Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento orale e successivi inviti scritti a riprendere il servizio
Licenziamento per giusta causa
Licenziamento collettivo e cessazione di attività
Nozione di mobbing
Sicurezza su lavoro e obblighi del datore

Licenziamento orale e successivi inviti scritti a riprendere il servizio

Cass. Sez. Lav., 28 ottobre 2021, n. 30586

Pres. Berrino; Rel. De Marinis; Ric. P.G.; Controric. C.T.L. S.r.l.

Lavoro subordinato – Licenziamento disciplinare – Licenziamento orale – Successiva manifestazione di volontà datoriale di conservare il rapporto – Contestazione di assenza ingiustificata – Licenziamento – Legittimità

La presenza, successiva ad un diverbio in cui persona sprovvista del potere di rappresentanza intimi il licenziamento al lavoratore, di un carteggio tra la società datrice e quest'ultimo successivo nell'ambito del quale venga formalizzata una contestazione disciplinare e al tempo stesso ripetuti inviti a riprendere il servizio, riflette una indubbia volontà conservativa del rapporto. Ne consegue che è legittimo il licenziamento per assenza ingiustificata nel caso in cui il dipendente si rifiuti di riprendere il servizio.

NOTA

Nel caso di specie la Corte d'Appello di Catania aveva confermato la decisione del Tribunale di Ragusa che aveva respinto la richiesta del lavoratore di dichiarare illegittimo il licenziamento intimato dalla società per assenza ingiustificata, a seguito del rifiuto del dipendente a riprendere il servizio, in quanto tale licenziamento sarebbe stato preceduto – nel corso di un diverbio – da un licenziamento orale intimato al lavoratore da persona priva di rappresentanza della società.

Secondo la corte territoriale doveva escludersi che l'intimazione del licenziamento fosse avvenuta oralmente nel corso del diverbio di cui sopra ma proprio in virtù della mancata ripresa del servizio da parte del lavoratore che, seppur invitato a ciò reiteratamente, non si era presentato al lavoro ed aveva comunicato che tale decisione derivava dal fatto che il datore di lavoro aveva tenuto una condotta (nella specie la mancata comunicazione di riparazione dell'automezzo assegnato allo stesso e l'assegnazione di questo ad altro dipendente neoassunto) tesa a negare la sussistenza del rapporto di lavoro.Contro tale decisione proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore sostenendo che la Corte territoriale avesse errato nel valutare il materiale istruttorio in quanto la contestazione disciplinare ricevuta dal lavoratore il giorno successivo a quello del diverbio per violazioni commesse alla guida dell'automezzo e i successivi inviti scritti della società a riprendere il servizio erano tesi a simulare una realtà datoriale conservativa del posto del dipendente in realtà inesistente, poiché il licenziamento era già avvenuto oralmente e quanto accaduto con il suo automezzo ne costituiva la riprova. La Corte di Cassazione ha però ritenuto del tutto infondato il ricorso e insostenibile la ricostruzione del lavoratore, tutta fondata sulle vicende dell'automezzo a lui assegnato. In particolare la Corte ha ritenuto più plausibile la ricostruzione aziendale in base alla quale il carteggio intervenuto successivamente al diverbio era sintomatico di una volontà di prosecuzione del rapporto, che ben poteva avvenire in una posizione diversa da quella precedente e legata all'automezzo precedentemente assegnato, con la conseguenza che il licenziamento per giusta causa era legittimamente conseguito alla condotta del lavoratore che non aveva aderito agli inviti alla ripresa del servizio. Conseguentemente la Cassazione ha rigettato il ricorso.

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav., 28 ottobre 2021, n. 30433

Pres. Berrino; Rel. Negri Della Torre; Ric. A.G.; Controric. D.D.S. S.p.A.

