Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa
Orario di lavoro e potere autorganizzativo del datore
Nozione di mobbing
Demansionamento e termine di prescrizione per il risarcimento del danno
Trasferimento del lavoratore per incompatibilità ambientale


Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav., 5 novembre 2021, n. 32222

Pres. Negri Della Torre; Rel. Arienzo; Ric. C.C.; Controric. N.I. S.p.A.

Lavoro subordinato – Giusta causa licenziamento – Clausola generale – Valorizzazione di elementi concreti – Necessità – Coerenza con i valori della coscienza sociale – Necessità – Tipizzazioni CCNL – Vincolatività per il Giudice – Esclusione

In materia disciplinare, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva ai fini dell'apprezzamento della giusta causa di recesso, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice, purché vengano valorizzati elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, coerenti con la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che con i principi radicati nella coscienza sociale, idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario.

NOTA

Nella fattispecie in esame la Corte di Cassazione affronta ancora una volta il tema della giusta causa come clausola generale e la necessaria coerenza della sua applicazione con gli elementi concreti della fattispecie e la scala di valori radicata nella coscienza sociale ed espressa anche attraverso le tipizzazioni delle condotte disciplinarmente rilevanti operate dai CCNL.Nel caso di specie un dirigente era stato licenziato per giusta causa dalla società datrice di lavoro all'esito di un procedimento disciplinare per aver posto in essere varie condotte ritenute illegittime, tra le quali: aver sottoscritto un contratto per l'apertura e la gestione di un negozio, nonostante il parere contrario espresso dalla Direzione Affari Legali, peraltro concedendo a terzi l'uso di un marchio di cui la datrice di lavoro era solo licenziataria e non proprietaria; aver agito eccedendo i poteri di rappresentanza conferitigli dal CDA, tra i quali non rientrava il potere di stipulare con firma singola contratti di durata superiore a tre anni e neppure quello di concedere a terzi la disponibilità di diritti di proprietà industriale; non aver mai informato l'Amministratore Delegato della società della sottoscrizione di detto contratto; essersi impegnato successivamente alla sottoscrizione del contratto, ad ottenere l'annullamento del contratto senza oneri per la società datrice, società poi non verificatasi.La Corte territoriale investita della questione riteneva i comportamenti posti in essere dal dirigente sufficientemente gravi da integrare un'ipotesi di giusta causa e dichiarava la legittimità del licenziamento.Contro tale decisione proponeva ricorso in Cassazione il dirigente sostenendo, tra le altre cose, violazione e falsa applicazione degli artt. 2119, 2106, 1175, 1218, 1375 cod. civ., nonché degli artt. 22 e 23 del CCNL per i dirigenti di aziende industriali del 30.12.2014. In particolare il dirigente sosteneva che il ritenere che i suoi comportamenti integrassero una giusta causa di licenziamento non fosse conforme agli standard dell'ordinamento in termini di valori. A riprova di ciò il dirigente sostiene che il fatto che gli fosse stato permesso di adoperarsi per l'annullamento del contratto confermava che in tal caso la società avrebbe soprasseduto al licenziamento e che, conseguentemente, i restanti motivi di licenziamento e in particolare la contestata firma del contratto non fossero tali da ledere il vincolo fiduciario e giustificare il licenziamento.La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.La Cassazione ha infatti ribadito i suoi costanti orientamenti in tema di giusta causa di licenziamento secondo i quali la stessa rappresenta una clausola generale che richiede di essere specificata in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Più nello specifico la Suprema Corte ha confermato che «in materia disciplinare, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva ai fini dell'apprezzamento della giusta causa di recesso, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice, purché vengano valorizzati elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, coerenti con la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che con i principi radicati nella coscienza sociale, idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario».

Orario di lavoro e potere autorganizzativo del datore

Cass. Sez. Lav., 3 novembre 2021, n. 31349

Pres. Balestrieri; Rel. Lorito; Ric. E. S.p.A.; Controric. M.T.

