Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Procedimento disciplinare e tempestività della contestazione
Nozione di trasferimento ramo d'azienda
Licenziamento collettivo, ambito di applicazione
Orario di lavoro e reperibilità
Efficacia retroattiva degli aumenti retributivi

Procedimento disciplinare e tempestività della contestazione

Cass. Sez. Lav., 22 ottobre 2021, n. 29630

Pres. Berrino; Rel. Boghetich; P.M. Sanlorenzo; Ric. C.A.; Controric. A. S.p.A.

Autoferrotranviere – Contestazione disciplinare – Pendenza di procedimento penale – Sospensione cautelare del lavoratore – Differimento della contestazione disciplinare e del provvedimento (nella specie, destituzione) – Sospensione procedimento disciplinare in attesa del giudizio penale – Legittimità – Tardività – Esclusione

In tema di procedimento disciplinare, ai fini dell'accertamento della sussistenza del requisito della tempestività della contestazione – in caso di intervenuta sospensione cautelare di un lavoratore sottoposto a procedimento penale (nella specie, autoferrotranviarie accusato di omicidio colposo durante la guida di un autobus) – la stessa contestazione, per i relativi fatti, ben può essere differita dal datore di lavoro in relazione alla pendenza del procedimento penale e ciò, a maggior ragione, in presenza di una richiesta di attesa della definizione del procedimento penale da parte del lavoratore. La tempestività della contestazione disciplinare deve, infatti, salvaguardare i contrapposti interessi del datore di lavoro a non avviare procedimenti senza aver acquisito i dati essenziali della vicenda e del lavoratore a vedersi contestati i fatti in un ragionevole lasso di tempo dal loro verificarsi.

NOTA

La Corte d'Appello di Milano confermava la sentenza del Tribunale del medesimo luogo con la quale era stata dichiarata la legittimità del provvedimento della destituzione – emesso sulla base della normativa speciale prevista per gli autoferrotranvieri ed assimilabile, nella sostanza, ad un licenziamento disciplinare – comminato ad un dipendente, a seguito della sentenza di condanna non definitiva per omicidio colposo di un passante, avvenuto durante la guida dell'autobus cui lo stesso era adibito.In particolare, la Corte territoriale – relativamente all'unico profilo oggetto di impugnazione, ovvero la tardività della contestazione disciplinare effettuata dalla società a distanza di quasi quattro anni dal verificarsi dell'evento e l'irrogazione della sanzione della destituzione a distanza di quasi dieci anni – sottolineava, in primo luogo, che la normativa speciale di riferimento per gli autoferrotranvieri non prevede specifiche tempistiche per lo svolgimento del procedimento disciplinare.In secondo luogo, con riferimento al criterio dell'immediatezza, la Corte riteneva che il ritardo dell'apertura del procedimento disciplinare e della sua prosecuzione negli anni doveva imputarsi al lavoratore che, omettendo qualsiasi comunicazione in ordine all'avvio e all'iter del procedimento penale, aveva intenzionalmente ritardato l'esito del procedimento disciplinare stesso.Il fatto che la società avesse, inoltre, soprasseduto dall'avviare l'iter disciplinare in costanza del lungo periodo di aspettativa "per motivi di salute" richiesta dal lavoratore a seguito dell'incidente, era stato valutato dai giudici di merito del tutto legittimo in quanto finalizzato a preservare lo stato di integrità fisica e psicologica del lavoratore. Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso in Cassazione censurando la sentenza sotto diversi profili, in particolare, insistendo per l'accertamento della nullità della sanzione disciplinare per assenza di tempestività della contestazione. La Corte di cassazione, per quanto qui rileva, ritiene immune da vizi l'iter argomentativo seguito dalla Corte milanese, in quanto coerente con i criteri generali ed astratti, da applicare al caso concreto, in tema di immediatezza della contestazione disciplinare.In primo luogo, la Suprema Corte chiarisce che la normativa speciale applicabile al procedimento disciplinare degli autoferrotranvieri non prevede – per la validità di un procedimento disciplinare e ai fini dell'osservanza dei criteri di prontezza e tempestività – un termine perentorio per il suo compimento. In secondo luogo, la Cassazione ritiene che la Corte territoriale abbia fatto corretta applicazione del principio giurisprudenziale secondo il quale «in materia di procedimento disciplinare, anche ove il dipendente lavoratore sia sottoposto a procedimento penale, il principio della tempestività della contestazione dell'addebito – che deve salvaguardare sia gli interessi del datore di lavoro sia del lavoratore – deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, necessario al datore di lavoro per accertare le infrazioni commesse dal dipendente». Ciò, a maggior ragione, in presenza di una specifica richiesta – come nel caso di specie – di attesa della definitiva conclusione del medesimo iter penale da parte del lavoratore, sorgendo un obbligo di contestazione disciplinare solo a seguito dell'adeguato accertamento di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito.Con riferimento alla vicenda scrutinata, la Suprema Corte ritiene, dunque, che il differimento della contestazione sia stato adeguato e corretto in quanto soltanto all'esito di lungo e complesso accertamento – dettato anche dalla mancata collaborazione del lavoratore in ordine alla conclusione del procedimento penale in corso – il datore ha potuto avere cognizione piena della condotta posta in essere dal proprio dipendente. Da ultimo, la Cassazione conferma la valutazione della Corte d'Appello anche in merito al fatto che la società, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, aveva correttamente soprasseduto dall'irrogare un provvedimento disciplinare durante il periodo di aspettativa richiesto dal lavoratore, da un lato, evitando qualsivoglia pregiudizio al diritto di difesa del lavoratore incolpato, dall'altro lato, al fine di preservarne il suo diritto all'integrità fisica e psicologica.Conseguentemente il ricorso del lavoratore viene rigettato con condanna alle spese di lite.