Licenziamento per giusta causa – Fattispecie: disposizioni agli addetti della portineria di non annotare ingressi e uscite – Modello diseducativo e disincentivante – Rilevanza – Episodio isolato – Irrilevanza – Giusta causa di licenziamento – Sussistenza

Nell'operazione richiesta dall'applicazione dell'art. 2119 c.c., con il relativo bilanciamento di contrapposti interessi, la condotta del lavoratore, che deve essere valutata con riferimento agli obblighi di diligenza e fedeltà, rileva anche per il "disvalore ambientale" che la medesima sia idonea a determinare quando, in virtù della posizione professionale rivestita o della collocazione del lavoratore all'interno del contesto organizzativo aziendale, essa possa assurgere a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto di tali obblighi, potendo ritenersi proporzionata la sanzione espulsiva anche in presenza di un unico episodio, secondo gli elementi di fatto che definiscono il caso concreto

NOTA

La Corte d'Appello di Palermo, in riforma del provvedimento reso dal giudice di prime cure, giudicava legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato ad un lavoratore che aveva falsamente dichiarato di essere il responsabile della portineria inducendo, in tal modo, gli addetti al predetto servizio a non segnare gli ingressi e le uscite del dipendente e dei suoi collaboratori.Secondo la Corte distrettuale, la condotta tenuta dal lavoratore era idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario alla base della relazione contrattuale integrando, al contempo, un grave inadempimento degli obblighi negoziali sottesi al rapporto, anche alla luce della natura dolosa dell'azione realizzata.Avverso la predetta statuizione ha promosso ricorso in cassazione il lavoratore chiedendo la riforma della sentenza di secondo grado in ragione della natura isolata dell'episodio contestato e della conseguente sproporzione tra il fatto contestato e la massima sanzione espulsiva intimata, a riprova dell'illegittimità del recesso.Tuttavia, i giudici di legittimità, nel rigettare integralmente il ricorso promosso dal prestatore, hanno ribadito l'idoneità di un singolo episodio, purché disciplinarmente rilevante e in grado di incrinare irreversibilmente il rapporto di fiducia tra lavoratore e datore, ad integrare una giusta causa di licenziamento. Peraltro, sempre secondo la Suprema Corte di Cassazione: «nell'operazione richiesta dall'applicazione dell'art. 2119 c.c., la condotta del lavoratore (…) rileva anche per il "disvalore ambientale" che la medesima sia idonea a determinare quando, in virtù della posizione professionale rivestita o della collocazione del lavoratore all'interno del contesto organizzativo aziendale, essa possa assurgere a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto di tali obblighi».

Licenziamento collettivo e cessazione di attività

Cass. Sez. Lav., 28 ottobre 2021, n. 30567

Pres. Berrino; Rel. Lorito; Ric. F.C.M. S.p.A.; Controric. D.N.F. +2

Licenziamento collettivo – In genere – Intento elusivo nell'utilizzo della procedura – Ammissibilità – Accertamento da parte del giudice di merito – Ammissibilità

In tema di licenziamento collettivo, la cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, qualificata dalla devoluzione alle parti sociali di un controllo preventivo sulla ricorrenza delle ragioni sottese alla procedura di riduzione del personale, non esclude che il giudice possa verificare l'intento elusivo del datore di lavoro nel far ricorso alla procedura in questione, mediante un accertamento di fatto dell'intera vicenda che ha portato al licenziamento.

Licenziamento collettivo – Cessazione di attività e liquidazione della società – Criteri di scelta – Obbligo di informazione sindacale – Sussiste

L'obbligo di comunicare i criteri di scelta alle organizzazioni sindacali vige anche nelle ipotesi in cui la società intenda cessare l'attività e licenziare tutti i dipendenti salvo un gruppo individuato in base al possesso delle competenze professionali necessarie per il compimento delle operazioni di liquidazione, dovendo egualmente effettuare la comunicazione di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, con la precisazione delle modalità di attuazione del criterio di scelta e la comparazione tra tutte le professionalità del personale in servizio rispetto allo scopo perseguito, senza che assuma rilievo l'unicità del criterio adottato ancorché concordato con le organizzazioni sindacali.

