Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Riforma della sentenza di condanna del datore di lavoro
Cessione di ramo d'azienda
Clausola contrattuale che inibisce azioni sindacali
Condotta del lavoratore contraria al c.d. minimo etico
Demansionamento e onere della prova

Riforma della sentenza di condanna del datore di lavoro

Cass. Sez. Lav., ord. 8 luglio 2021, n. 19530

Pres. Negri Della Torre; Rel. Boghetich; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. V.I.

Sentenza di condanna del datore di lavoro – Riforma – Restituzione delle somme percepite dal lavoratore – Restituzione della somma netta – Necessità

In caso di riforma, totale o parziale, della sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento di somme a favore del lavoratore, il datore di lavoro ha diritto a ripetere quanto il lavoratore abbia effettivamente percepito e non può, invece, pretendere la restituzione di un importo al lordo delle ritenute fiscali.

NOTA

La Corte d'Appello di Roma confermava la sentenza del Tribunale di Teramo, che – in parziale accoglimento dell'opposizione proposta dal lavoratore avverso il decreto ingiuntivo avente ad oggetto la restituzione delle somme lorde percepite in esecuzione di una sentenza riformata – aveva condannato il lavoratore a restituire al datore di lavoro soltanto l'importo netto percepito.La società proponeva ricorso per Cassazione eccependo che il lavoratore-contribuente dovesse restituirle l'importo al lordo delle tasse in quanto unico soggetto legittimato a presentare istanza di rimborso all'erario.La Corte di cassazione rigetta il ricorso, confermando il principio più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui in caso di riforma della sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento di somme al lavoratore, quest'ultimo deve restituire soltanto quanto effettivamente percepito. Al contrario, il datore di lavoro non può pretendere la restituzione di un importo al lordo delle ritenute fiscali, che non sono mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente. Ciò in quanto, qualora un obbligo fiscale venga meno ex tunc a seguito della riforma della sentenza da cui è sorto tale obbligo, il diritto al rimborso fiscale spetta in via principale a chi ha effettuato il pagamento (Cass. 9753/2019, Cass. 19735/2019, Cass. 31039/2019). Inoltre, l'azione di restituzione proposta a seguito della riforma della sentenza che ha disposto un pagamento si collega a un'esigenza di riduzione in pristino della situazione patrimoniale anteriore alla sentenza medesima. Non può quindi modificarsi il principio per cui il solvens – datore di lavoro – non possa ripetere dall'accipiens ¬– lavoratore – più di quanto quest'ultimo abbia effettivamente percepito, con conseguente esclusione della possibilità di ripetere un importo al lordo delle ritenute fiscali, mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente (Cass. 1464/2012, Cass. 23093/2014).

Il principio invocato dalla società – secondo cui il debitore verso il fisco sarebbe il percettore del reddito e non il sostituto che esegua la ritenuta – riguarda esclusivamente i rapporti tra sostituto d'imposta, sostituito e fisco e non comporta che al lavoratore sostituito possa essere chiesta la restituzione di un importo versato dal sostituto d'imposta all'amministrazione finanziaria (Cass. 239/2006).

Cessione di ramo d'azienda

Cass. Sez. Lav., 12 luglio 2021, n. 19841

Pres. Raimondi; Rel. Patti; Ric. F. S.r.l. e Banca M.P.S. S.p.A; Controric. S.A. e altriTrasferimento di ramo d'azienda – Requisiti – Testo post riforma del D.Lgs. 276/2003 - Autonomia funzionale del ramo – Preesistenza del ramo – Necessità

Ai fini del trasferimento di ramo d'azienda previsto dall'art. 2112 cod. civ., rappresenta elemento costitutivo della cessione l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere - autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario - il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell'ambito dell'impresa cedente al momento della cessione, risultando, dunque, indispensabile il requisito della preesistenza alla cessione, anche dopo l'emendamento apportato all'art. 32 del D.lgs. 276/2003 al disposto dell'art. 2112 cod. civ.