Nozione di trasferimento ramo d'azienda

Cass. Sez. Lav., 25 ottobre 2021, n. 29919

Pres. Raimondi; Rel. Pagetta; P.M. Celeste; Ric. V. S.p.A.; Controric. C.A.; Controric. inc. C. S.p.A.

Trasferimento ramo d'azienda – Autonomia organizzativa e funzionale – Preesistenza – Necessità – Integrazioni rilevanti da parte del cessionario – Applicazione art. 2112 cod. civ. – Esclusione

Ai fini del trasferimento di ramo d'azienda previsto dall'art. 2112 cod. civ., anche nel testo modificato dall'art. 32 del D.Lgs. 276/2003, costituisce elemento costitutivo della cessione l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la sua capacità, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere – autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario – il servizio o la funzione finalizzati nell'ambito dell'impresa cedente. L'analisi non deve quindi basarsi sull'organizzazione assunta dal cessionario successivamente alla cessione, eventualmente grazie alle integrazioni determinate da coevi o successivi contratti di appalto, ma all'organizzazione consentita già dalla frazione del preesistente complesso produttivo costituita dal ramo ceduto.

NOTA

La Corte d'Appello di Napoli, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava l'inefficacia nei confronti del lavoratore del contratto di cessione di ramo di azienda intervenuto tra la società V. (cedente) e la società C. (cessionaria) e, per l'effetto, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra il lavoratore e la società cedente, ordinando a quest'ultima il ripristino della concreta funzionalità del rapporto e l'adibizione del lavoratore a mansioni equivalenti al livello di inquadramento assegnato prima del trasferimento.La Corte territoriale, infatti – premesso che ai fini della configurabilità di una vicenda traslativa riconducibile all'art. 2112 cod. civ. (anche nella formulazione successiva alla modifica attuata dall'art. 32 D.Lgs. 276/2003, applicabile ratione temporis) fosse richiesto che l'oggetto della cessione costituisse un'articolazione autonoma, capace di perseguire con propri autonomi mezzi lo scopo economico prefissato – ha escluso che tali caratteri connotassero il complesso oggetto del contratto di cessione. Secondo il giudice di appello, i servizi ceduti – di back office consumer, back office corporate e gestione del credito – costituivano, infatti, segmenti di attività rientranti nel più ampio contesto del customer care, che richiedevano, pur dopo la cessione, una continua interazione con i dipendenti della società cedente e un'imprescindibile integrazione organizzativa ed una stretta interdipendenza funzionale del ramo trasferito con la struttura rimasta nell'impresa cedente; inoltre, rilevava il giudice di appello che le attività oggetto della cessione avevano continuato ad essere svolte dai medesimi dipendenti ceduti, non identificabili per un particolare know how.Con unico motivo di ricorso C. S.p.a. ha dedotto la violazione e la falsa applicazione dell'art. 2112 cod. civ. per essere la sentenza impugnata non rispettosa dei principi fissati dalla Direttiva 2001/23/CE così come enunciati dalla Corte di Giustizia, in particolare sostenendo che per la configurabilità della cessione del ramo d'azienda ex art. 2112 cod. civ. fosse decisivo il mantenimento di un nesso di dipendenza interfunzionale tra i beni ed il personale trasferito e la prosecuzione delle attività prima svolte dal cedente, nonché il potere dei responsabili del gruppo ceduto di organizzare in modo libero e indipendente il lavoro all'interno del gruppo. Diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d'Appello, non sarebbero stati invece rilevanti per la configurabilità della cessione del ramo d'azienda ex art. 2112 cod. civ. ulteriori elementi, quali il mancato trasferimento di beni strumentali o la professionalità dei lavoratori ceduti.La Corte di cassazione ritiene il motivo infondato, evidenziando subito come il giudice d'appello abbia deciso in modo conforme alla giurisprudenza della stessa Suprema Corte e ai principi della Direttiva 2001/23/CE enunciati dalla Corte di Giustizia Europea, così rigettando altresì la richiesta pregiudiziale di rinvio a quest'ultima Corte avanzata dalla società ricorrente.La Corte di cassazione ricorda, innanzitutto, che secondo un più risalente principio di legittimità la cessione di ramo d'azienda è configurabile ove venga ceduto un complesso di beni che «oggettivamente» si presenti come entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica in funzione dello svolgimento di un'attività volta alla produzione di beni o servizi (così, Cass. 17919/1002; Cass. 13068/2005). Evidenzia la Suprema Corte che tale nozione di trasferimento di ramo d'azienda è coerente con la disciplina Europea in materia secondo cui, infatti, «è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un'entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria» (art. 1, n. 1, direttiva 2001/23). La Corte di Giustizia ha del resto in più occasioni individuato la nozione di «entità economica» come «complesso organizzato di persone e di elementi che consenta l'esercizio di un'attività economica finalizzata al