Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento disciplinare
Rifiuto di riprendere il lavoro senza visita medica preventiva e licenziamento
Principio di immediatezza della contestazione disciplinare
Trasferimento d'azienda illegittimo e somme spettanti al lavoratore
Corrispettivo del patto di non concorrenza

Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav., 5 agosto 2021, n. 22367

Pres. Berrino; Rel. Arienzo; Ric. C.P.; Controric. U. S.p.A.

Licenziamento disciplinare – Fattispecie: dipendente di banca che effettua prelievi di contanti falsificando la firma di un cliente – Indagini interne (audit) – Legittimità – Procedura disciplinare – Applicazione – Necessità – Confessione del lavoratore – Violazione art. 7 L. 300/1970 – Esclusione

In tema di licenziamenti (come di altre sanzioni) disciplinari, non sono illegittime le indagini preliminari del datore di lavoro - volte ad acquisire elementi di giudizio necessari per verificare la configurabilità (o meno) di un illecito disciplinare e per identificarne il responsabile – purché all'esito delle stesse il datore proceda (ai sensi dell'art. 7, commi 2 e 3, della legge n. 300 del 1970) alla rituale contestazione dell'addebito, con possibilità per il lavoratore di difendersi anche con l'assistenza dei rappresentanti sindacali.

NOTA

La Corte d'Appello di Roma rigettava il gravame proposto dal lavoratore avverso la sentenza del Tribunale di Latina, che aveva dichiarato la legittimità del licenziamento disciplinare intimatogli dalla datrice di lavoro in conseguenza di «una serie di operazioni di prelevamento di contanti poste in essere dal C. e da quest'ultimo contabilizzate falsificando la firma di un cliente».In sostanza la Corte territoriale riteneva che «non era necessario, per attribuire valore alla dichiarazione confessoria di addebito resa dal dipendente, che la contestazione disciplinare fosse stata già effettuata, in quanto la liceità del comportamento della banca era aderente ai principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui non erano da considerare illegittime, in tema di licenziamenti o di altre sanzioni, le indagini preliminari svolte per acquisire elementi di giudizio necessari per verificare la possibilità di configurare un illecito disciplinare ed identificarne il responsabile, finalizzate alla rituale contestazione dell'addebito», considerando anche che «sempre in ambito giurisprudenziale, era stata sancita la possibilità, nel corso di indagini preliminari dirette ad accertare la commissione di un illecito disciplinare, di acquisire una confessione spontanea da parte del datore in mancanza di preventiva contestazione dell'addebito».Il lavoratore impugnava la sentenza di secondo grado in Cassazione.La Suprema Corte rigetta il ricorso del dipendente ritenendo che il datore di lavoro possa utilizzare il materiale istruttorio acquisito durante le indagini preliminari e che si debba conferire piena validità alla dichiarazione confessoria resa dal lavoratore durante tali indagini, in particolare nel caso in esame anche in considerazione «delle dichiarazioni di due testi che avevano riferito che lo stesso aveva ammesso i fatti dopo avere visionato la documentazione rilevante e dopo una riflessione di circa trenta minuti, che ne denotava la consapevolezza e ponderazione».In sostanza la Corte di Cassazione sostiene che «qualora, in sede di indagini preliminari dirette ad accertare la commissione di un illecito disciplinare, il datore di lavoro riceva la spontanea confessione da parte del lavoratore, non si verifica alcuna violazione dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970 in ordine alla preventiva contestazione dell'addebito, atteso che detto atto presuppone la conoscenza dei fatti e l'individuazione del soggetto cui attribuirli e non può, quindi, precedere, ma solo, eventualmente, seguire il compimento e la valutazione degli accertamenti preliminari; ne consegue che deve escludersi che l'avvio delle indagini preliminari, nel corso delle quali venga convocato il lavoratore, valga ad integrare anche l'inizio del procedimento disciplinare a carico dello stesso (V. Cass. 20.1.2003 n. 772, cui è conforme anche la successiva Cass. 15.5.2006 n. 11100)».