NOTA

Un gruppo di lavoratori, licenziati «per cessazione dell'attività» da una società in liquidazione, impugnavano il recesso adducendone l'illegittimità.La Corte d'Appello di Napoli, in riforma della pronuncia del Tribunale della stessa sede, accoglieva la domanda proposta dai lavoratori e condannava la società alla reintegra degli stessi nel posto di lavoro. Secondo la Corte distrettuale, infatti, in base al quadro istruttorio acquisito nel processo, risultava evidente che la società, lungi dall'aver realmente cessato l'attività produttiva, ne aveva solo ridotto i volumi, continuando però a svolgerla anche successivamente alla declaratoria fallimentare. Non a caso, subito dopo il licenziamento collettivo l'impresa aveva provveduto a riassumere con contratti a termine alcuni lavoratori già licenziati, e addirittura ne aveva assunti di nuovi, al fine di rispettare gli impegni produttivi di cui si era fatta carico in epoca anteriore alla irrogazione dei provvedimenti espulsivi.Le descritte acquisizioni probatorie mostravano la natura simulatoria della cessazione della attività produttiva con evidenti ricadute sul piano della regolarità della procedura di licenziamento e della sua legittimità. E, infatti, non avendo realmente cessato l'attività produttiva, la società avrebbe dovuto rispettare integralmente la procedura dei licenziamenti collettivi, informando le parti sociali anche circa i criteri di scelta adottati. Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione la società in liquidazione.In particolare, secondo la ricorrente, i giudici del gravame, contraddicendo principi giurisprudenziali, non avevano limitato il proprio scrutinio al profilo procedurale dell'operazione di riduzione del personale attuata ma si erano spinti a sindacare le valutazioni tecniche, organizzative e produttive riservate esclusivamente al datore di lavoro, travalicando i limiti della insindacabilità delle esigenze poste a base dei licenziamenti collettivi ed entrando nel merito della scelta della società di cessare l'attività produttiva.Inoltre, secondo la ricorrente, la Corte aveva erroneamente condannato la società alla reintegrazione dei lavoratori dimenticando che una simile sanzione è applicabile solo qualora i criteri di scelta applicati risultino in violazione di legge o in difformità rispetto alle previsioni legali o collettive e non anche, come nella specie, qualora essi siano stati del tutto omessi.

Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte rigetta il ricorso.Innanzitutto la S.C. si attarda lungamente sugli approdi cui è giunta la giurisprudenza di legittimità in materia di licenziamenti collettivi per cessazione attività. Al riguardo i Giudici ricordano che la scelta dell'imprenditore di cessare l'attività costituisce esercizio incensurabile della libertà di impresa garantita dall'art. 41 Cost., con la conseguenza che la procedimentalizzazione dei licenziamenti collettivi che ne derivano e in particolare l'obbligo di comunicazione dei motivi della scelta, ha la sola funzione di consentire il controllo sindacale sulla effettività della scelta medesima, allo scopo di evitare elusioni del dettato normativo (si pensi all'ipotesi per cui la cessazione dell'attività dissimuli la cessione dell'azienda o la ripresa dell'attività stessa sotto diversa denominazione o in diverso luogo) ma non consente che vengano prospettati in concreto rimedi che possano evitare la collocazione in mobilità o costringere la prosecuzione da parte dell'imprenditore del rischio di impresa.

