Contenzioso

L’iscrizione nel registro degli indagati non giustifica il licenziamento del dirigente

di Marco Tesoro

Il coinvolgimento del dirigente apicale in un'indagine penale, sia pure per fatti di rilevante gravità, di per sé non giustifica il licenziamento per giusta causa.
È questo il principio che emerge dalla sentenza della Corte di cassazione del 16 novembre 2021, n. 34720.
Il caso trae origine dal licenziamento per giusta causa irrogato al dirigente apicale di una società di diritto privato, successivamente acquisita da una società del Comune di Napoli, a causa del suo coinvolgimento in un procedimento penale per peculato e bancarotta fraudolenta.
Per quanto di nostro interesse, il dirigente impugnava la legittimità del licenziamento e rivendicava crediti retributivi a seguito della unilaterale riduzione della retribuzione imposta dal cessionario.
Il Tribunale respingeva il ricorso con sentenza confermata dalla Corte d'appello di Napoli, per cui il licenziamento era legittimo in quanto il dirigente non aveva preso posizione sugli addebiti contestati – limitandosi a evidenziare che sarebbero stati oggetto di accertamento da parte della magistratura – e il coinvolgimento in un procedimento penale per gravi reati comportava una lesione del vincolo fiduciario che impediva la prosecuzione del rapporto di lavoro.
La Corte d'appello confermava anche la legittimità dell’unilaterale riduzione retributiva in virtù della modifica dell'assetto societario datoriale, divenuto interamente partecipato dal Comune di Napoli.
Investita della questione, la Corte di legittimità ha rilevato numerosi errori di diritto alla base del decisum dei giudici di merito.
Per gli Ermellini, la Corte distrettuale ha fondato l'accertamento dei fatti oggetto di contestazione sul solo tenore della difesa del dirigente, ancorando la sua responsabilità al mero coinvolgimento in un'indagine penale, così travisando il criterio di distribuzione dell'onere probatorio sulla base degli articoli 2697 del codice civile e 5 della legge 604/1966.
Per la Cassazione, il licenziamento de quo risulta altresì privo di giusta causa perché il «mero coinvolgimento del lavoratore in un'indagine penale, sia pure per fatti di rilevante gravità come il peculato e la bancarotta fraudolenta, non dà specifica contezza sia della mancanza colpevole della quale il lavoratore può essere chiamato a rispondere disciplinarmente sia del concreto ruolo svolto dal dirigente nella vicenda e quindi della riferibilità allo stesso delle condotte oggetto di addebito». Del tutto irrilevante, a tal proposito, la circostanza emersa in sede di discussione, per cui il dirigente è stato in seguito condannato per taluni dei reati contestati, in quanto le condizioni di legittimità del licenziamento devono sussistere al momento della sua irrogazione, non successivamente.
A questo punto, la Corte specifica come nel caso di specie non rilevi la presunzione di non colpevolezza ex articolo 27, comma 2, della Costituzione, che concerne le garanzie relative all'attuazione della pretesa punitiva dello Stato e quindi non può applicarsi all'esercizio della facoltà di recesso per giusta causa da parte del datore.
Pertanto, «il giudice, davanti al quale sia impugnato un licenziamento disciplinare, intimato a seguito del rinvio a giudizio del lavoratore, per gravi reati potenzialmente incidenti sul rapporto fiduciario – ancorché non commessi nello svolgimento del rapporto – non può limitarsi alla valutazione del dato oggettivo del rinvio a giudizio, ma deve accertare l'effettiva sussistenza dei fatti contestati e la loro idoneità, per i profili soggettivi e oggettivi, a supportare la massima sanzione disciplinare (Cass. n. 18513/2016)».
Al fine di valutare la legittimità del licenziamento disciplinare irrogato per un fatto astrattamente costituente reato «non rileva la sua punibilità in sede penale, né la mancata attivazione del processo penale per il medesimo fatto addebitato, dovendosi effettuare una valutazione autonoma in ordine alla idoneità del fatto a integrare gli estremi della giusta causa o giustificato motivo del recesso».
Di conseguenza, la Corte ha cassato la sentenza con rinvio alla Corte d'appello in diversa composizione per la rivalutazione dei presupposti giustificativi del licenziamento.
Sotto diverso profilo, gli Ermellini hanno dichiarato altresì l'illegittimità della unilaterale riduzione della retribuzione operata dal datore di lavoro, stante la piena applicabilità del principio di irriducibilità della retribuzione, in quanto «la partecipazione pubblica non muta la natura di soggetto privato della società la quale, quindi, resta assoggettata al regime giuridico proprio dello strumento privatistico adoperato (Cass. Sez. Un. n. 24591/2016 e n. 7759/2017)».
Né, infine, è possibile giungere a diversa conclusione sulla base del disposto dell'articolo 18 del Dl 112/2008, convertito in legge 133/2008, applicabile ratione temporis in tema di società a partecipazione pubblica, di «valenza meramente programmatica che ne esclude ogni diretta ed immediata incidenza sul trattamento economico applicato al personale dipendente della società partecipata».

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