Rifiuto di riprendere il lavoro senza visita medica preventiva e licenziamento

Cass. Sez. Lav., 12 agosto 2021, n. 22819

Pres. Berrino; Rel. Ariento; Ric. A. F.; Controric. T. S.p.A.

Lavoratrice temporaneamente inidonea alla mansione – Assegnazione provvisoria a mansioni diverse – Ammissibilità – Malattia – Aspettativa per motivi di salute – Rifiuto di riprendere il lavoro senza visita medica preventiva – Licenziamento con preavviso – Legittimità – Ratio – Finalità del controllo medico

È legittimo il licenziamento disciplinare con preavviso, per assenza ingiustificata, della dipendente temporaneamente inidonea alla mansione che si rifiuti, dopo un periodo di aspettativa per motivi di salute, di presentarsi in azienda per eseguire altre mansioni provvisoriamente attribuitele, adducendo di dover essere prima sottoposta alla visita medica preventiva di cui all`art. 41, comma 2 lett. e-ter del D. Lgs. n. 81/2008. Secondo un`interpretazione conforme tanto alla formulazione letterale quanto alle finalità della norma, infatti, la ripresa del lavoro, rispetto alla quale la visita medica deve essere precedente, è costituita dalla concreta assegnazione del lavoratore alle medesime mansioni svolte in precedenza per le quali è stato dichiarato inidoneo (e rispetto alle quali può lecitamente astenersi ai sensi dell'art. 1460 c.c.) e non invece quando egli (come nella specie) sia stato adibito a svolgere temporaneamente altre attività.

NOTA

La Corte d'Appello di Roma respingeva il reclamo proposto da una lavoratrice avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva respinto l'opposizione proposta dalla predetta avverso l'ordinanza di rigetto della domanda intesa ad ottenere la declaratoria di nullità o di illegittimità del licenziamento con preavviso, intimatole per giustificato motivo soggettivo, in relazione all'assenza ingiustificata dal lavoro protrattasi per 10 giorni. La Corte rilevava, quanto alle doglianze della lavoratrice, secondo le quali non avrebbe potuto iniziare la prestazione lavorativa prima di essere sottoposta a visita medica prevista dall'art. 41, co.2, lett. e-ter) del D.Lgs. 81/2008, che quest'ultima integra un controllo che la legge non configurava come condicio iuris della ripresa dell'attività lavorativa e che la stessa andava attivata su iniziativa datoriale e non del lavoratore; aggiungeva che la finalità della visita era quella di evitare che la lavoratrice potesse riprendere a svolgere mansioni per le quali era stata giudicata temporaneamente inidonea e non a quelle provvisoriamente attribuitele. Concludeva quindi la Corte che «posto che la visita medica preventiva di cui all'art. 41 d.lgs. 81/2008 non costituiva condizione per la ripresa del lavoro, il rifiuto a riprendere l'attività lavorativa configurava un'assenza ingiustificata, rispetto alla quale la sanzione espulsiva era proporzionata».La lavoratrice ha impugnato la decisione chiedendone la cassazione per violazione e/o falsa applicazione dell'art. 41 del d.lgs. n. 81 del 2008, osservando che «la sorveglianza sanitaria da garantire da parte del datore di lavoro e del medico competente nominato dal primo comprende una serie di visite distinte per tipologia, tempistiche e contenuto e che la visita medica precedente alla ripresa del lavoro, che deve essere effettuata in caso di "assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi", è volta a verificare l'idoneità alle mansioni, e cioè, in primis, il ripristino dell'idoneità all'attività lavorativa in generale, e non alla mansione specifica».La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso sulla base dei consolidati arresti giurisprudenziali di legittimità secondo i quali «con riferimento ad una ipotesi di recesso per giusta causa in relazione ad analoga mancanza della lavoratrice ricorrente, "la norma va letta - secondo un'interpretazione conforme tanto alla sua formulazione letterale come alle sue finalità - nel senso che la "ripresa del lavoro", rispetto alla quale la visita medica deve essere "precedente", è costituita dalla concreta assegnazione del lavoratore, quando egli faccia ritorno in azienda dopo un'assenza per motivi di salute prolungatasi per oltre sessanta giorni, alle medesime mansioni già svolte in precedenza, essendo queste soltanto le mansioni, per le quali sia necessario compiere una verifica di "idoneità" e cioè accertare se il lavoratore possa sostenerle senza pregiudizio o rischio per la sua integrità psico-fisica». Nel caso di specie, tuttavia, la lavoratrice si è rifiutata di presentarsi in azienda adducendo di non poter riprendere la prestazione prima di essere sottoposta alla visita medica preventiva, ma certamente non le era consentito di astenersi anche dalla presentazione sul posto di lavoro, una volta venuto meno il titolo giustificativo della sua assenza. La Corte ha quindi affermato che «tale presentazione è da considerarsi momento distino dall'assegnazione alle mansioni, in quanto diretta a ridare concreta operatività al rapporto, e ben potendo comunque il datore di lavoro, nell'esercizio dei suoi poteri, disporre, quanto meno in via provvisoria e in attesa dell'espletamento della visita medica e della connessa verifica di idoneità, una diversa collocazione del proprio dipendente all'interno della organizzazione di impresa». Il licenziamento è pertanto legittimo in quanto l'assenza era a tutti gli effetti ingiustificata.