La S.C. ricorda poi che in materia di licenziamenti collettivi per riduzione del personale la L. 223/1991 ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato "ex post" nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell'iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell'impresa, devoluto "ex ante" alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda. I residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più, quindi, gli specifici motivi della riduzione del personale (a differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo obiettivo) ma la correttezza procedurale dell'operazione, con la conseguenza che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dagli artt. 4 e 5 della L. 223/1991 e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l'autorità giudiziaria di un'indagine sulla presenza di "effettive" esigenze di riduzione o trasformazione dell'attività produttiva. La qualificazione del licenziamento come collettivo, comporta, quindi, che l'imprenditore sia vincolato non nell'an della decisione ma nel quomodo, essendo obbligato allo svolgimento della procedura di cui all'art. 4, che si risolve in una procedimentalizzazione del potere di recesso, il cui titolare è tenuto non più a mere consultazioni, ma a svolgere una vera e propria trattativa con i sindacati secondo il canone della buona fede. L'operazione imprenditoriale diretta a ridimensionare l'organico si scompone, poi, nei singoli licenziamenti, ciascuno giustificato dal rispetto dei criteri di scelta, legali o stabiliti da accordi sindacali, ma entro una cerchia di soggetti delimitati dal "nesso di causalità", ossia dalle esigenze tecnico-produttive ed organizzative (arg. ex art. 5, comma 1, primo periodo); corrispondendo l'ambito del controllo giudiziale, ai due livelli descritti, l'uno collettivo-procedurale, l'altro individuale-causale, cui è estranea, come detto, la verifica dell'effettività delle ragioni che giustificano la riduzione di personale.Posti tali principi, la Suprema Corte evidenzia che la presenza di una cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, non impedisce al giudice di verificare l'intento elusivo del datore di lavoro, ben potendo, l'autorità giudiziaria, espletare un accertamento di fatto dell'intera vicenda del licenziamento, dalla quale l'intento elusivo può essere desunto.Ebbene, la Corte territoriale napoletana, nell'espletare il doveroso scrutinio in ordine alla sussistenza dei presupposti relativi alla legittimità del licenziamento collettivo svolto, ha verificato l'esistenza di un intento elusivo stante l'insussistenza del nesso di causalità tra il progettato ridimensionamento del personale ed il provvedimento di recesso, in ciò senza mai travalicare i limiti dei suoi poteri di accertamento.Semplicemente, come fatto cenno nello storico di lite, la Corte distrettuale, all'esito di un'approfondita ricognizione del materiale probatorio acquisito, ha rimarcato come la società – perdurante la procedura di mobilità per cessazione attività – non avesse per nulla intenzione di cessare l'attività produttiva, avendo acquisito, in periodo precedente al recesso collettivo, ulteriori commesse nella ovvia consapevolezza di doverle ultimare, appaltando parte dei lavori a ditte esterne subito dopo la chiusura della procedura di mobilità, e riassumendo parte dei lavoratori in precedenza occupati.Sulla scorta di tali rilievi in fatto, del tutto correttamente, la Corte distrettuale ha dichiarato la simulazione della totale cessazione della attività – elemento addotto dalla società a giustificazione della mancata adozione di alcun criterio di scelta – e ha dichiarato la violazione della cadenza procedimentale che connota il licenziamento disciplinato ex L. 223/1991. Infatti, non avendo cessato realmente la propria attività, la società avrebbe dovuto condividere i criteri di scelta che intendeva applicare nella fase che attiene alla informazione e consultazione sindacale. L'omessa indicazione dei criteri di scelta del personale in eccedenza da parte datoriale nella fase di consultazione, si è tradotto in un evidente vulnus agli obblighi su tale parte gravanti, riverberando i propri riflessi sulla legittimità del provvedimento espulsivo irrogato.Dunque, secondo la S.C., il giudice del gravame, accertata la natura fittizia della totale cessazione di attività, ha correttamente rilevato l'illegittimità della procedura in quanto parte datoriale aveva omesso di comunicare i criteri di scelta adottati alle organizzazioni sindacali. Obbligo quest'ultimo – si badi – cui parte datoriale è tenuta anche qualora abbia cessato realmente l'attività e abbia voluto licenziare tutti i dipendenti salvo un gruppo individuato in base al possesso delle competenze professionali necessarie per il compimento delle operazioni di liquidazione, dovendo egualmente effettuare la comunicazione di cui alla L. 223/1991, art. 4, comma 9, con la precisazione delle modalità di attuazione del criterio di scelta e la comparazione tra tutte le professionalità del personale in servizio rispetto allo scopo perseguito, senza che assuma rilievo l'unicità del criterio adottato ancorché concordato con le organizzazioni sindacali.Infine, per la S.C., la sentenza di gravame si presenta del tutto corretta anche per quanto riguarda la scelta di applicare la sanzione reintegratoria. E, infatti, l'omessa individuazione ed applicazione dei criteri di selezione previsti dalla procedura (L. 223/1991, ex artt. 4 e 5), si sostanzia in una violazione della scansione procedimentale predisposta dalla legge. Violazione che – tenuto conto del comportamento complessivo assunto dalla società in epoca anteriore e successiva alla irrogazione del provvedimento espulsivo, a prescindere anche dalla ritualità e legittimità del concordato preventivo, della declaratoria fallimentare e dell'autorizzazione all'esercizio provvisorio dell'impresa – era così grave ed assoluta, da giustificare l'applicazione della tutela reintegratoria.

Nozione di mobbing

Cass. Sez. Lav., 28 ottobre 2021, n. 30583

Pres. Berrino; Rel. Blasutto; Ric. D. S. S.r.l.; Controric. C.G. + 2

Mobbing – Nozione – Vessazioni – Continuità – Intento persecutorio – Necessità

L'illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore che integra il c.d. mobbing e che rappresenta una violazione dell'obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall'art. 2087 c.c. consiste nell'osservanza di una condotta protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali ed eventualmente anche leciti) con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente.