perseguimento di un determinato obiettivo» (tra le decisioni richiamate, Corte di Giustizia, 11 marzo 1997, C-13/95, Süzen, punto 13; Corte di Giustizia, 20 novembre 2003, C-340/2001, Abler, punto 30) e che sia «sufficientemente strutturata e autonoma» (tra le decisioni richiamate, Corte di Giustizia, 20 luglio 2017, C-416/16, Piscarreta Ricardo, punto 43).La Suprema Corte prosegue evidenziando, con richiamo ai propri precedenti, che anche in relazione al testo modificato dall'art. 32 del D.Lgs. 276/2003, ai fini del trasferimento di ramo d'azienda previsto dall'art. 2112 cod. civ., rappresenta «elemento costitutivo» della cessione «l'autonomia funzionale del ramo ceduto», così come specificato nella massima (Cass., 11247/2016; di analogo tenore, assunte in decisione nella medesima udienza pubblica del 26 febbraio 2016, Cass. 9682, 10243, 10352, 10540, 10541, 10542, 10730, 11248 del 2016). Il fatto, evidenzia poi la Corte di Cassazione, che «la nuova disposizione abbia rimesso al cedente e al cessionario di identificare l'articolazione che ne costituisce l'oggetto non significa che sia consentito di rimettere ai contraenti la qualificazione della porzione dell'azienda ceduta come ramo, così facendo dipendere dall'autonomia privata l'applicazione della speciale disciplina in questione, ma che all'esito della possibile frammentazione di un processo produttivo prima unitario, debbano essere definiti i contenuti e l'insieme dei mezzi oggetto del negozio traslativo, che realizzino nel loro insieme un complesso dotato di autonomia organizzativa e funzionale apprezzabile da un punto di vista oggettivo». È preclusa, ricorda infatti la Suprema Corte, «l'esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell'imprenditore e non dall'inerenza del rapporto ad un ramo di azienda già costituito» (Cass. 2429/2008; Cass. 21711/2012; Cass. 8757/2014; Cass. 19141/2015). Tale orientamento, evidenzia la Corte di Cassazione, è del resto in linea con le decisioni assunte dalla Corte di Giustizia sul punto secondo le quali, infatti, l'atto di identificazione da parte del cedente deve avere un contenuto accertativo e non costitutivo, nel senso che «la cessione presuppone l'individuazione del ramo nel contesto aziendale, ma non la sua creazione».Oggetto del trasferimento ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., precisa poi la Corte di Cassazione, può certamente essere anche un gruppo organizzato di dipendenti specificamente e stabilmente assegnati ad un compito comune, ma è compito del giudice del merito verificare quando il gruppo di lavoratori sia dotato «di un comune bagaglio di conoscenze, esperienze e capacità tecniche, tale che proprio in virtù di esso sia possibile fornire lo stesso servizio», e ciò per scongiurare «operazioni di trasferimento che si traducano in una mera espulsione di personale, in quanto il ramo ceduto dev'essere dotato di effettive potenzialità commerciali che prescindano dalla struttura cedente dal quale viene estrapolato ed essere in grado di offrire sul mercato ad una platea indistinta di potenziali clienti quello specifico servizio per il quale è organizzato» (Cass. 11247/2016; Corte di Giustizia, 13 giugno 2019, C-664/2017, Ellinika Nafpigeia AE, punto 69).Ribadisce inoltre la Suprema Corte che l'elemento costitutivo dell'autonomia funzionale del ramo d'azienda deve essere letto in reciproca integrazione con il requisito della «preesistenza» di esso. Sul punto, e a conforto, la Suprema Corte richiama la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, secondo la quale l'utilizzo del termine «conservi» nell'art. 6, par. 1, commi 1 e 4 della Direttiva 2001/23/CE, «implica che l'autonomia dell'entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento» (Corte di Giustizia, 6 marzo 2014, C-458/12, Amatori, punto 34). Evidenzia peraltro la Suprema Corte che la necessità della preesistenza del ramo al fine di individuare la cessione nell'alveo dell'art. 2112 cod. civ., anche dopo le modifiche introdotte dall'art. 32 del D.Lgs. 276/2003, assurge ormai a «principio consolidato del diritto vivente».La Suprema Corte ribadisce, infine, che per determinare se siano soddisfatte o meno le condizioni per l'applicabilità della Direttiva 2001/23/CE in materia di trasferimento d'azienda occorre «prendere in considerazione il complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano l'operazione di cui trattasi» (il tipo d'impresa o di stabilimento in questione, la cessione o meno degli elementi materiali, quali gli edifici ed i beni mobili, il valore degli elementi materiali al momento del trasferimento, la riassunzione o meno della maggior parte del personale da parte del nuovo imprenditore, il trasferimento o meno della clientela, nonché il grado di analogia delle attività esercitate prima e dopo la cessione), precisando però che questi elementi «sono soltanto aspetti parziali di una valutazione complessiva cui si deve procedere e non possono, perciò, essere valutati isolatamente» e che l'importanza da attribuire ai singoli criteri varia necessariamente in funzione dell'attività esercitata o dei metodi di produzione o di gestione utilizzati nell'impresa.

