei dati sensibili – il cui asserito trattamento illecito era stato oggetto di specifico motivo di censura da parte del lavoratore – affermando che: «Il trattamento dei dati in questione, seppure in ipotesi configurabili come sensibili non richiede il consenso dell'interessato, quando sia necessario per adempiere ad un obbligo imposto dalla legge, come nella specie, rientrando nei compiti di istituto connessi all'esercizio del potere disciplinare dell'Azienda Sanitaria, quale pubblica amministrazione, nei confronti dei propri dipendenti», da cui ne consegue che il trattamento dei dati "indispensabili per svolgere attività istituzionali", anche al fine di sanzionare gli apprezzamenti offensivi e inopportuni, non richiede il consenso dell'interessato, come era stato sostenuto dal lavoratore. Conseguentemente il ricorso del dipendente viene respinto.

Conciliazione in sede sindacale

Cass. Sez. Lav., 9 giugno 2021, n. 16154

Pres. Berrino; Rel. Patti; Ric. O.G.B.; Controric. S.E.I. S.r.l.

Rinunce e transazioni – Conciliazione in sede sindacale – Assistenza al lavoratore – Rappresentante sindacale presente – Validità dell'accordo – Sussiste

In materia di atti abdicativi di diritti del lavoratore subordinato, le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro previsti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi, contenute in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, non sono impugnabili, a condizione che l'assistenza prestata dai rappresentanti sindacali sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura. A tal fine si ritiene sufficiente l'idoneità dello stesso rappresentante sindacale a prestare in sede conciliativa l'assistenza prevista dalla legge; posto che la compresenza del predetto e dello stesso lavoratore al momento della conciliazione lascia presumere l'adeguata assistenza del primo, chiamato a detto fine a prestare opera di conciliatore (per il conferimento di un mandato implicito del lavoratore necessariamente sottostante all'attività svolta dal primo), in assenza di alcuna tempestiva deduzione né prova (dal dipendente di ciò onerato) che il rappresentante sindacale, pur presente, non abbia prestato assistenza di sorta.

NOTA

La Corte di appello di Milano confermava la sentenza emessa dal giudice di primo grado che aveva dichiarato improcedibili, in quanto oggetto del verbale di conciliazione sindacale, le domande di ricalcolo delle somme dovute ad un lavoratore per incentivo all'esodo con inclusione del lavoro straordinario prestato. La Corte territoriale «escludeva la nullità della conciliazione, in difetto di deduzione di alcun vizio specifico in tale senso, dovendo essere disattesa la denunciata mancata assistenza all'accordo di un rappresentante sindacale neppure conosciuto dal lavoratore, sul rilievo della sottoscrizione dell'accordo, senza alcuna eccezione alla presenza del sindacalista delegato (comportante implicito conferimento di un mandato) e della sua accettazione finale».Avverso la sentenza della Corte d'appello ricorreva il lavoratore davanti la Corte di Cassazione deducendo che l'accordo sindacale non fosse valido, essendo stato sottoscritto «in mancanza di una propria tutela effettiva da parte del rappresentante sindacale, essendo insufficiente la sola sua presenza senza neppure essersi personalmente conosciuti prima, né avere da lui ricevuto informazione del contenuto dell'accordo».La Corte di Cassazione decidendo come da massima sopra riportata rigetta il ricorso del lavoratore condannandolo alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio.

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