Orario di lavoro – Potere autorganizzativo del datore – Sussiste – Orario di lavoro – Part-time – Limiti allo ius variandi – Sussiste – Estensione al tempo pieno – Esclusione

Al contratto a tempo pieno non possono estendersi i limiti posti allo ius variandi nei contratti part-time, nei quali la programmabilità del tempo libero assume carattere essenziale che giustifica la immodificabilità dell'orario da parte datoriale per garantire la esplicazione di ulteriore attività lavorativa o un diverso impiego del tempo che la scelta del particolare rapporto evidenzia come determinante per l'equilibrio contrattuale. Ciò non vale per il contratto di lavoro a tempo pieno, nel quale un'eguale tutela del tempo libero del lavoratore si tradurrebbe nella negazione del diritto dell'imprenditore di organizzare l'attività lavorativa; in tal caso il diritto può subire limiti solo in dipendenza di accordi che lo vincolino o lo condizionino a particolari procedure, elementi questi che nella specie sono insussistenti

NOTA

Una lavoratrice, per anni impiegata in azienda con orario di lavoro spezzato (i.e. con due turni giornalieri intervallati da una lunga pausa), veniva adibita in un nuovo reparto, con applicazione di un orario di lavoro continuativo. A fronte di questa modifica unilaterale, la lavoratrice adiva l'autorità giudiziaria denunciando di avere ottenuto, con sentenza del Tribunale di Torino, passata in giudicato, l'accertamento del suo diritto ad osservare l'orario spezzato, in ragione delle patologie dalle quali era affetta, e che la novità della turnazione non era stata applicata a tutto il personale, dato che altre lavoratrici addette alle sue precedenti mansioni avevano continuato ad osservare l'orario spezzato. Chiedeva pertanto di essere reintegrata nelle mansioni in precedenza espletate, con attribuzione dell'orario spezzato riconosciuto dalla evocata pronuncia passata in giudicato.La Corte distrettuale, in riforma della sentenza di prime cure, perveniva all'accoglimento della domanda attorea sul rilievo essenziale che, al momento della variazione dell'orario di lavoro, non sussistevano le esigenze organizzative allegate dalla società, poiché la dismissione delle lavorazioni a giornata alle quali era addetta la ricorrente (addotta a giustificazione della modifica), era risultata non essere ancora in atto né imminente.Avverso tale decisione la società interponeva ricorso per cassazione affidato, per quel che qui rilevava, a quattro diversi motivi; tutti ritenuti dalla S.C. fondati.Innanzitutto, la società evidenziava che il sindacato posto in essere dai giudici del gravame, circa la illegittimità della modifica delle mansioni, si era spinto fino ad incidere sulle scelte organizzative datoriali, informate però ad oggettive esigenze aziendali e comunque rientranti, ex art. 41 Cost., nel solo potere datoriale. D'altronde, la società sottolineava che, nei contratti a tempo pieno, la collocazione ed il successivo spostamento del personale nei vari reparti dell'azienda è un momento essenziale del potere autorganizzativo del datore di lavoro, di per sé sottratto ai limiti dei trasferimenti e, quindi, non sindacabile in mancanza di specifici elementi che evidenzino una discriminazione o una mera vessazione del prestatore di lavoro, che, nel caso di specie, sicuramente non si erano verificate.In secondo luogo, secondo la società ricorrente, non esisteva nessun diritto assoluto della lavoratrice ad un orario spezzato, in quanto neppure la pronuncia del 1996 passata in giudicato, si era espressa in questi termini. Peraltro, secondo la società, la Corte di merito, del tutto erroneamente, partendo dall'assunto che il datore dinanzi a diverse soluzioni organizzative debba scegliere quella meno gravosa per il dipendente e non debba abusare del proprio potere per danneggiarlo, era giunta a rinvenire una violazione dei principi di correttezza e buona fede nel sol fatto che la società aveva adibito la dipendente a mansioni diverse rispetto a quelle alle quali era stata in precedenza adibita. Nella realtà, però, non si era verificata nessuna delle condizioni coessenziali alla configurabilità di una violazione dei principi di buona fede e correttezza, dal momento che la lavoratrice non aveva addotto specifiche ragioni ostative allo svolgimento di turni notturni o motivi personali e familiari, nè aveva dimostrato che il trasferimento integrasse un vero e proprio atto emulativo nei suoi confronti.Infine, la società denunciava l'erroneità della statuizione con la quale la Corte di merito, richiamando per analogia la giurisprudenza formatasi in tema di "repêchage" nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, aveva posto a carico della parte datoriale l'onere di indicare una collocazione alternativa nel contesto dell'assetto organizzativo aziendale, in ciò dimenticando come un simil principio non può essere esteso al tema dell'esercizio dello jus variandi giacchè, «mentre il lavoratore ha diritto al mantenimento del posto di lavoro, salvo che ricorrano determinati inderogabili presupposti, quello di variare