Licenziamento collettivo, ambito di applicazione

Cass. Sez. Lav., 25 ottobre 2021, n. 29910

Pres. Raimondi; Rel. Negri Della Torre; P.M. Visonà; Ric. P.C.A. + 4; Controric. A.C. S.p.A.

Licenziamento collettivo – Criteri di scelta – Ambito di applicazione – Singolo reparto/unità – Ammissibilità – Comunicazione ex art. 4, comma 3, L. 223/91 – Ragioni tecniche o organizzative – Indicazione – Necessità

Ove il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva, le esigenze di cui all'art. 5, comma 1, della L. 223/1991, riferite al complesso aziendale, possono costituire criterio esclusivo nella determinazione della platea dei lavoratori da licenziare, purché il datore di lavoro indichi nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della L. 223/1991 sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell'unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive geograficamente vicine a quella soppressa o ridotta, ciò al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l'effettiva necessità dei programmati licenziamenti.

NOTA

La Corte di appello di Roma confermava la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale della medesima sede, decidendo in sede di opposizione, aveva respinto – come anche all'esito della fase sommaria del giudizio – il ricorso proposto da 5 ex-dipendenti che domandavano l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento loro intimato a seguito di procedura di licenziamento collettivo, unitamente agli altri lavoratori addetti alle Divisioni 1 e 2 dell'unità produttiva di Roma. La Corte di appello, tra gli altri motivi del rigetto, considerava infatti legittima la delimitazione della platea dei licenziandi, effettuata dalla società nell'ambito della procedura di licenziamento collettivo, ai lavoratori addetti all'unità produttiva di Roma, avuto riguardo all'ambito del progetto di ristrutturazione aziendale e alla compiuta e analitica indicazione, nella comunicazione di avvio della procedura, delle ragioni tecnico-produttive che non consentivano di estendere l'ambito della comparazione al personale con mansioni omogenee impiegato presso le altre unità.Avverso tale sentenza ricorrevano i 5 ex-dipendenti davanti la Corte di cassazione, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui riteneva legittima la scelta datoriale di limitare il bacino di comparazione del personale alle sole Divisioni 1 e 2 dell'unità produttiva di Roma, con ciò violando la previsione normativa, secondo la quale l'ambito di selezione degli esuberi di una procedura di licenziamento collettivo deve inderogabilmente riguardare posizioni professionali omogenee impiegate nell'intero complesso aziendale.La Suprema Corte rigetta il ricorso e decide come da massima sopra riportata, precisando che nella specie, la Corte di merito ha accertato, all'esito di una puntuale ricognizione, come la comunicazione di avvio della procedura descrivesse «in maniera completa ed esaustiva gli elementi di cui all'art. 4 della L. 223/1991, risultando così idonea a permettere un utile e