Principio di immediatezza della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav., 24 agosto 2021, n. 23332

Pres. Berrino; Rel. Piccone; P.M. Sanlorenzo; Ric. M.G.; Controric. V.d.G. S.r.l.

Contestazione disciplinare – Licenziamento – Immediatezza – Relatività – Conoscenza dei fatti solo a seguito di complessa indagine – Tardività – Esclusione

Il principio dell'immediatezza della contestazione dell'addebito deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti siano molto laboriosi e richiedano uno spazio temporale maggiore, e non potendo, nel caso in cui il licenziamento sia motivato dall'abuso di uno strumento di lavoro, ritorcersi a danno del datore di lavoro l'affidamento riposto nella correttezza del dipendente o equipararsi alla conoscenza la mera possibilità di conoscenza dell'illecito ovvero supporre una tolleranza dell'azienda a prescindere dalla conoscenza che essa abbia degli abusi del dipendente

NOTA

La Corte di Appello di Napoli, confermando integralmente la sentenza resa dal giudice di prime cure, ha giudicato legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato ad un dipendente (Direttore Amministrativo) che aveva compiuto una serie di irregolarità contabili mediante l'alterazione e la contraffazione di alcuni documenti e statini paga.In particolare, secondo la Corte distrettuale, la condotta del lavoratore, oltre a legittimare l'irrogazione della massima sanzione espulsiva ai sensi dell'art. 2119 c.c., era stata contestata tempestivamente dalla parte datoriale, nonostante il decorso di alcuni mesi dalla verificazione dei fatti, in ragione della complessità degli accertamenti svolti per addivenire alla contestazione degli inadempimenti rilevati.Avverso la predetta statuizione ha promosso ricorso per cassazione il lavoratore lamentando, principalmente, la violazione del principio di immediatezza della contestazione disciplinare e la conseguente tardività della reazione datoriale rispetto alla loro materiale verificazione.Ebbene, i giudici di legittimità, nel rigettare le doglianze promosse dal prestatore, hanno ribadito come: «l'immediatezza è un concetto relativo, nel senso che la valutazione deve tener conto della complessità del fatto e degli accertamenti nonché della complessità della struttura organizzativa dell'impresa datrice di lavoro».In altri termini, secondo la Corte di cassazione, è sempre ammissibile un lasso temporale più o meno lungo di tempo intercorrente tra la realizzazione dei fatti e la successiva contestazione disciplinare, in ragione di vari fattori (complessità delle indagini, ampiezza della struttura organizzativa, etc.) che richiedono, per forza di cose, una interpretazione elastica del principio di immediatezza previsto dalla normativa statutaria.

