Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

In tema di rinuncia al compenso dell'amministratore di società
Lavoro giornalistico e vincolo di subordinazione
Patto di non concorrenza, corrispettivo
Giusta causa di dimissioni e modello UNILAV
La quietanza liberatoria non ha valore di rinuncia

In tema di rinuncia al compenso dell'amministratore di società

Cass. Sez. Lav., 23 luglio 2021, n. 21172

Pres. Negri Della Torre; Rel. Boghetich; Ric. G.C.P.; Controric. I.K.I. S.r.l.

Amministratore di società – Diritto al compenso – Rinuncia – Comportamento concludente in senso abdicativo – Necessità – Nozione – Insufficienti silenzio o inerzia

La rinuncia al compenso da parte dell'amministratore può trovare espressione in un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua volontà dismissiva del relativo diritto; a tal fine è pertanto necessario che l'atto abdicativo si desuma non dalla semplice mancata richiesta dell'emolumento, quali che ne siano le motivazioni, ma da circostanze esteriori che conferiscano un preciso significato negoziale al contegno tenuto.

NOTA

La fattispecie oggetto dell'ordinanza in commento è inerente al licenziamento di un dirigente, anche amministratore delegato della società datrice di lavoro, che, oltre ad avere impugnato il licenziamento, ha rivendicato il diritto a ricevere un compenso per l'incarico di amministratore. La Corte d'Appello di Bologna respingeva la domanda osservando la sussistenza di elementi che facevano presumere la gratuità dell'incarico: (i) la mancata erogazione di un compenso per tutto il periodo di svolgimento dell'incarico (3 anni e mezzo), (ii) l'assenza di qualsivoglia richiesta da parte del ricorrente nello stesso periodo e (iii) quanto riferito da un teste in merito alla decisione del Consiglio di Amministrazione della società, alla presenza dell'interessato, di non prevedere una remunerazione.

Contro la suddetta decisione, il dirigente proponeva ricorso, affermando, per quanto concerne il diritto al compenso per l'incarico di amministratore, di non aver mai rinunciato a tale compenso.La Corte di Cassazione ha ritenuto fondate le doglianze del ricorrente su tale punto.In particolare, dapprima, la Suprema Corte ha ribadito la natura del rapporto di amministratore, di immedesimazione organica con la società. Poi ha affermato la possibilità per l'amministratore di rinunciare al compenso, anche non espressamente, purché con un comportamento concludente «che riveli in modo univoco la sua effettiva e definitiva volontà abdicativa».In merito alla nozione di "comportamento concludente", la Cassazione richiama i principi generali inerenti al silenzio: «affinché il silenzio possa assumere valore negoziale, occorre o che il comune modo di agire o la buona fede, nei rapporti instauratisi tra le parti, impongano l'onere o il dovere di parlare, o che, secondo un dato momento storico e sociale, avuto riguardo alla qualità delle parti e alle loro relazioni di affari, il tacere di una possa intendersi come adesione alla volontà dell'altra». Il silenzio o l'inerzia, dunque, in tali circostanze vengono ad assumere un preciso significato, per l'appunto, concludente.Alla luce di tali principi, la Suprema Corte ha evidenziato che erroneamente la Corte d'Appello di Bologna ha considerato significativa l'inerzia delle parti, durata 3 anni e mezzo, e l'asserita decisione del CdA di non specificare nulla sul compenso di amministratore, poiché in questo caso, la condotta meramente omissiva del ricorrente non poteva assumere il significato di una manifestazione di volontà.

Conseguentemente la Corte ha cassato la sentenza e rinviato le parti alla Corte di Appello di Bologna in diversa composizione.

Lavoro giornalistico e vincolo di subordinazione

Cass. Sez. Lav., 29 luglio 2021, n. 21793

Pres. Negri Della Torre; Rel. Garri; Ric. F.E. S.p.A.; Controric. G.I.