trasparente confronto con le organizzazioni sindacali, posto che la società vi aveva indicato le ragioni tecnico-produttive a giustificazione della scelta di circoscrivere il progetto di ristrutturazione e ridimensionamento aziendale alle unità produttive di Roma e Napoli e altresì indicato le ragioni che non consentivano di estendere l'ambito della comparazione al personale con mansioni omogenee impiegato presso le unità produttive non toccate dal progetto».

Orario di lavoro e reperibilità

Cass. Sez. Lav., 27 ottobre 2021, n. 30301

Pres. Berrino; Rel. Garri; P.M. Sanlorenzo; Ric. P.C.; Controric. E. S.p.A.

Addetto alla vigilanza – Reperibilità speciale – Lavoro straordinario – Accertamento – Modalità di svolgimento del servizio – Necessità

Per stabilire se l'attività prestata durante i turni di c.d. "reperibilità speciale" costituisca, a tutti gli effetti, un'attività lavorativa vera e propria, suscettibile di essere presa in considerazione ai fini del lavoro straordinario e dei maggiori compensi spettanti, oltre che del diritto a beneficiare di riposi compensativi ed a vedersi risarciti i danni conseguenti al mancato godimento degli stessi, occorre in concreto accertare le modalità di svolgimento del servizio di reperibilità speciale e, solo all'esito di tale accertamento fattuale, verificare in che termini lo stesso debba essere qualificato.

Orario di lavoro – Diritto del lavoratore al risarcimento del danno – Pregiudizio al diritto al riposo settimanale – Necessità – Attribuzione patrimoniale – Natura risarcitoria

In via generale, sussiste il diritto del lavoratore al risarcimento del danno qualora per effetto dell'articolazione dell'orario di lavoro risulti pregiudicato il suo diritto al riposo settimanale, con definitiva perdita dello stesso. In tal caso, l'attribuzione patrimoniale spettante al lavoratore ha natura risarcitoria e non retributiva, essendo diretta non a compensare la prestazione lavorativa eccedente rispetto agli obblighi contrattuali ma a indennizzare il lavoratore per la perdita del riposo e dalla conseguente usura psicofisica, titoli autonomi rispetto alla prestazione lavorativa.

Orario di lavoro – Nozione – Direttiva 2003/88 – Reperibilità – Possibilità di gestire il tempo libero e coltivare interessi – Esclusione

Se, in generale, gli elementi costituitivi della nozione di orario di lavoro sono l'essere il lavoratore – nell'esercizio delle sue attività o delle sue funzioni – a disposizione del datore di lavoro ed al lavoro, nel caso dei servizi di reperibilità – in cui il dipendente è a disposizione del datore di lavoro – l'indagine va effettuata verificando due concorrenti presupposti: l'esercizio dell'attività o delle funzioni e l'essere il dipendente al lavoro. In tale prospettiva, risulta allora decisivo il criterio della possibilità per i lavoratori di gestire il loro tempo in modo libero e di dedicarsi ai loro interessi poiché tale elemento denoterebbe che il periodo di tempo in questione non costituisce "orario di lavoro" ai sensi della direttiva 2003/88.