mansioni ed orario del lavoratore è un diritto del datore di lavoro al quale il lavoratore può solo opporre l'inesistenza delle ragioni addotte o l'abuso del diritto».Con la sentenza in epigrafe la S.C., ritiene il ricorso fondato.Innanzitutto, i Giudici di legittimità ricordano che se il profilo quantitativo dell'orario di lavoro inerisce all'oggetto del contratto e non può essere modificato unilateralmente dal datore di lavoro, la distribuzione dell'orario e la collocazione della prestazione nella unità di tempo, invece, rientrano tra i poteri determinativi unilaterali del datore, in ciò tenuto al sol rispetto dei limiti legali e contrattuali.Inoltre, secondo la S.C., la sentenza del Tribunale di Torino passata in giudicato non aveva posto alcun limite al potere datoriale di distribuzione dell'orario di lavoro, dal momento che quella sentenza aveva (sì) riconosciuto il diritto della lavoratrice di osservare un orario spezzato ma solo in nome del consenso prestato dalla società alla continuazione del predetto orario da parte della lavoratrice, anche dopo la stipula dell'accordo aziendale (1/10/1986) che aveva introdotto i turni per una parte dei dipendenti, mentre non era stata riconosciuta in sentenza un'assoluta e permanente inidoneità fisica della lavoratrice all'orario su turni. Peraltro, la S.C. evidenzia come il contratto intercorso fra le parti fosse un contratto a tempo pieno, in relazione al quale quindi non si applicano i limiti posti allo ius variandi nei contratti part-time, nei quali la programmabilità del tempo libero assume carattere essenziale che giustifica la immodificabilità dell'orario da parte datoriale per garantire la esplicazione di ulteriore attività lavorativa o un diverso impiego del tempo che la scelta del particolare rapporto evidenzia come determinante per l'equilibrio contrattuale.Il paradigma normativo tipico del part-time, secondo la S.C., non è applicabile al contratto di lavoro a tempo pieno, nel quale un'eguale tutela del tempo libero del lavoratore si tradurrebbe nella negazione del diritto dell'imprenditore di organizzare l'attività lavorativa; in tal caso il diritto può subire limiti solo in dipendenza di accordi che lo vincolino o lo condizionino a particolari procedure, elementi questi che nella specie, per quanto sinora illustrato, risultavano insussistenti.Nello specifico, secondo la Cassazione, il disposto mutamento della distribuzione dell'orario di lavoro della lavoratrice è conseguito allo spostamento del personale in un diverso reparto aziendale motivato dalla esigenza, effettiva, comprovata e non pretestuosa, di delocalizzazione della lavorazione della macchina alla quale era addetta la dipendente, che sarebbe stata realizzata dopo circa sei mesi dalla disposta adibizione della lavoratrice ad un diverso reparto: si tratta dell'esplicazione di un momento individuativo del potere autorganizzativo del datore di lavoro, di per sé sottratto ai limiti relativi ai trasferimenti, e quindi non sindacabile in mancanza di specifici elementi che evidenzino una discriminazione o una mera vessazione del dipendente.D'altronde, secondo la Suprema Corte, neanche in ipotesi di trasferimento, in cui il controllo giudiziale investe la ricorrenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che legittimano il provvedimento, ed è diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell'impresa, detto controllo può essere dilatato fino a comprendere il merito della scelta operata dall'imprenditore. Si tratta di principi che ormai hanno rinvenuto un definitivo conforto nella disciplina introdotta dal cd. Collegato lavoro (L.183/2010) che, all'art. 30 ribadisce come in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente.In tale prospettiva, secondo la S.C., la decisione della Corte di merito, secondo cui si sarebbe realizzata una violazione dei principi di correttezza e buona fede solo perché la dismissione delle lavorazioni alle quali era addetta la ricorrente non era in atto nè imminente, non appare condivisibile. E, infatti, una violazione dei principi di buona fede e correttezza – come previsti dagli artt. 1175 e 1375 cod. civ., – si realizza solo allorquando il datore di lavoro, pur avendo la disponibilità di alternative opzioni organizzative del proprio assetto aziendale, non le utilizzi abusando del proprio diritto e danneggiando l'altra parte. Ma, considerata la incontroversa effettività della scelta di delocalizzazione delle lavorazioni, la mancata evidenza di alcuna situazione di discriminazione ai danni della lavoratrice o di lesione di diritti della predetta derivanti da specifici accordi contrattuali, una simile violazione dei summenzionati principi non è rinvenibile né della sua sussistenza è stata data compiuta argomentazione nella decisione della Corte territoriale. Alla stregua delle argomentazioni svolte, la S.C., quindi, con la sentenza in epigrafe, accoglie il ricorso e cassa la sentenza con rinvio alla Corte distrettuale perché provveda a scrutinare compiutamente la vicenda considerata, attenendosi ai principi di diritto innanzi enunciati.

