Contenzioso

Vecchi contratti a termine con la tutela dell’articolo 18

di Angelo Zambelli

Con sentenza pubblicata il 31 maggio 2021, il Tribunale di Milano ha disapplicato l’articolo 1, comma 2, del Dlgs 23/2015, perché ritenuto in contrasto con il diritto dell’Unione europea. Il comma 2 stabilisce che le tutele crescenti si applicano anche agli assunti con contratto a termine o di apprendistato prima del Jobs act e stabilizzati successivamente. Inoltre ha fornito un’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa nazionale, affermando che i lavoratori assunti a termine prima del 2015 e trasformati, dopo tale data, a tempo indeterminato non possono essere considerati “nuovi assunti” secondo e per gli effetti del Dlgs 23/2015, laddove la conversione del contratto non abbia «alcun effetto novativo».

Nel caso specifico si discuteva di un licenziamento collettivo impugnato da una lavoratrice che era stata assunta nel 2013 con un contratto a termine, poi volontariamente trasformato dalle parti a tempo indeterminato nell’aprile 2015.

Nella prima fase del rito Fornero, il Tribunale di Milano riteneva inammissibile il ricorso in virtù dell’articolo 1, comma 2, del Dlgs 23/2015, che estende la nuova disciplina in materia di licenziamenti anche ai casi di conversione del contratto a termine (o di apprendistato) in contratto a tempo indeterminato intervenuti dopo l’entrata in vigore del Dlgs (7 marzo 2015).

Nella seconda fase, invece, il medesimo Tribunale ha ritenuto applicabile la disciplina sostanziale dell’articolo 18 della legge 300/1970 e, quindi, anche il rito speciale regolato dall’articolo 1, commi 47 e seguenti, della legge 92/2012, sulla base di un complesso ragionamento logico-giuridico (la sentenza consta di ben 41 pagine).

In primo luogo, il giudice ha disapplicato l’articolo 1, comma 2, del Dlgs 23/2015 perché ritenuto in contrasto con il diritto comunitario, in particolare con il principio di non discriminazione dei lavoratori a termine rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato comparabili. Sul punto, occorre ricordare che la Corte di giustizia Ue, investita dal rinvio pregiudiziale disposto dal medesimo Tribunale di Milano, con la sentenza del 17 marzo 2021 ha espressamente statuito che il diritto europeo (in particolare la clausola 4 dell’Accordo collettivo quadro sul lavoro a termine del 18 marzo 1999 allegato alla direttiva 1999/70/Ce) deve essere interpretato nel senso che esso «non osta» a una normativa nazionale che estende un nuovo regime di tutela in caso di licenziamento collettivo illegittimo ai lavoratori il cui contratto a tempo determinato, stipulato prima della data di entrata in vigore di tale normativa, venga convertito in contratto a tempo indeterminato dopo tale data. Il Tribunale di Milano ha, però, ritenuto che tale statuizione sia solo «di principio» e che, in realtà, la Corte di giustizia abbia rimesso al giudice nazionale una serie di «accertamenti in concreto» al fine di valutare l’effettiva conformità della norma interna con il diritto della Ue.

In considerazione di ciò, il Tribunale di Milano ha affermato che non sussiste alcuna ragione oggettiva che giustifichi la differenza di trattamento a seconda del tipo negoziale (a termine o a tempo indeterminato) dell’originario contratto: l’introduzione di tutele più attenuate in caso di licenziamento illegittimo non sarebbe idonea a realizzare il dichiarato fine del Jobs act di incentivare le assunzioni a tempo indeterminato. In particolare, il Tribunale ha osservato che la normativa nazionale non ha «alcuna giustificazione razionale sul piano empirico» in quanto la «letteratura economica» non solo non ha mai evidenziato una correlazione tra riduzione delle tutele e incremento dell’occupazione, ma anzi l’ha espressamente esclusa (per esempio viene citato uno studio dell’Ocse nel 2016).

In conclusione, per il Tribunale di Milano la norma disapplicata, in virtù del mero tipo contrattuale in origine utilizzato dalle parti, finisce per generare una discriminazione nel livello di tutela che è in contrasto con il diritto europeo e, per questo, ha disapplicato il secondo comma dell’articolo 1 del Dlgs 23/2015 perché accorderebbe, sotto il profilo della disciplina dei licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta, tutele differenti a due lavoratori che hanno svolto le stesse mansioni in epoca antecedente all’introduzione della nuova disciplina solo perché uno dei due ha iniziato a lavorare in forza di un contratto a termine.

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