Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Orario di lavoro e clausola di accordo collettivo aziendale
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo/1
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo/2
Adesione implicita al contratto collettivo
Interposizione illecita di manodopera

Orario di lavoro e clausola di accordo collettivo aziendale

Cass. Sez. Lav., 13 ottobre 2021, n. 27920

Pres. Raimondi; Rel. Leo; PM Fresa; Ric. T.I. S.p.A.; Controric. S.S.Orario di lavoro – Tempo di spostamento tra il domicilio, la sede aziendale e le diverse località in cui il dipendente è inviato di volta in volta – Inclusione – Accordo collettivo aziendale – Clausola che neutralizza i tempi di spostamento – Nullità

Nel caso in cui il dipendente sia tenuto a spostarsi con l'auto aziendale verso la sede di lavoro e poi verso le diverse località alle quali sia destinato di volta in volta, è nulla la clausola dell'accordo collettivo aziendale secondo cui i tempi di spostamento con l'auto aziendale siano in parte neutralizzati dalla "franchigia" e quindi sottratti al computo dell'orario di lavoro. Si tratta, infatti, di una previsione in contrasto con la normativa inderogabile in materia di orario di lavoro e con la nozione di orario: il tempo necessario al dipendente per recarsi sul luogo di lavoro deve essere considerato lavorativo nel caso in cui lo spostamento sia funzionale rispetto alla prestazione.

NOTA

La Corte d'Appello di Ancona ha rigettato il gravame interposto dalla società nei confronti di un lavoratore avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede, con la quale – in accoglimento della domanda del lavoratore – era stata dichiarata la nullità dell'accordo collettivo aziendale nella parte in cui pone a carico del dipendente il periodo di franchigia di 15 o 30 minuti, sottraendoli al computo dell'orario di lavoro, con condanna della società a corrispondere al ricorrente le conseguenti differenze retributive. La Corte territoriale ha osservato che «il Tribunale, esaminate le clausole dell'accordo collettivo raffrontate alla normativa vigente, rilevato che i tempi di spostamento con l'autovettura aziendale sono in parte neutralizzati dalla c.d. "franchigia", ha ritenuto che tale regolamentazione contrattuale si fosse posta in contrasto con la normativa non derogabile dalle parti collettive a svantaggio del lavoratore in materia di orario di lavoro».Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società lamentando la violazione e falsa applicazione dell'art. 1, comma 2, del D.Lgs n. 66 del 2003 in relazione all'art. 2 n. 1 della Direttiva n. 93/104 e dell'art. 1375 c.c. In particolare, secondo la società, «la Corte territoriale sarebbe stata erroneamente indotta a ritenere che il tempo in cui il lavoratore si reca dalla propria abitazione al luogo di prima esecuzione della prestazione di lavoro e, viceversa, il tempo necessario per recarsi dal luogo dell'ultima attività al proprio domicilio siano tempo di lavoro, in cui cioè il lavoratore è a disposizione del datore di lavoro ai sensi dell'art. l c. 2 del D.lgs. n. 66/2003 e dell'art. 2 n. 1 della direttiva 93/104, senza considerare che le Direttive europee definiscono orario di lavoro "qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali"». La Corte di legittimità ha rigettato il ricorso affermando che «la decisione impugnata si pone in linea con gli ormai consolidati arresti giurisprudenziali di questa Corte, nella materia, del tutto condivisi da questo Collegio, che non ravvisa ragioni per discostarsene, secondo cui il tempo necessario al dipendente per recarsi sul luogo di lavoro deve essere considerato come lavorativo, nel caso in cui lo spostamento sia funzionale rispetto alla prestazione. La qual cosa si verifica nel caso di specie, in cui lo spostamento è, all'evidenza, funzionale rispetto alla prestazione, poiché il dipendente, obbligato a presentarsi presso la sede aziendale, è poi di volta in volta destinato in diverse località per svolgervi la sua prestazione lavorativa». Conclude la Corte rilevando che, come correttamente precisato dalla Corte d'Appello, «non può essere consentito alla contrattazione collettiva di neutralizzare, sia pure ai soli fini retributivi e contributivi, un periodo di lavoro in cui il dipendente sia stato effettivamente a disposizione del datore di lavoro e, dunque, sottoposto alla sua eterodirezione; periodo in cui, peraltro, il lavoratore non può sottrarsi all'obbligo di eseguire la prestazione che gli compete secondo buona fede e diligenza, in quanto rientrante, appunto anch'esso nell'esecuzione della prestazione lavorativa».