Nozione di mobbing

Cass. Sez. Lav., 4 novembre 2021, n. 31742

Pres. Torrice; Rel. Di Paolantonio; Ric. A.O.P.L.; Controric. S.M.Mobbing – Patologia depressiva – Risarcimento del danno – Nesso di causalità – Accertamento – Necessità – Preesistente patologia – Irrilevanza

Sussiste la responsabilità per mobbing nel caso in cui l'azienda non abbia salvaguardato la salute psichica della dipendente la quale, rientrata in servizio dopo l'assenza per maternità, sia stata denigrata dal personale medico del reparto, sottoposta a forme eccessive di controllo, assegnata allo svolgimento di mansioni che implicavano l'utilizzazione di macchinari nuovi senza prima ricevere un'adeguata formazione. In tal caso per la verifica del nesso di causalità ai fini del riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale, bisogna accertare che la patologia depressiva di cui la dipendente soffra sia stata direttamente determinata dalla matrice stressante dell'organizzazione che ha pressato una personalità i cui meccanismi di risposta non sono del tutto efficaci.

NOTA

La Corte d'Appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale di Lodi che aveva accolto il ricorso proposto dalla lavoratrice, dopo aver ritenuto provata la condotta inadempiente del datore di lavoro integrante mobbing e dequalificazione professionale. Il giudice d'appello ha condiviso le conclusioni alle quali il Tribunale era pervenuto quanto alla responsabilità dell'azienda, che non aveva salvaguardato la salute psichica della dipendente al rientro dalla maternità. In relazione al nesso causale, la Corte milanese ha osservato che «lo stesso non poteva essere escluso per il solo fatto che la dipendente avesse una "personalità con meccanismi di risposta non del tutto efficaci", atteso che il problema del concorso di cause va affrontato facendo applicazione del principio di equivalenza di cui all'art. 41 c.p., applicabile anche nei giudizi di responsabilità civile».Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l'Azienda Ospedaliera per violazione e falsa applicazione dell'art. 1223 cod. civ. in tema di accertamento del nesso causale. In particolare, dopo aver richiamato le considerazioni espresse dal consulente tecnico d'ufficio in merito alla patologia dalla quale la lavoratrice era già in precedenza affetta, la ASL ha addebitato al giudice d'appello di avere quantificato il danno risarcibile omettendo di considerare l'incidenza del quadro patologico preesistente del quale, invece, occorreva tener conto ai fini dell'accertamento del nesso causale e del quantum del risarcimento.La Corte di legittimità ha rigettato il ricorso ricordando il costante orientamento secondo il quale «in base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., qualora la condotta abbia concorso insieme a circostanze naturali alla produzione dell'evento del quale costituisce un antecedente causale necessario, l'autore del fatto illecito è da ritenere responsabile, in base ai criteri della causalità naturale, di tutti i danni che ne sono derivati; lo stato di salute anteriore della vittima può assumere rilevanza ai fini della quantificazione del risarcimento, nel rispetto del principio della causalità giuridica, solo qualora in epoca antecedente al fatto illecito il danneggiato fosse già affetto da patologia con effetti invalidanti, sui quali si è innestata la condotta antigiuridica, determinando un aggravamento che, in assenza del fattore sopravvenuto, non si sarebbe prodotto; in quest'ultima ipotesi il giudice è tenuto a stimare il danno biologico tenendo conto della patologia pregressa, perché la lesione manifestatasi all'esito dell'azione illecita non è nella sua interezza una conseguenza immediata e diretta di quest'ultima, ma lo è soltanto per la parte che, secondo il giudizio controfattuale, non si sarebbe verificata in assenza della condotta antigiuridica tenuta dal danneggiante; alla preesistenza di una patologia non può, invece, essere assimilato un mero "stato di vulnerabilità", ossia una "predisposizione" non invalidante in sé, che non esclude né la causalità materiale, per il principio dell'equivalenza delle cause, né quella giuridica, perché il danno risulta comunque conseguenza diretta ed immediata dell'azione illecita».Secondo la Corte di Cassazione, la Corte di merito, con un accertamento di fatto non censurabile in sede di legittimità, ha riscontrato che nella specie la patologia invalidante, seppure favorita da un fattore predisponente, era insorta solo a seguito della condotta tenuta dal datore di lavoro che aveva agito come concausa dell'evento dannoso e non come mero fattore di aggravamento di una patologia preesistente.