Lavoro giornalistico – Accertamento natura subordinata – Collaboratore fisso – Condizioni – Continuità – Responsabilità del servizio – Vincolo di dipendenza – Nozioni – Fattispecie: addetta alla cronaca locale

Nell'ambito del lavoro giornalistico per la figura del collaboratore fisso rileva la continuità dell'apporto, limitato, di regola, ad offrire servizi inerenti ad un settore informativo specifico di competenza. Essa va intesa come (i) svolgimento di un`attività - non necessariamente quotidiana - ma non occasionale, rivolta ad assicurare le esigenze formative e informative di uno specifico settore a cui si affianca (ii) la responsabilità di un servizio, che implica la sistematica redazione di articoli su specifici argomenti o rubriche e (iii) il vincolo di dipendenza, per effetto del quale l'impegno del collaboratore di porre la propria opera a disposizione del datore di lavoro permane anche negli intervalli fra una prestazione e l`altra.

NOTA

La Corte d'Appello di Trieste, in parziale accoglimento del ricorso proposto da una lavoratrice ed in riforma della sentenza del Tribunale, accertava la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ai sensi dell'art. 2 del CCNL FNSI (Federazione Nazionale Stampa Italiana), alle dipendenze della Società e dichiarava nulla la domanda di condanna al pagamento delle differenze retributive. In particolare, la Corte di merito accertava che, nel periodo in contestazione, la lavoratrice aveva seguito con continuità la cronaca locale, cittadina e del territorio del Carso, avendo la responsabilità del settore del quale aveva assicurato, per la durata del rapporto, la copertura.La Società ha chiesto la cassazione della sentenza per violazione e falsa applicazione dell'art. 2094 c.c. Ad avviso della ricorrente, infatti, «nel rapporto intercorso tra le parti non erano ravvisabili indici rivelatori della subordinazione, sia in generale che con specifico riguardo all'attività giornalistica. La resistente lavorava in maniera discontinua con un impegno circoscritto nel tempo; non aveva mai dovuto garantire la presenza tra una prestazione e l'altra né assicurare la reperibilità; non doveva chiedere le ferie. In definitiva non era assoggettata al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro».

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso sulla base dei consolidati arresti giurisprudenziali di legittimità secondo i quali, «nell'ambito del lavoro giornalistico per la figura del collaboratore fisso rileva la continuità dell'apporto limitato, di regola ad offrire servizi inerenti ad un settore informativo specifico di competenza. Essa va intesa come "svolgimento di un'attività non occasionale, rivolta ad assicurare le esigenze formative e informative di uno specifico settore" a cui si affianca la "responsabilità di un servizio, che implica la sistematica redazione di articoli su specifici argomenti o rubriche" e il "vincolo di dipendenza, per effetto del quale l'impegno del collaboratore di porre la propria opera a disposizione del datore di lavoro permane anche negli intervalli fra una prestazione e l'altra"». La Corte ha poi specificato che sussiste "continuità di prestazione" allorquando il collaboratore fisso, pur non dando opera quotidiana, assicuri, in conformità del mandato, una prestazione non occasionale, rivolta a soddisfare le esigenze formative o informative riguardanti uno specifico settore di sua competenza; "vincolo di dipendenza" allorquando l'impegno del collaboratore fisso di porre a disposizione la propria opera non venga meno tra una prestazione e l'altra in relazione agli obblighi degli orari, legati alla specifica prestazione e alle esigenze di produzione, e di circostanza derivanti dal mandato conferitogli; "responsabilità di servizio" allorquando al predetto collaboratore fisso sia affidato l'impegno di redigere normalmente e con carattere di continuità articoli su specifici argomenti o compilare rubriche.Orbene la Corte territoriale ha rigettato il ricorso in quanto, sulla base dei fatti risultati dimostrati nel corso dell'istruttoria, ha accertato la sussistenza di tutti gli indici summenzionati ed in particolare che «le modalità, con le quali si era svolta la prestazione, rivelavano la disponibilità della lavoratrice anche negli intervalli di tempo non lavorati».