Trasferimento d'azienda illegittimo e somme spettanti al lavoratore

Cass. Sez. Lav., 6 agosto 2021, n. 22436

Pres. Berrino; Rel. Patti; Ric. D.S.; Controric. T.I. S.p.A.

Lavoro subordinato – Trasferimento d'azienda (nella specie ramo) – Illegittimità – Periodo successivo alla sentenza – Mancato ripristino del rapporto da parte del cedente – Offerta della prestazione da parte del lavoratore – Somme spettanti al lavoratore – Natura retributiva – Configurabilità – Applicazione aliunde perceptum – Esclusione – Svolgimento della prestazione presso il cessionario con pagamento delle retribuzioni – Irrilevanza

In caso di invalidità della cessione d'azienda (per mancanza dei requisiti richiesti dall'art. 2112 c.c.) il rapporto di lavoro non si trasferisce e resta nella titolarità dell'originario cedente. Resta, pertanto, fermo l'obbligo di quest'ultimo di pagare le retribuzioni al dipendente che gli abbia offerto la prestazione lavorativa dopo la dichiarazione giudiziale di illegittimità del trasferimento d'azienda, cui il cedente non abbia dato esecuzione, con conseguente inapplicabilità della detrazione dell'aliunde perceptum. Pertanto, le retribuzioni nelle more percepite presso il cessionario non hanno effetto estintivo delle obbligazioni del cedente.

NOTA

Nella fattispecie in esame la Corte d'Appello di Roma aveva dichiarato l'inammissibilità della domanda del lavoratore di condannare, all'esito della dichiarazione di illegittimità della cessione di ramo d'azienda nel quale lo stesso era stato coinvolto, la società cedente al pagamento delle retribuzioni dalla data del trasferimento sino alla data del ripristino del rapporto di lavoro, non ancora avvenuto nonostante la messa a disposizione delle energie lavorative da parte del lavoratore.La Corte d'Appello aveva ritenuto che in conseguenza della accertata nullità del trasferimento fosse proponibile da parte del lavoratore la sola domanda di risarcimento del danno, parametrato alle retribuzioni e con detrazione di quanto percepito medio tempore dal cessionario in virtù della prestazione lavorativa effettuata in favore dello stesso, e non la domanda di condanna retributiva nei confronti della cedente.Contro tale decisione proponeva ricorso in Cassazione il lavoratore sostenendo la erroneità della decisione della Corte d'Appello nella parte in cui aveva escluso la natura retributiva (anziché risarcitoria) della domanda del lavoratore al pagamento delle retribuzioni dovute dal cedente che - pur in presenza di messa a disposizione delle energie lavorative da parte del lavoratore - non abbia ripristinato il rapporto a seguito della dichiarazione di nullità del trasferimento d'azienda.La Suprema Corte ha accolto le censure e cassato la sentenza.In particolare la Suprema Corte ha dapprima rilevato che solo in caso di valido trasferimento d'azienda vi è continuità del rapporto di lavoro, che resta unico ed immutato e si trasferisce dal cedente al cessionario, mentre laddove questo sia dichiarato illegittimo il rapporto di lavoro non si trasferisce e resta nella disponibilità dell'originario cedente. Conseguentemente si creano due rapporti di lavoro, uno de iure con il cedente, ripristinato dalla dichiarazione di nullità del trasferimento, e l'altro de facto, derivante dallo svolgimento della prestazione in favore del cessionario.Pertanto al lavoratore di lavoro spetta la retribuzione sia da parte del cedente (sia se la prestazione è effettivamente resa, sia se questo si trovi in situazione di mora accipiendi per aver ingiustificatamente rifiutato le energie lavorative messe a disposizione dal lavoratore) sia da parte del cessionario (per il quale il lavoratore ha effettivamente svolto la prestazione). In tale situazione, precisa la Corte «così come la retribuzione corrisposta da ogni altro datore di lavoro presso il quale il lavoratore impiegasse le sue energie lavorative si andrebbe a cumulare con quella dovuta dall'azienda cedente, parimenti anche quella corrisposta da chi non è più da considerare cessionario, e che compensa un'attività resa nell'interesse e nell'organizzazione di questi, non va detratta dall'importo della retribuzione cui il cedente è obbligato». 