Demansionamento e termine di prescrizione per il risarcimento del danno

Cass. Sez. Lav., 4 novembre 2021, n. 31558

Pres. Berrino; Rel. Lorito; Ric. V.F.; Controric. M. S.p.A.

Demansionamento – Illecito permanente – Diritto al risarcimento del danno – Dies a quo – Adibizione a nuove mansioni – Necessità

La natura di illecito permanente della condotta demansionante fa si che la pretesa risarcitoria sia destinata a rinnovarsi in relazione al perpetrarsi dell'evento dannoso, impedendo il decorso della prescrizione fino al momento in cui il comportamento contra jus non sia cessato, con conseguente insussistenza di limiti alla proposizione della domanda ed al conseguente soddisfacimento del diritto ad essa sotteso per tutta la durata in cui la condotta illecita è stata perpetuata, seppur entro i termini della prescrizione di legge

NOTA

La Corte di Appello di Milano, in parziale riforma del provvedimento reso dal giudice di prime cure, accertava la ricorrenza di una ipotesi di dequalificazione professionale in ragione dell'improvvisa adibizione del lavoratore, originariamente assunto con mansioni di capo reparto, allo svolgimento di funzioni di mero tecnico di zona addetto alle acque reflue.Secondo la Corte distrettuale, la condotta datoriale era idonea a pregiudicare il bagaglio professionale acquisito dalla parte lavoratrice, con conseguente risarcibilità dei pregiudizi di natura patrimoniale e non patrimoniale patiti nel medio periodo. Tuttavia, secondo i giudici di merito, le richieste risarcitorie azionate dal prestatore potevano trovare ristoro solo dal momento in cui quest'ultimo aveva contestato l'illegittimo mutamento di mansioni essendosi realizzata, per il pregresso lasso temporale, una ipotesi di sostanziale acquiescenza rispetto alla determinazione datoriale.Avverso la statuizione del secondo giudice ha promosso ricorso in cassazione in lavoratore lamentando, essenzialmente, la sussumibilità della condotta dequalificante nella categoria dell'illecito permanente e la individuazione del dies a quo dal quale far decorrere la prescrizione dal momento in cui era venuta meno la condotta illecita, con conseguente irrilevanza dell'intervenuta contestazione del lavoratore ai fini del decorso del termine prescrizionale.Ebbene, la Corte di Cassazione, nell'accogliere il ricorso spiegato dal lavoratore, ha ribadito come la condotta demansionante del datore di lavoro ha «natura di illecito permanente (…) impedendo il decorso della prescrizione fino al momento in cui il comportamento contra jus non sia cessato». Conseguentemente, secondo i giudici di legittimità, l'assunto abbracciato dalla Corte di Appello secondo il quale «i danni alla professionalità sono risarcibili solo a partire dal momento in cui il lavoratore ha formalmente contestato al datore di lavoro la nuova collocazione in azienda», non è conforme al quadro ordinamentale di riferimento tenuto conto della fisionomia dell'illecito in questione.

Trasferimento del lavoratore per incompatibilità ambientale

Cass. Sez. Lav., 5 novembre 2021, n. 32178

Pres. Torrice; Rel. Marotta; Ric. R.L.; Controric. A.U.L.