Patto di non concorrenza, corrispettivo

Cass. Sez. Lav., 4 agosto 2021, n. 22247

Pres. Berrino; Rel. Cinque; Ric. S.W.E.; Controric. G.B.L. S.p.A.

Patto di non concorrenza – Corrispettivo – Congruità – Necessità – Erogazione del corrispettivo in corso di rapporto – Legittimità

Al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza disciplinato dall'art. 2125 cod. civ. occorre osservare i seguenti criteri: a) il patto non deve necessariamente limitarsi alle mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto, ma può riguardare qualsiasi prestazione lavorativa che possa competere con le attività economiche svolte dal datore; b) non deve essere di ampiezza tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in termini che ne compromettano ogni potenzialità reddituale; c) quanto al corrispettivo dovuto, il patto non deve prevedere compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall'utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato; d) il corrispettivo del patto di non concorrenza può essere erogato anche in corso del rapporto di lavoro.

NOTA

La Corte di appello di Milano confermava la sentenza del Tribunale di Milano che aveva accertato la violazione del divieto di storno e del patto di non concorrenza da parte di un dirigente, con mansioni di «Senior Private Banker Relazioni Corporate», nei confronti della banca, ex datrice di lavoro, e, per l'effetto, lo aveva condannato a corrispondere a quest'ultima la penale di euro 287.103,00 per ciascuna violazione del divieto di storno e del patto di non concorrenza e a restituire il corrispettivo percepito per il patto suddetto, pari ad euro 48.373,99.Avverso la sentenza della Corte d'appello ricorreva il dirigente davanti la Corte di Cassazione, impugnando la validità del patto di non concorrenza.

La Corte di legittimità, sulla base della massima sopra riportata, rigetta il ricorso del dirigente, ritenendo che le condizioni del patto di non concorrenza stipulato tra il dirigente e la precedente datrice di lavoro non avevano compresso la capacità professionale del lavoratore e la correlata capacità del dirigente di procurarsi un reddito adeguato, considerati: l'esigua durata del patto di non concorrenza (tre mesi); la consistente entità del corrispettivo del patto (16.000,00 euro al mese, per un totale di euro 48.000,00 pari al 60% dell'ultima retribuzione annuale); la sua estensione territoriale, dalla quale esulavano numerosi stati europei. La Cassazione conferma quindi la conclusione cui era giunta la Corte territoriale secondo la quale «il patto di non concorrenza era stato validamente stipulato perché non appariva sostenibile che il mancato svolgimento delle attività contemplate dalla clausola in esame, per soli tre mesi, nelle nazioni indicate nel patto (Italia, Francia, Svizzera, Spagna Germania, Principato di Monaco; Rep. di San Marino, Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi), a fronte di un corrispettivo di euro 16.000,00 al mese, avesse potuto privare il dirigente dei mezzi di sussistenza o lederne in modo esorbitante la professionalità».

Giusta causa di dimissioni e modello UNILAV

Cass. Sez. Lav., 5 agosto 2021, n. 22365

Pres. Berrino; Rel. Arienzo; Ric. C.F.; Contr. C.P.

Dimissioni – Giusta causa – Contestazione da parte del datore – Trattenuta del preavviso – Legittimità – Indicazione nell'UNILAV – Irrilevanza – Accertamento giudiziale della giusta causa – Onere del lavoratore – Sussistenza

Qualora il datore di lavoro ritenga che non sussistano ragioni per una giusta causa di dimissioni del lavoratore, può procedere indicando comunque, all'interno del modello UNILAV, la motivazione "dimissioni per giusta causa" invocata dal lavoratore (tale indicazione, infatti, non è in alcun modo vincolante), o comunicare agli Enti competenti che a suo avviso esse debbano essere intese quali comuni dimissioni volontarie, affinché non eroghino prestazioni a sostegno del reddito. Il lavoratore deve, invece, ricorrere in giudizio per accertare la giusta causa e, solo qualora il giudice dichiari la sussistenza della giusta causa di dimissioni, il datore di lavoro sarà tenuto a corrispondere l'indennità sostitutiva del preavviso al lavoratore.