NOTA

Con la sentenza in commento la Suprema Corte torna a pronunciarsi in tema di trasferimento di ramo d'azienda. In particolare, la fattispecie oggetto di giudizio riguarda una complessa operazione, nella quale, tra l'altro, veniva realizzata l'esternalizzazione da parte della Banca ricorrente di una serie di attività amministrative e di back office, con cessione degli addetti a tale servizio e mantenimento nella disponibilità della Banca cedente degli applicativi e delle infrastrutture di information technology. La Corte d'appello di Firenze, conformemente a quanto già statuito dal giudice di prime cure, escludeva che tale cessione integrasse un trasferimento di ramo d'azienda.Avverso tale sentenza proponevano ricorso per Cassazione sia la società cedente che la società cessionaria, denunciando entrambe, tra l'altro, la violazione dell'art. 2112 cod. civ., per aver escluso la sussistenza dei requisiti di "autonomia funzionale" e "preesistenza".La Suprema Corte ribadisce dapprima i consolidati limiti del sindacato di legittimità relativamente all'applicazione dell'art. 2112 cod. civ., osservando che «l'accertamento in concreto dell'insieme degli elementi fattuali idonei o meno a configurare la fattispecie legale tipica del trasferimento di ramo d'azienda, delineata in astratto dal comma 5 dell'art. 2112 c.c., implica prima una individuazione ed una selezione di circostanze concrete e, poi, il loro prudenziale apprezzamento, traducendosi in attività di competenza del giudice di merito, cui non può sostituirsi il giudice di legittimità» e che, pertanto, in sede di ricorso per cassazione, alla Corte non resta che accertare o un'errata ricognizione degli elementi legali identificativi del trasferimento del ramo d'azienda oppure l'omesso esame di un fatto decisivo per la decisione, ovvero, alternativamente, una motivazione che non renda percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l'iter logico seguito per la formazione del convincimento.Prosegue, poi, la Corte, operando una ricostruzione della giurisprudenza italiana e comunitaria in materia di cessione di ramo d'azienda e statuendo che la decisione della Corte territoriale risulta conforme a tale giurisprudenza. In particolare, la Suprema Corte si sofferma sulla ratio della disciplina comunitaria, come interpretata dalla stessa giurisprudenza europea, affermando che la stessa è volta a tutelare la continuità dei rapporti di lavoro esistenti nell'ambito di un'attività economica indipendentemente dal cambiamento del proprietario. Viene, altresì, richiamata la giurisprudenza che conferma l'esclusone dell'operatività dell'art. 2112 cod. civ., nella sua formulazione successiva al 2003, tra l'altro, per «la mancata cessione dei programmi e dei sistemi informatici che venivano utilizzati dai dipendenti prima dello scorporo». Si ricorda, poi, che nel caso di cessioni di rami aziendali "dematerializzati" o "leggeri" dell'impresa, nei quali il fattore personale sia preponderante rispetto ai beni, occorre verificare quando il gruppo di lavoratori trasferiti sia dotato «di un comune bagaglio di conoscenze, esperienze e capacità tecniche, tale che proprio in virtù di esso sia possibile fornire lo stesso servizio"».Infine, la Corte di Cassazione ribadisce che l'elemento costitutivo rappresentato dall'autonomia funzionale del ramo d'azienda ceduto deve esser letto in reciproca integrazione con il requisito della preesistenza di esso, «nel senso che il ramo ceduto deve avere la capacità di svolgere autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario il servizio o la funzione cui esso risultava finalizzato già nell'ambito dell'impresa cedente anteriormente alla cessione».Alla luce di tale disciplina, la Suprema Corte rigetta i ricorsi proposti dalle società cedente e cessionaria e evidenzia la correttezza della ricostruzione operata dalla Corte d'appello fiorentina che, ai fini della valutazione della sussistenza del ramo d'azienda ex art. 2112 cod. civ., ha tenuto in considerazione elementi quali il mancato trasferimento al cessionario della proprietà di beni strumentali, la professionalità dei lavoratori ceduti, la condizione di monocommittenza, la conservazione della collocazione territoriale e l'eterogeneità dei servizi ceduti.

Clausola contrattuale che inibisce azioni sindacali

Cass. S. U., 21 luglio 2021, n. 20819

Pres. Curzio; Rel. Tricomi; P.M. Visonà; Ric. R.; Controric. F.