Trasferimento per incompatibilità ambientale – Natura disciplinare – Esclusione – Esigenze tecniche, organizzative e produttive – Necessità

Il trasferimento per incompatibilità aziendale/ambientale, trovando la sua ragione nello stato di disorganizzazione e disfunzione dell'unità produttiva/amministrazione, va ricondotto alle esigenze tecniche, organizzative e produttive, di cui all'art. 2103 cod. civ., piuttosto che, sia pure atipicamente, a ragioni punitive e disciplinari, con la conseguenza che la legittimità del provvedimento datoriale di trasferimento prescinde dalla colpa (in senso lato) dei lavoratori trasferiti, come dall'osservanza di qualsiasi altra garanzia sostanziale o procedimentale che sia stabilita per le sanzioni disciplinari.

NOTA

La Corte di Appello di Lecce confermava la pronuncia di primo grado che aveva respinto la domanda proposta dal lavoratore nei confronti della datrice di lavoro, e volta ad ottenere la reintegra nel posto di capo sala presso il I gruppo operatorio del P.O. di Lecce, sul presupposto di un suo illegittimo allontanamento da tale reparto a seguito di procedimento disciplinare che non aveva avuto quale esito alcuna sanzione, ed il risarcimento per il danno biologico, morale e professionale a causa della mortificazione subita in azienda oltre che per i "comportamenti vessatori" posti in essere ai suoi danni. La Corte territoriale considerava legittimo «l'operato dell'Azienda che aveva collocato il R. in un altro reparto operatorio ma con mansioni equipollenti a quelle da lui precedentemente svolte, senza alcun pregiudizio per la posizione economica e retributiva", rilevando che "il malcontento manifestato dalla maggior parte dei dipendenti del reparto del I gruppo operatorio verso il R., a causa del comportamento ‘rigido' tenuto nei loro confronti dal capo sala, fosse stato in modo appropriato considerato dall'Azienda che aveva disposto lo spostamento del R. per salvaguardare l'interesse prevalente a mantenere un ambiente sereno, anche in considerazione delle funzioni delicate di collaborazione ed organizzazione necessarie in un reparto operatorio, non essendo ipotizzabile, per converso, lo spostamento altrove della maggior parte degli addetti al I gruppo operatorio, a pena di disarticolarne la struttura».La Corte di Appello di Lecce evidenziava, inoltre, che «nessuna prova di "attività persecutoria" e mobbizzante fosse stata allegata dal ricorrente (oltre a non esser presente alcuna domanda espressa in tal senso) e che non vi fosse alcuna condotta arbitraria nel potere organizzativo dell'Azienda».Il lavoratore impugnava, quindi, la sentenza di secondo grado.La Suprema Corte dichiara inammissibile il ricorso del lavoratore, ritenendo, peraltro, immune da vizi l'iter argomentativo della Corte territoriale, che si è uniformata al consolidato orientamento della stessa secondo cui «la sussistenza di una situazione di incompatibilità tra il lavoratore ed i suoi colleghi o collaboratori diretti, che importi tensioni personali o anche contrasti nell'ambiente di lavoro comportanti disorganizzazione e disfunzione, concretizza un'oggettiva esigenza di modifica del luogo di lavoro e va valutata in base al disposto dell'art. 2103 cod. civ., con conseguenza possibilità di trasferimento del lavoratore, sulla base di comprovate ragioni tecniche organizzative e produttive; ed infatti, la situazione di incompatibilità riguarda situazioni oggettive o situazioni soggettive valutate secondo un criterio oggettivo, indipendentemente dalla colpevolezza o dalla violazione di doveri d'ufficio del lavoratore, causa di disfunzione e disorganizzazione, non compatibile con il normale svolgimento dell'attività lavorativa (v., Cass. 4 maggio 2017, n. 10833; Cass. 24 ottobre 2019, n. 27345)».La Suprema Corte conferma, dunque, la decisione della Corte territoriale, che aveva ritenuto legittimo l'operato della datrice di lavoro, che, a seguito del «malcontento manifestato dalla maggior parte dei dipendenti del reparto», a causa del comportamento "rigido" tenuto nei loro confronti dal capo sala, aveva trasferito quest'ultimo in un altro reparto (con mansioni equivalenti a quelle precedentemente svolte), per salvaguardare «l'interesse (prevalente) a mantenere un ambiente sicuro e sereno, soprattutto in considerazione del delicato contesto di una sala operatoria».In sostanza la Corte di Cassazione ritiene che «in tal caso, il trasferimento è subordinato ad una valutazione discrezionale dei fatti che fanno ritenere nociva, per il prestigio ed il buon andamento dell'ufficio, l'ulteriore permanenza dell'impiegato in una determinata sede».

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