NOTA

La Corte d'Appello di Salerno riformava la sentenza resa dal Tribunale del medesimo luogo con cui era stata rigettata l'opposizione, interposta dal datore di lavoro, avverso il decreto ingiuntivo con il quale gli era stato ingiunto il pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso in favore della ex dipendente dimessasi per giusta causa.In particolare, la Corte territoriale, per quel che rileva, riteneva erronea la decisione del giudice di prime cure per aver statuito che il datore di lavoro aveva indebitamente trattenuto l'indennità sostitutiva del preavviso dalle spettanze di fine rapporto corrisposte alla dipendente, a seguito della cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni della lavoratrice, indicate nel modello UNILAV per "giusta causa" (e non convalidate in sede di Ispettorato Territoriale del Lavoro stante l'assenza della lavoratrice all'incontro fissato dall'Ispettorato).Avverso tale decisione la dipendente ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione sotto svariati profili, lamentando, in particolare, che il Collegio salernitano aveva errato nell'attribuire all'inerzia della lavoratrice, rispetto all'invito per la convalida formulato dal datore di lavoro, il significato di considerare cessato il rapporto di lavoro.Per la Suprema Corte, il ricorso della lavoratrice non merita accoglimento.La Cassazione, richiamando la normativa di riferimento, afferma che, nel caso in cui il lavoratore non proceda alla convalida presso l'Ispettorato Territoriale del Lavoro o il Centro per l'Impiego o alla sottoscrizione della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro, questo si intende risolto qualora il lavoratore: 1) non aderisca, entro 7 giorni dalla ricezione, all'invito a presentarsi presso l'ITL o il CPI; 2) non aderisca, entro 7 giorni dalla ricezione, all'invito ad apporre la predetta sottoscrizione, trasmesso dal datore di lavoro, tramite comunicazione scritta; 3) non effettui la revoca delle dimissioni entro 7 giorni.«Il datore di lavoro – chiarisce la Suprema Corte – qualora ritenga, come nella specie, che non sussistano ragioni per una giusta causa di dimissioni del lavoratore, può procedere indicando comunque in UNILAV la motivazione "dimissioni per giusta causa" invocata dal lavoratore (tale indicazione, infatti, non è in alcun modo vincolante), o comunicare agli Enti competenti che a suo avviso esse debbano essere intese quali comuni dimissioni volontarie, affinché non eroghino prestazioni a sostegno del reddito».La Cassazione, inoltre, precisa che «il lavoratore dovrà ricorrere in giudizio per accertare la giusta causa e, solo qualora il giudice dichiari la sussistenza della giusta causa di dimissioni, il datore di lavoro sarà tenuto a corrispondere l'indennità sostitutiva del preavviso al lavoratore».Con riferimento al caso di specie, secondo la Suprema Corte il predetto accertamento e la relativa indennità non sono stati richiesti giudizialmente dalla lavoratrice e la ricostruzione effettuata dalla Corte salernitana, quindi, risulta immune da qualsivoglia vizio logico-giuridico.Conclusivamente, il ricorso della lavoratrice viene rigettato.

La quietanza liberatoria non ha valore di rinuncia

Cass. Sez. Lav., 4 agosto 2021, n. 22245

Pres. Berrino; Rel. Lorito; Ric. L.E., L.R.; Controric. G.G.