Settore trasporto aereo – Clausola contrattuale che inibisce azioni sindacali – Condotta discriminatoria – Sussistenza – Configurabilità – Risarcimento danni non patrimoniali – Sussistenza

È discriminatoria, in quanto antisindacale, la condotta della società che ha inserito nel contratto di lavoro del personale di cabina degli aeromobili, una clausola (rubricata "Estinzione del contratto") volta a impedire interruzioni di lavoro o azioni sindacali collettive di qualsiasi tipo, pena l'annullamento e l'inefficacia del contratto e la perdita di qualunque incremento retributivo o indennitario o di cambio turno.NOTAUn'organizzazione sindacale ricorreva giudizialmente davanti al Tribunale di Bergamo al fine di ottenere l'accertamento del carattere discriminatorio di una clausola contrattuale contenuta nel CCNL irlandese applicato da un'azienda del trasporto aereo ai propri dipendenti, volta, da un lato, ad impedire al personale di cabina di effettuare qualunque azione sindacale e, dall'altro, a consentire alla società di annullare il contratto o bloccare gli incrementi retributivi in caso di azioni collettive di qualsiasi tipo. Il Tribunale di Bergamo accoglieva il ricorso, e dichiarando il carattere discriminatorio del comportamento tenuto dalla società in relazione alla suddetta clausola contrattuale e alle suddette condotte, la condannava a corrispondere all'organizzazione sindacale l'importo di euro 50.000 a titolo di risarcimento del danno. La società, pertanto, adiva la Corte d'Appello di Brescia, la quale rigettava il ricorso, ritenendo la predetta clausola lesiva delle prerogative e dei diritti sindacali riconosciuti sia dal legislatore italiano che da quello comunitario.Avverso la sentenza della Corte d'appello ricorreva la società davanti la Corte di Cassazione. Quest'ultima rileva preliminarmente che devono essere considerate illegittime tutte le clausole che scoraggiano, direttamente od indirettamente, l'adesione dei dipendenti al sindacato. Secondo i Giudici di legittimità, la condotta del datore che non assume soggetti iscritti ad un sindacato o riserva loro un trattamento deteriore rispetto ai colleghi, comporta una violazione che ricade sull'autonomia collettiva e sulle relazioni industriali oltre che sull'autonomia negoziale e del rapporto di lavoro. Secondo gli ermellini, infatti, la libertà sindacale trova tutela sia a livello costituzionale che comunitario, rientrando nelle convinzioni personali, le quali quindi non possono costituire fattore di discriminazione. Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso della società, condannandola a pagare i danni non patrimoniali ed a cessare l'illecita condotta.

Condotta del lavoratore contraria al c.d. minimo etico

Cass. Sez. Lav., ord. 9 luglio 2021, n. 19588

Pres. Negri Della Torre; Rel. Boghetich; Ric. C.A.; Contr. B. S.p.A.

Licenziamento – Giusta causa – Direttrice di banca – Operazioni irregolari – Condotte contrarie al minimo etico – Previsione nel codice disciplinare – Assenza – Irrilevanza

La predeterminazione dell'illecito e l'affissione del codice disciplinare sono superflue nelle ipotesi di comportamento del lavoratore contrario al c.d. minimo etico, essendo in tal caso la condotta addebitata immediatamente percepibile dal dipendente come illecita.