NOTA

Nel caso in esame, il dipendente, addetto ad una diga, conveniva in giudizio il datore di lavoro chiedendone la condanna al pagamento di differenze retributive ed al risarcimento del danno biologico ed esistenziale conseguente all'omessa concessione di riposi ed alla lesione della dignità della persona. In particolare, il lavoratore chiedeva che le ore di "reperibilità speciale" fossero retribuite quale attività lavorativa vera e propria poiché gli sarebbe stato precluso di disporre liberamente del proprio tempo di riposo.Il Tribunale e la Corte d'Appello rigettavano le domande. In particolare, i giudici osservavano che le ore di "reperibilità speciale" dovessero essere collocate in una posizione intermedia tra il lavoro effettivo ed il riposo, giacché tale tipologia di reperibilità, rispetto a quella ordinaria, si caratterizzava per il fatto di poter essere garantita dalla "casa di guardia", situata in prossimità della diga, e senza che risultasse precluso al lavoratore il riposo ovvero la coltivazione di interessi e rapporti personali, seppure contenuti logisticamente all'interno dell'abitazione. Di conseguenza, la "reperibilità speciale" costituiva una prestazione strumentale e accessoria, ontologicamente diversa rispetto alla prestazione lavorativa vera e propria, in quanto non escludeva il riposo. Peraltro, i giudici di merito escludevano l'esistenza dei presupposti per il riconoscimento di un riposo compensativo, poiché il disagio conseguente a tale reperibilità era già compensato dal contratto collettivo di riferimento e le eventuali attività richieste sarebbero state retribuite quale lavoro straordinario.Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione con un unico motivo di ricorso, lamentando la violazione e falsa applicazione dell'art. 15 del D.P.R. 1363/1959, dell'art. 1 del D.Lgs. 66/2003, dell'art. 4 del CCNL 21 febbraio 1989 e dell'art. 10 del CCNL del 5 marzo 2010.In particolare, il ricorrente lamentava la differenza tra reperibilità ordinaria e speciale, sottolineando che mentre la prima si sostanzia della disponibilità del lavoratore ad essere immediatamente rintracciato durante il riposo per raggiungere il posto di lavoro, la seconda è connessa all'obbligo imposto dall'art. 15 del D.P.R. 1363/1959 di assicurare la vigilanza continuativa della diga. Quest'ultimo impegno sarebbe più importante rispetto a quello necessario per la reperibilità ordinaria, concretizzandosi nello svolgimento di turni di guardia, diurni e notturni. Per l'effetto, l'omessa fruizione di riposi compensativi per l'attività svolta durante la reperibilità speciale costituirebbe il presupposto per il risarcimento del danno conseguente alla violazione dell'art. 1 del D.Lgs. 66/2003.La Suprema Corte ritiene il ricorso infondato.Innanzitutto, la Corte sottolinea che per stabilire se l'attività prestata durante la "reperibilità speciale" costituisca attività lavorativa vera e propria – suscettibile quindi di essere presa in considerazione ai fini del lavoro straordinario, del diritto di beneficiare di riposi compensativi e del risarcimento di eventuali danni conseguenti al mancato godimento degli stessi – occorre accertare le concrete modalità di svolgimento di tale servizio di reperibilità. All'esito di tale accertamento, potrà verificarsi in che termini qualificare il servizio medesimo. A tal proposito, i giudici di merito avevano verificato che tale attività si concretizzasse nella permanenza del lavoratore nella casa di guardia, senza che gli fosse richiesto altro incombente se non quello di non allontanarsene per la durata del turno. Inoltre, eventuali interventi specifici richiesti durante il turno sarebbero stati pagati come lavoro straordinario e per ogni giornata di reperibilità speciale il lavoratore avrebbe percepito uno specifico compenso. A detta dei giudici di merito, le caratteristiche del turno di reperibilità speciale risultavano compatibili con eventuali svaghi e intrattenimenti, atteso che l'unica limitazione imposta al dipendente era quella di permanere nell'abitazione e intervenire in caso di necessità (cosa che, peraltro, non era mai avvenuta).La Corte di cassazione condivide tale ricostruzione fattuale, ritenendo che i giudici di merito avessero correttamente accertato la compatibilità tra il turno di reperibilità speciale ed il riposo del lavoratore, inteso sia come recupero delle energie lavorative sia come sfruttamento del tempo a disposizione in occupazioni di suo gradimento.A tal proposito, la Corte ricorda che, in via generale, sussiste il diritto del lavoratore al risarcimento del danno se – per effetto dell'articolazione dell'orario di lavoro – risulti pregiudicato il suo diritto al riposo settimanale con definitiva perdita dello stesso. In tal caso, l'attribuzione patrimoniale spettante al lavoratore ha natura risarcitoria e non retributiva, essendo diretta