Mobbing – Risarcimento del danno – Responsabili – Datore ex art. 2087 c.c. – Colleghi ex art. 2043 c.c. – Responsabilità solidale – Sussistenza

Quando un danno di cui si chiede il risarcimento è determinato da più soggetti, ciascuno dei quali con la propria condotta contribuisce alla produzione dell'evento dannoso, si configura una responsabilità solidale ai sensi dell'art. 1294 c.c. fra tutti costoro, qualunque sia il titolo per il quale ciascuno di essi è chiamato a rispondere, dal momento che, sia in tema di responsabilità contrattuale che extracontrattuale, se un unico evento dannoso è ricollegabile eziologicamente a più persone, è sufficiente, ai fini della responsabilità solidale, che tutte le singole azioni od omissioni abbiano concorso in modo efficiente a produrlo.

NOTA

Il Tribunale di Massa accoglieva la domanda proposta da una lavoratrice nei confronti della Società, ex datrice di lavoro, e nei confronti di due ex colleghe. La ricorrente aveva lamentato comportamenti mobbizzanti tenuti nei suoi confronti direttamente dalla sua superiore gerarchica e indirettamente da un'altra collega, coordinatrice di zona, che aveva conosciuto e tollerato la situazione e ad un certo punto si era attivata, ma in suo danno.Il giudice di primo grado, ritenuta sussistente la condotta mobbizzante, all'esito di c.t.u. medico-legale, ravvisato il nesso concausale tra i comportamenti censurati e il danno psichico subito dalla ricorrente, condannava la società datrice di lavoro a titolo di responsabilità contrattuale ex art. 2087 cod. civ. e le due ex colleghe a titolo di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 cod. civ. al risarcimento del danno biologico. La Corte d'Appello di Genova rigettava l'appello della Società e delle due lavoratrici, ritenendo, in particolare,: «raggiunta la prova della commissione, in danno della lavoratrice, di condotte offensive e insolenti, se non talora ingiuriose e di altre condotte che, seppure astrattamente rientranti tra le facoltà datoriali, erano state esercitate con modalità in concreto abusive, perché caratterizzate da atteggiamenti sgarbati ed indebitamente plateali o in spregio rispetto a una equilibrata utilizzazione del lavoro altrui». I giudici di secondo grado hanno poi ritenuto «imputabile la condotta alla società datrice di lavoro a titolo di responsabilità contrattuale, come pure alle dipendenti che tali condotte avevano posto in essere, in questo secondo caso a tiolo di responsabilità extracontrattuale».Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la Società denunciando: «violazione e/o falsa applicazione delle norme di diritto in punto di mobbing in relazione agli artt. 13, 32 e 35 comma 1 Cost. nonché dell'art. 41 cod. proc. civ. e degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. per non avere il giudice di appello adeguatamente valutato le risultanze istruttorie e non avere rilevato che le stesse avevano confermato la totale assenza dell'elemento soggettivo del mobbing in capo alla datrice di lavoro. Deduce che non erano stati debitamente considerati i seguenti elementi determinanti: la preesistenza di uno stato patologico della lavoratrice, per cui erroneamente l'insorgenza della patologia era stata attribuita a cause lavorative; il carattere sporadico e discutibile degli eventi accaduti, che in ogni caso non avrebbero potuto configurarsi come fatti sistematici e reiterati, con finalità vessatoria; l'assenza di allegazione e di prova di un intento persecutorio». La Corte di legittimità ha rigettato il ricorso ricordando il costante orientamento espresso nella prima massima sopra riportata. In particolare, la Corte di Cassazione ha rilevato che «la Corte di appello, dopo avere analizzato in dettaglio atti e comportamenti lesivi imputabili alle preposte ex colleghe e posti in essere in danno della lavoratrice ha ritenuto che questi avessero il carattere della reiterazione e della lesività della dignità della persona e della continuità temporale e che fossero altresì idonei ad assumere portata lesiva ex art. 2087 cod. civ. Ha poi all'evidenza desunto, dalle caratteristiche della condotta, la prova dell'elemento soggettivo del mobbing. In proposito, giova ricordare che, in tema di prova presuntiva, rientra nei compiti del giudice di merito il giudizio circa l'opportunità di fondare la decisione sulla prova per presunzioni e circa l'idoneità degli stessi elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano secondo il principio dell' id quod plerumque accidit, essendo il relativo apprezzamento sottratto al controllo in sede di legittimità se sorretto, come nel caso di specie, da motivazione adeguata, immune da vizi logici o giuridici». 