NOTA

La Corte d'Appello di Ancona confermava la sentenza resa dal Tribunale di Pesaro con cui era stata rigettata la domanda di annullamento del licenziamento per giusta causa intimato dalla società datrice di lavoro ad una dipendente, la quale aveva posto in essere – in qualità di direttrice di filiale – numerose operazioni irregolari in posizione di conflitto di interessi senza effettuare le dovute valutazioni ai fini della normativa antiriciclaggio. In particolare, la Corte territoriale riteneva che le condotte della lavoratrice erano connotate da intenzionalità finalisticamente orientata a mettere all'incasso polizze assicurative di una cliente mediante la modifica del beneficiario delle polizze, così procurando un ingiusto profitto alla propria madre.Conclusivamente, riteneva inadempiente la condotta della lavoratrice rispetto ai generali obblighi di diligenza, correttezza, buona fede previsti dal codice civile, anche in considerazione del ruolo professionale rivestito dalla stessa e del conseguente, più intenso, vincolo fiduciario con il datore di lavoro. Avverso tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione sotto svariati profili, lamentando, in particolare, da un lato, che il codice etico della società prevedeva esclusivamente precetti senza alcuna correlazione con le sanzioni disciplinari, dall'altro lato, la violazione della norma (art. 7, comma 1, L. 300/1970) che obbliga il datore di lavoro ad affiggere il codice disciplinare in luogo accessibile a tutti i dipendenti, mentre nella fattispecie era stato diffuso tra i dipendenti della società in via informatica, ma mai affisso.Per la Suprema Corte, i motivi di ricorso sono, in primo luogo, inammissibili mancando ogni riferimento alla ratio decidendi del provvedimento impugnato. Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti, il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta l'esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata e l'esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione. «Nel caso di specie – secondo la Cassazione – difetta la necessaria riferibilità delle censure alla motivazione della sentenza impugnata, in quanto la Corte territoriale non ha affermato che la ragione del licenziamento è da rinvenire nella violazione di prescrizioni specifiche, di natura tecnico-operativa, descritte nel codice etico, bensì ha ritenuto che la dipendente si era resa inadempiente ai generali obblighi di diligenza, correttezza, buona fede previsti dal codice civile».In ogni caso, nel merito, in relazione alla mancata correlazione tra infrazioni e sanzioni disciplinari all'interno del codice disciplinare, la Corte richiama il consolidato principio di diritto secondo il quale nelle ipotesi di condotta contraria al c.d. minimo etico, ossia quando la condotta addebitata sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, la predeterminazione dell'illecito e l'affissione del codice disciplinare sono superflue ai fini dell'eventuale irrogazione della sanzione disciplinare.

Conseguentemente il ricorso della lavoratrice viene dichiarato inammissibile.

Demansionamento e onere della prova

Cass. Sez. Lav., ord. 15 luglio 2021, n. 20253

Pres. Berrino; Rel. Patti; Ric. A S.p.a.; Controric. L.O.

Lavoratrice – Rientro dalla maternità – Assegnazione di mansioni inferiori –Riorganizzazione aziendale – Irrilevanza

Non è sufficiente, al fine di giustificare il demansionamento, la generica deduzione di una riorganizzazione aziendale. Quando il lavoratore alleghi un demansionamento riconducibile ad inesatto adempimento dell'obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2103 cod. civ., su quest'ultimo, infatti, incombe l'onere di provarne l'esatto adempimento o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova della sua giustificazione per il legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali – dimostrando l'inesistenza, all'interno del compendio aziendale, di altro posto di lavoro disponibile, equiparabile al grado di professionalità in precedenza raggiunto dal lavoratore – o disciplinari oppure, in base all'art. 1218 cod. civ., per impossibilità della prestazione derivante da una causa a sé non imputabile.

Demansionamento – Danno non patrimoniale – Danno in re ipsa – Esclusione –Specifica allegazione da parte del lavoratore – Necessità – Indizi gravi, precisi e concordanti – Sufficienza

In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne derivi, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale (cosiddetto danno in re ipsa), non potendo prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. La prova del danno spetta al lavoratore, il quale tuttavia non deve necessariamente fornirla per testimoni, potendo anche allegare elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, quali, ad esempio, la qualità e la quantità dell'attività lavorativa svolta, la natura e il tipo della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento o la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione

NOTA

La Corte di Appello di Venezia, confermando la sentenza del Tribunale di prime cure, accertava il diritto di una lavoratrice all'inquadramento superiore con decorrenza dal 18 giugno 1999 e al versamento da parte della società datrice delle relative differenze retributive, ed accertava altresì l'adibizione della medesima lavoratrice a mansioni dequalificanti rispetto alle precedenti dal 1 dicembre 2000 al novembre 2001, con conseguente condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, in favore della lavoratrice.

