Contenzioso

Gli interventi nelle chat sono da considerare comunicazioni private

di Marisa Marraffino

A pesare sulla legittimità delle sanzioni disciplinari irrogate dalle aziende per i commenti scritti dai lavoratori sui social network è soprattutto il giudizio di proporzionalità. Si tratta di una valutazione complessa che deve basarsi sul corretto bilanciamento di una serie di elementi oggettivi e soggettivi che vanno dalla gravità dell’addebito al contesto, fino all’intensità del «profilo intenzionale» del lavoratore.

Un errore di valutazione potrebbe costare ugualmente al lavoratore la perdita del posto di lavoro e all’azienda un’indennità risarcitoria che va da 6 a 36 mensilità di retribuzione.

Attenzione, allora, a irrogare sanzioni disciplinari al dipendente che insulta il proprio datore di lavoro in una chat di colleghi. In questi casi, per la Cassazione, le espressioni rivolte a una chat sono comunicazioni private che escludono la volontà dei partecipanti di condividerle all’esterno e quindi deve prevalere l’esigenza di tutelare la segretezza della corrispondenza, dettata dall’articolo 15 della Costituzione (Corte di cassazione, sezione lavoro ordinanza 21965/2018).

Così un’azienda di Firenze ha dovuto indennizzare il lavoratore con 12 mensilità, annullando il licenziamento irrogato per aver condiviso in una chat tra colleghi su WhatsApp messaggi vocali riferiti al superiore gerarchico e ad altri colleghi, con contenuti offensivi, denigratori, minatori e razzisti. Per la Corte di appello di Firenze, anche per le frasi a contenuto minaccioso, vale lo stesso principio di diritto secondo il quale prevale la segretezza della corrispondenza privata, che denota la non volontarietà del lavoratore di rendere pubbliche le frasi oggetto di contestazione (sentenza 125 del 12 febbraio 2021).

Risultano inoffensive anche tutte le frasi generiche, senza riferimenti all’azienda o al proprio datore di lavoro. Così il dipendente che si limita a pubblicare commenti sul mobbing aziendale aggiungendo di «continuarlo a vivere», va esente da responsabilità se non fa alcun riferimento all’azienda di appartenenza, che non può desumersi da altri elementi (Tribunale di Taranto, sentenza 19375 del 6 luglio 2021).

Per i giudici, i social network sono luoghi dove possono facilmente essere pubblicate menzogne, soprattutto in ambito lavorativo.

Per questo non bastano a dimostrare l’infedeltà del lavoratore e lo svolgimento di attività retribuita per una diversa azienda i post nei quali il dipendente dichiari di trovarsi all’estero per lavoro mentre era assunto - con attività sospesa a causa della pandemia - da un’altra impresa di ristorazione.

Per i giudici, «i social network sono utilizzati, soprattutto nel mondo lavorativo, per pubblicizzare la propria attività professionale, fornendo un’immagine della propria persona e del proprio successo lavorativo spesso non corrispondenti al vero, proprio al fine di procurarsi delle occasioni di lavoro» (Tribunale di Roma, Sezione IV lavoro, sentenza 6569 del 7 luglio 2021).

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