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo/1

Cass. Sez. Lav., 14 ottobre 2021, n. 28174

Pres. Berrino; Rel. Boghetich; Ric. P.R.; Controric. I.S. S.r.l.Art. 18

Fornero – Licenziamento per gmo – Illegittimità – Tutela applicabile – Art. 18 commi 4 e 7 – Manifesta insussistenza del fatto – Mancanza chiara ed evidente dei requisiti del recesso (ragioni e repêchage) – Accertamento – Necessità

L'insufficienza probatoria in ordine ai due requisiti costitutivi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo – ossia sussistenza della ragione inerente l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa e del nesso di causalità con il recesso intimato nonché adempimento dell'obbligo di "repêchage" – non è sussumibile nell'alveo della manifesta insussistenza del "fatto", contemplata dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 7, nella formulazione, modificata dalla L. n. 92 del 2012, ratione temporis che va riferita solo ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei presupposti di legittimità del recesso.

NOTA

La Corte di Appello di Reggio Calabria confermava il provvedimento reso dal giudice di prime cure nella parte in cui aveva concluso per l'illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo irrogato al dipendente, in ragione della crisi economico-finanziaria in cui versava l'azienda, condannando quest'ultima alla corresponsione della sanzione indennitaria cd. forte prevista dallo St. lav.Secondo la Corte distrettuale, la Società aveva commesso una chiara violazione dei criteri di buona fede e correttezza nella scelta dei lavoratori destinatari dei licenziamenti intimati rendendo, di fatto, i provvedimenti di recesso viziati. Tuttavia, alla dimostrazione del calo di fatturato da parte del datore, non poteva conseguire il ripristino del rapporto di lavoro richiesto ma la sola sanzione economica, non trattandosi di un fatto manifestatamente insussistente alla luce delle risultanze probatorie.Avverso la predetta statuizione ha promosso ricorso in Cassazione il lavoratore chiedendo, in sintesi, l'applicazione della tutela reale prevista dall'art. 18 St. lav., ritenendo equiparabile, l'insufficienza probatoria rispetto al presupposto causale del recesso (calo di fatturato), al concetto di «fatto manifestatamente insussistente», al quale la cd. riforma Fornero ha riconnesso l'effetto ripristinatorio.Nel rigettare il ricorso, la Corte di Cassazione ha ribadito come: «l'insufficienza probatoria in ordine ai due requisiti costitutivi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo – ossia sussistenza della ragione inerente l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa e del nesso di causalità con il recesso intimato nonché adempimento dell'obbligo di "repechage" – non è sussumibile nell'alveo della manifesta insussistenza del "fatto", contemplata dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 7, nella formulazione, modificata dalla L. n. 92 del 2012, ratione temporis che va riferita solo ad una evidente, e facilmente verificabile sul pianto probatorio, assenza dei presupposti di legittimità del recesso». Secondo i giudici di legittimità, inoltre: «la violazione dei criteri di correttezza e buona fede nella scelta tra lavoratori adibiti allo svolgimento di mansioni omogenee dà luogo alla tutela indennitaria, dovendosi escludere che ricorra, in tal caso, la manifesta insussistenza delle ragioni economiche poste a fondamento del recesso».

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo/2

Cass. Sez. Lav., 14 ottobre 2021, n. 28175

Pres. Berrino; Rel. Boghetich; Ric. I.S. S.p.A.; Controric. P.A.Lavoro subordinato – Licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo – Precedente licenziamento collettivo dichiarato illegittimo – Stesse motivazioni – Indici sintomatici di intento elusivo – Frode alla legge – Sussiste

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto per gli stessi motivi già addotti a fondamento di un precedente licenziamento collettivo dichiarato illegittimo realizza uno schema fraudolento ex art. 1344 c.c. il cui accertamento deve essere condotto dal giudice di merito in base a una valutazione unitaria di ulteriori indici sintomatici dell'intento elusivo, quali la mancata ottemperanza del datore all'ordine giudiziale di reintegra e la contiguità temporale del secondo recesso