Differenze retributive – Quietanza liberatoria – Valenza transattiva/abdicativa – In generale – Esclusione

La quietanza liberatoria rilasciata a saldo di ogni pretesa costituisce, di regola, una semplice manifestazione del convincimento soggettivo dell'interessato di essere soddisfatto di tutti i suoi diritti, e pertanto concreta una dichiarazione di scienza priva di alcuna efficacia negoziale in quanto le enunciazioni onnicomprensive sono assimilabili alle clausole di stile e non sono di per sé sufficienti a comprovare l'effettiva sussistenza di una volontà dispositiva dell'interessato. Solo nel caso in cui, per il concorso di particolari elementi di interpretazione contenuti nella stessa dichiarazione, o desumibili aliunde, risulti che la parte l'abbia resa con la chiara e piena consapevolezza di abdicare o transigere su propri diritti, nella dichiarazione liberatoria possono essere ravvisati gli estremi di un negozio di rinunzia o transazione in senso stretto

NOTA

Un lavoratore agiva in giudizio per ottenere il pagamento di differenze retributive maturate, nel corso del rapporto con il proprio datore, per lo svolgimento delle mansioni di pasticciere. Il Giudice di prime cure e la Corte d'appello di Messina accoglievano la domanda attorea e condannavano il datore al pagamento delle differenze retributive.A fondamento del decisum la Corte distrettuale ribadiva la applicabilità al rapporto di lavoro oggetto di scrutinio, del CCNL settore Turismo pubblici esercizi, essendo stato acclarato che il lavoratore svolgeva sia attività di laboratorio che di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, attività quest'ultima non compatibile con la definizione di impresa artigiana e la consequenziale disciplina contrattual-collettiva ritenuta applicabile dal datore di lavoro, la quale concerneva invece, esclusivamente le attività d'impresa che avessero ad oggetto la produzione di beni, prestazioni o servizi.La Corte condivideva quindi, gli approdi ai quali era pervenuto il giudice di prima istanza in tema di accertamento di tempi e modi di erogazione della prestazione lavorativa e, soprattutto, reputava privo di valenza abdicativa dei diritti azionati l'atto di quietanza liberatoria sottoscritto dal lavoratore al momento di cessazione del rapporto.Avverso tale decisione gli eredi del datore di lavoro presentavano ricorso per Cassazione affidato, per quel che qui rileva, ad un unico motivo.In particolare, secondo i ricorrenti, la Corte territoriale aveva erroneamente ritenuto che la quietanza liberatoria versata in atti non avesse valore di rinuncia all'esperimento di ogni ulteriore azione nascente dal rapporto di lavoro intercorso fra le parti.

Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte considera il motivo privo di fondamento.Secondo il Collegio, infatti, del tutto correttamente la Corte territoriale, in adesione a quanto già ritenuto dal Tribunale, ha escluso che il lavoratore, con la sottoscrizione dell'atto di quietanza, avesse inteso rinunciare ad esperire ogni altra azione in ordine a pretese nascenti dal rapporto, ritenendo che il documento non rivestisse valenza diversa rispetto ad una mera dichiarazione di scienza.Tanto, peraltro, in sintonia con la consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui la quietanza liberatoria rilasciata a saldo di ogni pretesa costituisce, di regola, una semplice manifestazione del convincimento soggettivo dell'interessato di essere soddisfatto di tutti i suoi diritti, e pertanto concreta una dichiarazione di scienza priva di alcuna efficacia negoziale in quanto enunciazioni onnicomprensive sono assimilabili alle clausole di stile e non sono di per sé sufficienti a comprovare l'effettiva sussistenza di una volontà dispositiva dell'interessato.Secondo la S.C., solo nel caso in cui, per il concorso di particolari elementi di interpretazione contenuti nella stessa dichiarazione, o desumibili aliunde, risulti che la parte l'abbia resa con la chiara e piena consapevolezza di abdicare o transigere su propri diritti, nella dichiarazione liberatoria possono essere ravvisati gli estremi di un negozio di rinunzia o transazione in senso stretto; ipotesi questa, non riscontrata dal Collegio del merito nella fattispecie.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©