Contenzioso

Il silenzio dell'amministratore sul compenso non significa rinuncia al dovuto

di Angelo Zambelli

Il silenzio o l'inerzia dell'amministratore, anche se prolungati nel tempo, da soli non sono sufficienti a integrare una effettiva rinuncia al compenso per la carica sociale svolta. È questo, in sintesi, quanto affermato dalla Corte di cassazione con l'ordinanza 21172/2021.
Un dirigente, che accumulava su di sé anche la carica di amministratore delegato, è stato licenziato per giusta causa. Impugnato il licenziamento, ha rivendicato anche il pagamento di tutti gli emolumenti (mai corrisposti dalla società) per la carica sociale ricoperta per circa tre anni e mezzo.

Le domande del dirigente sono state rigettate sia in primo che in secondo grado. In particolare, la Corte d'appello di Bologna ha escluso il diritto al compenso sulla base del fatto che l'amministratore non solo non ha mai chiesto il pagamento degli emolumenti durante l'incarico, ma sembrava aver anche deciso, insieme agli altri componenti del Cda, di non riconoscere alcuna remunerazione per le cariche sociali, con conseguente presunzione della natura gratuita delle stesse e, comunque, rinuncia per fatti concludenti ai relativi compensi.

La Cassazione, dopo aver ribadito che il rapporto tra amministratore e società ha natura peculiare (rapporto societario) e che pertanto non può ricondursi a un rapporto di lavoro (nemmeno parasubordinato), ha affermato la legittimità sia dell'eventuale clausola statutaria che preveda la gratuità della carica sia dell'eventuale atto di rinuncia, espressa o tacita, al compenso.La Suprema corte ha però ricordato che per aversi rinuncia tacita è necessario un comportamento concludente del creditore che riveli, in modo univoco, l'effettiva e definitiva volontà dismissiva del diritto. Pertanto, al di fuori dei casi in cui vi sia un onere a far espressamente salvo il diritto, il silenzio o l'inerzia del creditore non possono essere interpretati come manifestazione (tacita) della volontà abdicativa, anche perché la rinuncia non può essere oggetto di mere presunzioni.

La differenza tra «silenzio giuridicamente rilevante» e «silenzio puro e semplice» (mera inattività non avente alcun rilievo) risiede, infatti, nella presenza di determinati fatti o situazioni che conducono le parti interessate ad attribuire alla condotta inattiva un «preciso significato» negoziale. Ciò può avvenire quando il comune modo di agire o la buona fede impongano il dovere di parlare oppure quando, avuto riguardo alla qualità delle parti e dei loro rapporti, il silenzio possa intendersi come adesione alla volontà altrui.

In conclusione, la rinuncia al compenso da parte dell'amministratore può certamente essere integrata da un comportamento concludente che riveli in modo univoco la volontà dismissiva, non essendo tuttavia sufficiente la mera inerzia o il silenzio. Per accertare l'avvenuta rinuncia è pertanto necessario desumere l'atto abdicativo non dalla semplice mancata richiesta dell'emolumento, ma da ulteriori circostanze di fatto che conferiscano un preciso significato negoziale al contegno tenuto.Per tali ragioni la Suprema corte ha cassato la sentenza di secondo grado e ha rinviato la causa alla Corte d'appello di Bologna che dovrà ora attenersi a tale principio di diritto

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