Corrispettivo del patto di non concorrenza

Cass. Sez. Lav., 25 agosto 2021, n. 23418

Pres. Balestrieri; Rel. Cinque; Ric. C.Z.; Controric. C. N.A.

Patto di non concorrenza – Validità – Condizioni – Oggetto – Corrispettivo – Pagamento in costanza di rapporto – Ammissibilità

Al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza disciplinato dall'art. 2125 cod. civ., occorre osservare i seguenti criteri: a) il patto non deve necessariamente limitarsi alle mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto, ma può riguardare qualsiasi prestazione lavorativa che possa competere con le attività economiche svolte da datore di lavoro, da identificarsi in relazione a ciascun mercato nelle sue oggettive strutture, ove convergano domande e offerte di beni o servizi identici o comunque parimenti idonei a soddisfare le esigenze della clientela del medesimo mercato; b) non deve essere di ampiezza tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in termini che ne compromettano ogni potenzialità reddituale; c) quanto al corrispettivo dovuto, il patto non deve prevedere compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall'utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato; d) il corrispettivo del patto di non concorrenza può essere erogato anche in corso del rapporto di lavoro.NOTALa Corte d'Appello di Milano, in riforma della pronuncia del Tribunale, aveva ritenuto valido il patto di non concorrenza che prevedeva un impegno del lavoratore – dirigente Private Banker – a non svolgere dopo la risoluzione del rapporto di lavoro, direttamente o per interposta persona, attività o mansioni di tipo analogo a quelle svolte precedentemente, per la durata di tre mesi e in determinate regioni del nord e centro Italia, ricevendo nel corso del rapporto di lavoro un corrispettivo per ogni anno di euro 10.000,00.Avverso tale decisione ha proposto ricorso per Cassazione il lavoratore lamentando, inter alia, la violazione e falsa applicazione dell'art. 2125 cod. civ., ritenendo che non vi fosse alcuna determinazione o determinabilità del compenso per il patto e perché era previsto un pagamento in costanza di rapporto.La Suprema Corte, enunciati i principi indicati nella massima, ribadisce in particolare l'orientamento secondo cui il corrispettivo del patto di non concorrenza possa validamente essere erogato anche nel corso del rapporto di lavoro (richiamando per tutte Cass. n. 3507 del 2001) e quello secondo cui «la valutazione di compatibilità del vincolo concernente l'attività con la necessità di non compromettere la possibilità del lavoratore di assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita come pure la valutazione della congruità del corrispettivo pattuito costituiscono oggetto di apprezzamento riservato al giudice del merito, come tale insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato» (Cass. n. 7835 del 2006).Richiamati tali principi, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, condividendo, in particolare, la decisione della Corte territoriale secondo cui il patto di non concorrenza contenuto nel contratto di assunzione non poteva considerarsi nullo sia in ordine alla aleatorietà sia sotto il profilo della congruità. Ed infatti, la Suprema Corte evidenzia come il giudice d'appello abbia correttamente ritenuto che l'importo del corrispettivo del patto di non concorrenza in questione era «facilmente determinabile» e che «il fatto che il compenso fosse stato previsto in costanza di rapporto e destinato ad aumentare con la durata dello stesso, meglio contemperava gli interessi di entrambe le parti posto che una più lunga permanenza in un posto di lavoro specializzante poteva rendere più difficile una nuova collocazione sul mercato e, quindi, idoneo a compensare il maggior sacrificio rispetto ad un rapporto di breve durata». Infine, rimarca la Suprema Corte condividendo l'esame effettuato dal giudice d'appello, la durata del vincolo in questione era molto contenuta e riguardava una estensione territoriale limitata solo ad alcune regioni.Per un commento si veda anche Guida al Lavoro n. 37/2021.

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