Contenzioso

Utilizzabili le informazioni trovate nel pc dell’ex dipendente

di Alessandro Daverio

Gli strumenti di lavoro informatici hanno un ruolo preponderante nella moderna relazione lavorativa. La relativa regolamentazione (e utilizzo) è decisamente articolata, tanto per il datore di lavoro quanto per il prestatore, non fosse altro che per le molteplici discipline coinvolte (diritto del lavoro, diritto alla privacy e persino tutela penale) a tutela dei rispettivi interessi. La sentenza 33809/2021 della Corte di cassazione affronta questi temi con una lettura di buon senso ribadendo che tali interessi devono necessariamente essere tra loro bilanciati.

Un dirigente si dimetteva e riconsegnava il pc di proprietà aziendale privo di qualsiasi dato (cioè formattato). Il datore di lavoro incaricava un perito di tentare il recupero del maggior numero di informazioni. L'operazione dava esito positivo ed emergevano, tra l'altro, alcune conversazioni avute dal manager, tramite la piattaforma Skype e il relativo account aziendale, con aziende concorrenti e che parevano disvelare una serie di reiterate condotte infedeli (e potenzialmente illecite).

La società agiva quindi in giudizio per ottenere dal dirigente il risarcimento del danno per le condotte e i comportamenti emersi nelle conversazioni e per la perdita di dati presenti sul pc aziendale, parte integrante del patrimonio societario. Le difese del dirigente eccepivano la inutilizzabilità dei dati raccolti dalla società e l'accesso ai medesimi avvenuto con modalità non consentite sia dalla normativa lavoristica (articolo 4 dello statuto dei lavoratori) che da quella penale (violazione della corrispondenza, articolo 616 del Codice penale) trattandosi di dati personali e riservati.

I giudici di appello rigettavano le richieste risarcitorie della società, che ha promosso ricorso per Cassazione, nel decidere il quale la Suprema corte accoglie relativi motivi, in particolare osservando che è necessario «bilanciare i diritti di difesa e di tutela della riservatezza, posto che, in materia di trattamento dei dati personali, il diritto di difesa in giudizio prevale su quello di inviolabilità della corrispondenza». Da tale principio la Corte ricava che il diritto di difesa può estendersi anche a momenti precedenti la formale insaturazione del procedimento giudiziario (non specificando però i limiti di tale estensione, addirittura sino al procedimento disciplinare?).

Sul piano processuale, come conseguenza, è sempre possibile quindi la produzione di documenti utili all'esercizio del diritto di difesa anche ove contengano dati personali e «anche in assenza del consenso del titolare quali che siano le modalità con cui è stata acquisita la loro conoscenza». Ne consegue che, se “controllando” il pc il datore di lavoro scopre documenti privati del dipendente, poi da lui cancellati e che siano rilevanti per dimostrare la di lui infedeltà, lo stesso datore ne potrebbe fare uso in sede giudiziale per tutelarsi o chiedere i danni.

Peraltro, ad avviso della Corte, il mero fatto della cancellazione “dolosa” e integrale delle informazioni e dei dati del pc aziendale è rilevante anche sotto il profilo disciplinare, in quanto in violazione dei doveri di fedeltà, e conseguentemente risarcitorio (la Corte intravede addirittura una fattispecie penalmente rilevante).

La sentenza si schiera dunque sulla linea interpretativa dei controlli difensivi quale scriminante per non configurare violazioni dell'articolo 4 dello statuto dei lavoratori. Secondo la Corte si tratta di un legittimo controllo difensivo perché intervenuto dopo la cessazione del rapporto di lavoro e comunque dopo la commissione del fatto lesivo. Pertanto, non si applicherebbero «le garanzie ivi [nell'art. 4 cit., ndr] previste».

Tale linea interpretativa non è, tuttavia, consolidata e, nonostante il susseguirsi di interventi, non si può dire che gli operatori possano disporre di principi operativi univoci e affidabili sul tema del controllo dei pc, specie in sede di riconsegna del dispositivo a fine rapporto.

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