NOTA

Nel caso di specie la Corte d'Appello di Milano aveva confermato la decisione del giudice di prime cure secondo cui il licenziamento individuale intimato al lavoratore era da considerarsi illegittimo in considerazione del fatto che le ragioni poste alla base dello stesso (ossia l'unificazione di due linee di vendita) erano le medesime di cui al precedente licenziamento intimato allo stesso lavoratore, all'esito di procedura di licenziamento collettivo, e dichiarato illegittimo.La Corte d'Appello, peraltro, aveva rilevato il carattere ritorsivo del licenziamento in quanto lo stesso era intervenuto a poche settimane dalla sentenza di reintegra per il primo licenziamento e poiché il posto del lavoratore risultava essere stato successivamente assegnato ad altro dipendente neo assunto.Contro la decisione della Corte d'Appello ha proposto impugnazione la società datrice di lavoro sulla base di vari motivi tra i quali, per quanto qui interessa, il fatto che la Corte avesse errato nel ritenere ricorrenti, nel licenziamento individuale del lavoratore, gli stessi motivi del licenziamento collettivo, in quanto la soppressione organizzativa sarebbe stata determinata proprio in conseguenza della riorganizzazione descritta nel collettivo e attuatasi a seguito del medesimo. In aggiunta la Corte, sempre secondo la società, avrebbe errato nell'esaminare il carattere ritorsivo del recesso prima di verificare la sussistenza dei motivi posti alla base dello stesso, posto che il licenziamento può essere dichiarato ritorsivo solo se tali motivi hanno avuto efficacia determinante esclusiva del recesso.La Suprema Corte ha respinto le censure e rigettato il ricorso.In particolare la Cassazione ha rilevato che i motivi alla base del licenziamento individuale erano i medesimi già dichiarati insussistenti in relazione al licenziamento collettivo precedentemente intimato al lavoratore e che, pertanto, fosse corretta la valutazione della Corte di merito secondo la quale – anche a seguito di una valutazione, unitaria e non atomistica, di ulteriori indici sintomatici dell'intento elusivo – il comportamento della società datrice di lavoro ha integrato uno schema fraudolento. Peraltro la Corte di Cassazione ha altresì confermato che la Corte territoriale ha correttamente fatto applicazione del principio per cui «in tema di licenziamento nullo perché ritorsivo, il motivo illecito addotto ex art. 1345 c.c. deve essere determinante e cioè costituire l'unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale», avendo essa prima verificato che effettivamente i fatti posti a fondamento del licenziamento fossero insussistenti (in quanto non derivanti da un fatto nuovo e autonomo ma corrispondenti agli stessi già posti a fondamento del licenziamento collettivo e comunque privi del necessario nesso causale con la posizione del lavoratore). A ciò si aggiunge che la Corte d'Appello aveva correttamente rilevato la sussistenza di ulteriori indici idonei a evidenziare l'intento elusivo del datore di lavoro.

Adesione implicita al contratto collettivo

Cass. Sez. Lav., 13 ottobre 2021, n. 27923

Pres. Berrino; Rel. Boghetich; PM Fresa; Ric. C.A. S.p.A.; Controric. G.V.

Efficacia soggettiva dei contratti collettivi – Mancata iscrizione all'associazione stipulante – Applicazione del contratto – Condizione – Adesione implicita/esplicita – Necessità – Poteri del giudice – Valutazione dei comportamenti delle parti – Necessità

I contratti collettivi postcorporativi di lavoro costituiscono atti aventi natura negoziale e privatistica, applicabili esclusivamente ai rapporti individuali intercorrenti fra soggetti che siano entrambi iscritti alle associazioni stipulanti ovvero che, in mancanza di tale condizione, abbiano espressamente aderito ai patti collettivi oppure li abbiano implicitamente recepiti attraverso un comportamento concludente desumibile da una costante e prolungata applicazione, senza contestazione alcuna, delle relative clausole al singolo rapporto. Ne consegue che, ove una delle parti faccia riferimento, per la decisione della causa, ad una clausola di un determinato contratto collettivo di lavoro, non efficace erga omnes, in base al rilievo che a tale contratto entrambe le parti si erano sempre ispirate per la disciplina del loro rapporto, il giudice del merito ha il compito di valutare in concreto il comportamento posto in essere dal datore di lavoro e dal lavoratore, allo scopo di accertare, pur in difetto della iscrizione alle associazioni sindacali stipulanti, se dagli atti siano desumibili elementi tali da indurre a ritenere ugualmente sussistente la vincolatività della contrattazione collettiva invocata.y