La Corte di Appello territoriale, scrutinate le risultanze istruttorie, ribadiva, in particolare, la spettanza alla lavoratrice, nella comparazione con il livello A1 di sua attribuzione, dell'inquadramento nel livello A del CCNL applicato e così pure del risarcimento del danno, liquidato in via equitativa, derivante dall'accertato demansionamento per l'assegnazione alla medesima, al rientro dal periodo di maternità, di compiti amministrativi di predisposizione di ordini di acquisto sotto la responsabilità di un collega. Tali ultimi compiti sono stati ritenuti deteriori rispetto a quelli precedentemente svolti dalla lavoratrice che, prima del congedo, era a capo di un servizio costituito da più uffici di cui aveva coordinato il personale.Avverso tale decisione, la società datrice ha proposto ricorso per cassazione, censurando in particolare la sentenza della Corte territoriale, in punto demansionamento, per due motivi, ossia: i) per non aver effettuato una verifica comparativa, sia sul piano oggettivo che soggettivo, delle mansioni in concreto svolte dalla lavoratrice prima e dopo il congedo per maternità e per non aver valutato che la diversa collocazione della lavoratrice derivava da una riorganizzazione aziendale programmata prima della sua gravidanza (come accertato all'esito dell'istruttoria); ii) per difetto di prova dell'esistenza di un danno non patrimoniale da dequalificazione della lavoratrice, non ricavabile automaticamente dalla sussistenza del demansionamento, ma da dimostrare nei suoi elementi costitutivi, e quindi nel suo collegamento causale con un pregiudizio specificamente allegato e provato sulla base di una pluralità di elementi.La Corte di Cassazione ritiene infondati entrambi i motivi.Sul primo, la Suprema Corte ribadisce innanzitutto il proprio orientamento secondo cui il divieto di variazione in peius, sancito dall'art. 2103 c.c. (nella formulazione precedente la modifica introdotta dall'art. 3 del d.lgs. n. 81/2015), esclude che «al prestatore di lavoro possano essere affidate, anche se soltanto secondo un criterio di equivalenza formale, mansioni sostanzialmente inferiori a quelle in precedenza disimpegnate, dovendo il giudice di merito accertare, in concreto, se le nuove mansioni siano aderenti alla competenza professionale specifica del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantiscano al contempo lo svolgimento e l'accrescimento delle sue capacità professionali» (Cass. 4 marzo 2014, n. 4989; Cass. 3 febbraio 2015, n. 1916) e che l'«equivalenza» debba essere valutata in concreto dal giudice di merito, al fine di verificare se le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza tecnico professionale acquisita dal dipende (Cass. 6 novembre 2018, n. 28240). Richiamati tali principi, la Suprema Corte rileva come il giudice del merito abbia, nel caso di specie, accertato il demansionamento della lavoratrice nella «concretezza delle mansioni svolte prima e dopo la sua assenza per maternità così come risultanti dalle risultanze istruttorie».Quanto poi alla ritenuta giustificazione del demansionamento derivante da ragione riorganizzativa aziendale, la Corte di Cassazione, enunciato il principio riportato nella massima, precisa che nel caso di un nuovo assetto organizzativo disposto dal datore di lavoro e di riclassificazione concordata con le organizzazioni sindacali «non sussiste violazione del divieto di dequalificazione qualora le mansioni del lavoratore, a seguito del riclassamento, non mutino rispetto al precedente inquadramento, poiché si realizza una violazione dell'art. 2103 c.c. solo se il dipendente venga adibito a differenti mansioni (quand'anche compatibili con la nuova classificazione, ma) incompatibili con la sua storia professionale» (Cass. 25 settembre 2015, n. 19037).Sul secondo motivo di ricorso, la Corte di Cassazione stabilisce, poi, che non vi sia stata nel caso di specie violazione dei principi - così come riportati nella massima - in materia di prova della risarcibilità del danno non patrimoniale derivante dal demansionamento.Ed infatti, sottolinea la Corte di Cassazione, il giudice del merito ha ritenuto la risarcibilità del danno in questione sulla base del «peggioramento della situazione lavorativa» della lavoratrice, traendola «in via presuntiva dalla privazione dei compiti di responsabilità e coordinamento del personale di cui la ricorrente era titolare prima dell'assenza dal servizio per maternità» e procedendo alla sua determinazione proporzionata sull'«entità del demansionamento».Sicchè, conclude la Corte di Cassazione, il giudice di merito, non ha ricavato l'esistenza del danno dalla sussistenza dell'inadempimento datoriale, ossia con la coincidenza del solo demansionamento, solo potenzialmente lesivo (e quindi: in re ipsa), ma da «plurimi» - e valutati come «gravi, precisi e concordanti» - «elementi indiziari» (qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta dal dipendente, natura e tipo di professionalità coinvolta e durata del demansionamento).Sulla base di tali argomentazioni, la Corte ha rigettato il ricorso.

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