non a compensare la prestazione lavorativa eccedente rispetto agli obblighi contrattuali, bensì a indennizzare il lavoratore per la perdita di riposo e la conseguente usura psicofisica (in tal senso, Cass. 6985/1998). Con specifico riferimento al servizio di reperibilità, esso si configura come prestazione strumentale e accessoria qualitativamente diversa rispetto alla prestazione di lavoro, consistendo nell'obbligo del lavoratore di tenersi rintracciabile, fuori dal proprio orario di lavoro, in vista di un'eventuale prestazione lavorativa. In tale prospettiva, si è ritenuto che – qualora il servizio di reperibilità sia svolto nel giorno di riposo settimanale – esso limita soltanto il godimento del riposo stesso e comporta il diritto ad un trattamento economico aggiuntivo nonché (se previsto dalla contrattazione collettiva) ad un riposo compensativo, che non è riconducibile a retribuzione ma la cui mancata concessione integra un'ipotesi di danno non patrimoniale per usura psico-fisica da fatto illecito o inadempimento contrattuale, risarcibile in caso di pregiudizio concreto che deve essere provato dal lavoratore (in tal senso, Cass. 14288/2011; Cass. 11727/2013).Al fine di pervenire ad un inquadramento del servizio di "reperibilità speciale" e valutare la legittimità della disciplina applicabile, la Corte di cassazione esamina la nozione di «orario di lavoro» di cui alla direttiva 2003/88/CE, come interpretata dalla Corte di Giustizia.Tale direttiva dispone che «orario di lavoro» è «qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali», mentre «periodo di riposo» è «qualsiasi periodo che non rientra nell'orario di lavoro». Se, in generale, gli elementi costitutivi della nozione di orario di lavoro sono l'essere il lavoratore – nell'esercizio delle sue attività o delle sue funzioni – a disposizione del datore di lavoro e al lavoro (così, Corte di Giustizia, 10 settembre 2015, causa C266/2014), per i servizi di reperibilità – in cui il dipendente è a disposizione del datore di lavoro – l'indagine va verificata mediante due presupposti concorrenti: l'esercizio delle attività o delle funzioni e l'essere il dipendente al lavoro. In tale prospettiva, si è distinto per esempio il servizio di guardia da quello di reperibilità e si è ritenuto che nel primo caso sono presenti gli elementi caratteristici della nozione di «orario di lavoro», poiché il lavoratore è tenuto ad essere presente e disponibile sul luogo di lavoro per prestare la propria opera; nel caso in cui, invece, tale servizio non richieda la presenza fisica sul luogo di lavoro, è considerato «orario di lavoro» soltanto il tempo relativo alla prestazione effettiva dell'attività lavorativa poiché il dipendente, pur dovendo essere raggiungibile, può gestire il suo tempo in modo più libero e dedicarsi ai propri interessi (in tal senso, Corte di Giustizia 5 ottobre 2004, cause C397/2001 e C 403/2001).Tanto premesso, la giurisprudenza europea appare indirizzata ad un'interpretazione funzionale della direttiva ed orientata dall'obiettivo di organizzare orario di lavoro e tempi di riposo in funzione della tutela della salute dei lavoratori. Con un'interpretazione circolare, si ritiene che se è vero che l'art. 2 della direttiva 2003/88/CE ricava la nozione di periodo di riposo, per esclusione, da quella di orario di lavoro, la necessità di assicurare ai lavoratori un periodo di riposo adeguato alla protezione effettiva della loro salute e sicurezza finisce con il condizionare l'ampiezza della nozione di orario di lavoro. È allora decisivo il criterio attinente alla possibilità per il lavoratore di gestire il proprio tempo in modo libero e di dedicarsi ai propri interessi, poiché esso denota che il periodo di tempo in questione non costituisce «orario di lavoro» ai sensi della direttiva 2003/88/CE (così, Corte di Giustizia 10 settembre 2015, causa C266/2014).In tale prospettiva, nel caso in esame è determinante l'accertamento di fatto operato dal giudice di merito, che ha concretamente verificato che il servizio di "reperibilità speciale", pur vincolando il lavoratore alla presenza in un determinato luogo, lo lasciava libero di riposare e dedicarsi ad attività di suo gradimento, anche in compagnia, senza alcun obbligo specifico di vigilanza. In sostanza, si trattava di un servizio di attesa, che si sarebbe attivato soltanto a seguito di allarme, per il quale era prevista una specifica indennità e un riposo compensativo, ed in relazione al quale qualunque prestazione eventualmente richiesta sarebbe stata retribuita come lavoro straordinario.Pertanto, la Suprema Corte rigetta il ricorso concludendo che, per le sue caratteristiche, la "reperibilità speciale" rientra tra le occupazioni che richiedono un lavoro discontinuo o di semplice attesa, le quali, a norma dell'art. 16 del D.Lgs. 66/2003, non possono essere comprese nell'orario di lavoro.