NOTA

Un lavoratore adiva l'autorità giudiziaria lamentando l'illegittima disapplicazione, da parte della società datoriale, del contratto integrativo interaziendale e in particolare della clausola relativa al pagamento di un premio di partecipazione. La Corte di appello di Roma, in riforma della pronuncia del Tribunale di Viterbo, accoglieva la domanda del lavoratore con conseguente condanna della società al pagamento della parte variabile del premio di partecipazione previsto nel contratto aziendale disapplicato.Secondo la Corte territoriale, infatti, dagli elementi istruttori, di fonte documentale, emergeva chiaramente che la società – anche dopo aver receduto dalla'associazione nazionale di rappresentanza datoriale - aveva continuato ad erogare ai lavoratori diverse voci retributive e/o incentivanti e/o indennitarie previste dal contratto integrativo interaziendale, sicché risultava illegittimo il rifiuto di pagare l'ulteriore voce del premio di partecipazione. Inoltre, secondo la Corte, il contratto integrativo interaziendale aveva un termine annuale di efficacia (con clausola di rinnovo anno per anno, salvo disdetta) che lo qualificava come contratto a tempo determinato avverso il quale non era configurabile la libera recedibilità.Avverso questa sentenza la società ricorre per Cassazione affidandosi, per quel che qui rileva, a due diversi motivi di ricorso. Innanzitutto, secondo la società, la Corte distrettuale aveva trascurato che i contratti collettivi sono contratti di diritto comune e che il recesso dall'associazione datoriale comporta una legittima e automatica disapplicazione del contratto integrativo interaziendale, non avendo, la società, mai sottoscritto quest'ultimo. Inoltre, la scelta di continuare ad applicare alcune voci retributive (elementi fissi) previste dal suddetto contratto integrativo interaziendale non legittima le aspettative del lavoratore circa l'applicazione di tutte le clausole del contratto. Anzi, proprio per la componente variabile del premio di partecipazione, l'erogazione risultava dovuta solo in virtù dell'iscrizione all'associazione datoriale, e, di certo, questa voce non poteva esser considerata quale elemento minimo retributivo stabilito dalla contrattazione collettiva ex art. 36 Cost., trattandosi palesemente di un compenso aggiuntivo della retribuzione.Infine, secondo la Società, la Corte distrettuale aveva erroneamente trascurato che, nel regime dei contratti di diritto comune era sufficiente - al fine della disapplicazione del contratto integrativo - la disdetta data all'associazione datoriale, non essendo intervenuta alcuna adesione tacita o clausola d'uso nè alcun richiamo al contratto integrativo nei contratti di assunzione. Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte considera il ricorso infondato.In particolare perché i contratti collettivi postcorporativi di lavoro, che non siano stati dichiarati efficaci erga omnes ai sensi della L. 14 luglio 1959, n. 741, costituiscono atti aventi natura negoziale e privatistica, applicabili esclusivamente ai rapporti individuali intercorrenti fra soggetti che siano entrambi iscritti alle associazioni stipulanti ovvero che, in mancanza di tale condizione, abbiano espressamente aderito ai patti collettivi oppure li abbiano implicitamente recepiti attraverso un comportamento concludente desumibile da una costante e prolungata applicazione, senza contestazione alcuna, delle relative clausole al singolo rapporto. Ne consegue che, ove una delle parti faccia riferimento ad una clausola di un determinato contratto collettivo di lavoro, non efficace erga omnes, in base al rilievo che a tale contratto entrambe le parti si erano sempre ispirate per la disciplina del loro rapporto, il giudice ha il compito di valutare in concreto il comportamento posto in essere dal datore di lavoro e dal lavoratore, allo scopo di accertare, pur in difetto della iscrizione alle associazioni sindacali stipulanti, se dagli atti siano desumibili elementi tali da indurre a ritenere ugualmente sussistente la vincolatività della contrattazione collettiva invocata. Ebbene, secondo la S.C., la Corte di merito ha correttamente rilevato che la società, anche dopo l'anno 2010, "ha continuato ad erogare tante e significative voci retributive e/o incentivanti e/o indennitarie, previste proprio dal contratto integrativo interaziendale (come "ex ristrutturazione salariale", "premio di produzione", "premio di produttività e qualità", "premio di partecipazione - parte fissa", "buoni pasto")". Dalla costante e prolungata applicazione di tali istituti la Corte territoriale ha quindi correttamente desunto che la società, pur avendo dato la disdetta dall'associazione sindacale dei datori di lavoro, implicitamente avesse mantenuto l'applicazione della contrattazione collettiva.Tale decisione, secondo la S.C., è del tutto rispettosa dei principi consolidati in sede di legittimità e pertanto resiste alla censura della società ricorrente.