Sicurezza su lavoro e obblighi del datore

Cass. Sez. Lav., 29 ottobre 2021, n. 30813

Pres. Negri della Torre; Rel. Lorito; P.M. Celeste; Ric. F.F.; Controric. B.D.N. S.p.A. e G.I. S.p.A.

Settore credito – Fattispecie: evento lesivo verificatosi a seguito di rapina a mano armata in una Banca – Obbligo di sicurezza ex art. 2087 cod. civ. – Prevedibilità del verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro – Misure di sicurezza innominate – Necessità

Ai sensi dell'art. 2087 cod. civ. l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, secondo le particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. L'adozione di particolari misure di sicurezza (cd. "innominate") viene in rilievo, in particolare, con riferimento a condizioni lavorative obiettivamente (anche solo potenzialmente) pericolose, in cui la prevedibilità del verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro sia insita nella tipologia di attività esercitata dal lavoratore, in ragione della movimentazione, da parte del medesimo, di somme di denaro.

NOTA

La Corte d'Appello di Bari, in riforma della sentenza del Giudice di prime cure, respingeva la domanda proposta dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro, volta a conseguire il risarcimento dei danni conseguiti da un evento lesivo verificatosi a seguito di rapina a mano armata subita in data 22.09.2007.Secondo la Corte d'Appello, l'ambito di applicazione dell'obbligazione di sicurezza posto dall'art. 2087 cod. civ., esteso anche a misure non espressamente nominate, non integra ipotesi di responsabilità oggettiva tale da «comprendere ogni ipotesi di danno per sé conseguente ad eventi incolpevoli».In particolare la Corte Territoriale rilevava che «la filiale, ove l'evento infortunistico si era verificato, era dotata di dispositivo di prevenzione con vocazione dissuasiva e protettiva, costituita da un accesso presidiato da metal detector, sistema di videoregistrazione e meccanismo di temporizzazione delle casseforti, elementi tutti idonei ad esercitare un'efficace azione di deterrenza e di prevenzione tanto che, nello specifico, proprio in relazione al meccanismo di temporizzazione delle casseforti, i malviventi avevano dovuto ripiegare su obiettivi di più facile conseguimento, quale il denaro contante custodito presso la cassa aperta al pubblico; la presenza di una guardia giurata, avrebbe potuto, del resto, rendere ancor più cruente le stesse modalità esecutive dell'azione delittuosa, una volta posta l'esigenza di guadagnare una via di fuga».Il lavoratore impugnava, quindi, la sentenza di secondo grado.La Suprema Corte accoglie il ricorso del lavoratore precisando che la Corte territoriale nel «proprio incedere argomentativo, ha mostrato di non conformarsi» al consolidato orientamento della stessa secondo cui «il disposto dell'art. 2087 c.c. – avente una funzione sussidiaria ed integrativa delle misure protettivi da adottare a garanzia del lavoratore – abbraccia ogni tipo di misura utile a tutelare il diritto soggettivo dei lavoratori ad operare in un ambiente esente da rischi, così come è stato posto in rilievo dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 399 del 1996 (cfr. Cass. 23/4/2012 n. 6337, Cass. 773/2006 n. 4840», avendo peraltro omesso di «conferire rilievo alla da ultimo richiamata circostanza, assolutamente decisiva ai fini della soluzione della controversia».E, infatti, nel caso in esame, il datore di lavoro non aveva adottato tutte le misure idonee ad evitare l'evento infortunistico verificatosi, e, in particolare, aveva omesso di considerare che nella medesima filiale, in un breve arco temporale – circa due anni –, si erano verificate altre rapine a mano armata.In sostanza la Corte di Cassazione ha ritenuto che «fosse preciso dovere della parte datoriale predisporre e mantenere in efficienza quei mezzi di tutela, concretamente attuabili secondo la tecnologia disponibile nel periodo, almeno potenzialmente idonei a tutelare l'integrità fisica del lavoratore, in ossequio al principio dettato dall'art. 2087 c.c. Il che significa che tali mezzi dovessero essere certamente in grado di impedire il verificarsi di episodi criminosi a danno del dipendente, bensì che gli stessi dovevano consistere in quelle misure che, secondo i criteri di comune esperienza, potevano risultare atte a svolgere, al riguardo, una funzione almeno dissuasiva e, quindi, preventiva e protettiva».In conclusione la Suprema Corte accoglie i primi due motivi di ricorso, assorbito il terzo, e rinvia alla Corte d'Appello di Bari in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio.

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