Efficacia retroattiva degli aumenti retributivi

Cass. Sez. Lav., 25 ottobre 2021, n. 29906

Pres. Berrino; Rel. Negri Della Torre; P.M. Mucci; Ric. I.F.S.C.; Controric. A.G.Contrattazione collettiva – Rinnovo del contratto collettivo – Efficacia retroattiva degli aumenti retributivi – Interpretazione – Mancata previsione espressa – Applicazione ai dipendenti non più in servizio alla data della stipulazione

Il lavoratore che sia iscritto ad una associazione sindacale e così abbia dato mandato alla stessa per la stipulazione di un nuovo contratto collettivo ha diritto all'applicazione delle disposizioni contenute in tale contratto, anche se lo stesso sia stipulato successivamente alla data in cui il suo rapporto di lavoro è terminato, qualora le parti contraenti abbiano espressamente attribuito efficacia retroattiva al nuovo contratto senza alcuna distinzione fra i dipendenti in servizio e quelli non più in servizio alla data della stipulazione.

NOTA

La Corte d'Appello di Roma, riformando la pronuncia di primo grado, confermava il decreto ingiuntivo che riconosceva alla lavoratrice differenze retributive maturate nel periodo 2002 – 2005 per effetto dell'applicazione degli aumenti contrattuali previsti, per detto quadriennio, dal C.C.N.L. sottoscritto il 14 giugno 2007, nonostante il rapporto della stessa fosse cessato il 31 agosto 2006.In particolare, la Corte territoriale ha ritenuto applicabile il principio, per il quale il C.C.N.L., ove contenga clausole migliorative a efficacia retroattiva, è applicabile indistintamente a tutto il personale in servizio nel periodo di riferimento, anche se non più in organico alla data dì sottoscrizione del nuovo contratto.Avverso tale decisione proponeva ricorso la società datrice di lavoro, affermando che l'estensione al personale non più in servizio degli incrementi retributivi per il quadriennio 2002-2005 potesse operare esclusivamente in caso di previsione espressa in tal senso.La Suprema Corte ha dichiarato infondato tale motivo di ricorso, richiamando la precedente giurisprudenza, sia in materia di estensione retroattiva delle disposizioni del contratto collettivo, che di interpretazione dello stesso.Nello specifico, la Corte di Cassazione ha ribadito che «qualora le parti contraenti abbiano espressamente attribuito efficacia retroattiva al nuovo contratto senza alcuna distinzione fra i dipendenti in servizio e quelli non più in servizio alla data della stipulazione», il lavoratore iscritto ad una associazione sindacale ha diritto all'applicazione delle disposizioni contenute in tale contratto ancorché il suo rapporto di lavoro sia cessato in data antecedente alla stipulazione dello stesso e che, in assenza di un significato chiaro ed univoco delle disposizioni contrattuali, deve valutarsi il comportamento complessivo delle parti, interpretando le clausole del contratto collettivo in ottica sistematica.La Corte di Cassazione ha osservato, poi, il rispetto da parte della Corte d'Appello di Roma di tali principi in quanto la stessa Corte Territoriale nella propria motivazione: (i) ha rilevato che la norma del CCNL oggetto di causa non limitasse espressamente la propria applicazione retroattiva al personale in servizio; (ii) ha tenuto conto di un'ulteriore norma del CCNL applicato dalla società datrice di lavoro che prevede espressamente l'applicabilità̀ (integrale) degli aumenti ai fini della «determinazione del trattamento di quiescenza dei dirigenti comunque cessati dal servizio nel periodo di vigenza del presente quadriennio contrattuale»; (iii) ha valutato il comportamento delle parti, sia anteriormente che successivamente alla stipulazione del CCNL, anche con riferimento ad accordi sottoscritti a livello aziendale.La Suprema Corte, pertanto, ha rigettato il ricorso e confermato la sentenza della Corte territoriale.

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