Interposizione illecita di manodopera

Cass. Sez. VI, 14 ottobre 2021, n. 27988

Pres. Esposito; Rel. Amendola; Ric. C. S.p.A.Appalto – Interposizione illecita – Mancato ripristino del rapporto da parte del committente – Somme spettanti al lavoratore – Natura retributiva – Somme percepite da terzo subentrato nell'appalto – Aliunde perceptum – Esclusione

A partire dalla sentenza con cui il giudice dichiara la nullità della interposizione di manodopera, a fronte della messa in mora (offerta della prestazione lavorativa) e della impossibilità della prestazione per fatto imputabile al datore di lavoro (il quale rifiuti illegittimamente di ricevere la prestazione), grava sull'effettivo datore di lavoro l'obbligo retributivo. Dal rapporto di lavoro, riconosciuto dalla pronuncia giudiziale, discendono gli ordinari obblighi a carico di entrambe le parti ed in particolare, con riguardo al datore, quello di pagare le retribuzioni e ciò anche nel caso di mora credendi, e, quindi, di mancanza della prestazione lavorativa per rifiuto di riceverla.

NOTA

La Corte di Appello di Roma confermava la sentenza di primo grado, che, nell'ambito di un procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, aveva condannato la società al pagamento in favore del lavoratore della somma di Euro 12.372,90, oltre accessori, a titolo di retribuzione non corrisposta per il periodo durante il quale il lavoratore, dopo aver ottenuto una sentenza di accertamento di interposizione fittizia di manodopera per appalto illecito, aveva messo in mora l'azienda senza tuttavia percepire la retribuzione dovuta.La Corte territoriale, in sostanza, aveva ritenuto che le somme dovute al lavoratore avessero natura retributiva e che dovessero essere corrisposte allo stesso, escludendo, peraltro, che «le somme versate nel periodo oggetto di controversia da un terzo subentrato nell'appalto potessero costituire aliunde perceptum detraibile».La società impugnava, quindi, la sentenza di secondo grado.La Suprema Corte rigetta il ricorso della società, ritenendo immune da vizi l'iter argomentativo della Corte territoriale, che si è uniformata al consolidato orientamento della stessa secondo cui «La declaratoria di nullità dell'interposizione di manodopera per violazione di norme imperative e la conseguente esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato determina, nell'ipotesi in cui per fatto imputabile al datore di lavoro non sia possibile ripristinare il predetto rapporto, l'obbligo per quest'ultimo di corrispondere le retribuzioni al lavoratore a partire dalla messa in mora decorrente dal momento dell'offerta della prestazione lavorativa, in virtù dell'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 29 del d.lgs n. 27 6 del 2003, che non contiene alcuna previsione in ordine alle conseguenze del mancato ripristino del rapporto di lavoro per rifiuto illegittimo del datore di lavoro e della regola sinallagmatica della corrispettività, in relazione agli artt. 3, 36 c 41 Co st.» (cfr. tra le tante, Cass. n. 2990 del 2018).La Corte di Cassazione precisa, altresì, che «in ossequio al principio, proprio in materia di appalto illecito, si è considerato che, diversamente opinando, committente ed appaltatore potrebbero tranquillamente proseguire il contratto nullo senza conseguenza alcuna, in dispregio della legge, della sentenza, che risulterebbe inutiliter data, della messa a disposizione (a favore del committente) delle energie lavorative da parte del lavoratore e del diritto pur vittoriosamente da lui fatto valere in giudizio (in termini, da ultimo, Cass. n. 22798 del 2020)», confermando così la natura retributiva e non risarcitoria delle somme spettanti al lavoratore anche in caso di mancato ripristino del rapporto da parte della società committente/utilizzatore.Conclusivamente il ricorso della società viene respinto.

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