Contenzioso

Pubblico impiego, autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale

di Marco Tesoro

La facoltà del datore di riattivare il procedimento disciplinare a prescindere dall'irrevocabilità della sentenza penale di condanna non comporta alcuna violazione del principio di non colpevolezza ex art. 27 Cost.

Così la Corte di cassazione con la sentenza n. 41892 del 29 dicembre 2021.

Il caso trae origine dalla richiesta di rinvio a giudizio notificata nel 2012 ad una dipendente del Ministero dello Sviluppo Economico, per il reato di truffa ai danni dello Stato in relazione ad assenze ingiustificate occultate con la falsa attestazione della presenza in servizio.

Ricevuta la comunicazione, l'UPD contestava l'addebito alla dipendente e contestualmente sospendeva il procedimento disciplinare ai sensi dell'art. 55-ter del D. Lgs. n. 165/2001.Nel 2016, il Tribunale penale di Bologna condannava in primo grado la dipendente per i reati contestati e di conseguenza l'UPD riattivava il procedimento disciplinare sospeso, concludendolo con l'irrogazione del licenziamento.

La dipendente impugnava il licenziamento e il Tribunale condannava il Ministero alla reintegra, con sentenza riformata dalla Corte d'Appello per cui l'amministrazione non era tenuta ad attendere la definizione del processo penale, perché l'art. 55-ter citato consente la riattivazione del procedimento disciplinare una volta acquisiti gli elementi sufficienti a dimostrare la fondatezza dell'addebito disciplinare.

Nel merito, la Corte territoriale riteneva provati gli addebiti contestati in base alla produzione documentale fornita e ne riconosceva la gravità.

La dipendente ricorreva in Cassazione sostenendo, per quanto di nostro interesse, che l'amministrazione avrebbe potuto riattivare il procedimento disciplinare solo a seguito della formazione di un giudicato penale. Rilevava che il Ministero, dopo la riattivazione del procedimento disciplinare, non aveva acquisito alcun nuovo elemento, finendo così per attribuire alla sentenza di primo grado gli stessi effetti di una sentenza definitiva, in violazione del principio costituzionale di non colpevolezza.

La Corte di cassazione, investita della questione, rigetta le pretese della ricorrente chiarendo il rapporto tra procedimento disciplinare e penale nel pubblico impiego.Stabilita l'applicabilità dell'art. 55-ter D. Lgs. n. 165/2001 al caso di specie, la Corte rileva che l'amministrazione, dopo aver esercitato la facoltà di sospensione del procedimento disciplinare, non era tenuta ad attendere la definizione di quello penale.

La disposizione citata, infatti, nel prevedere che il datore «può» sospendere il procedimento disciplinare fino al termine di quello penale, deve essere interpretata in base alla «ratio della disciplina e delle ragioni che stanno alla base dell'affermata autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale, che non giustificano il protrarsi della sospensione una volta che gli sviluppi del processo penale consentano la ripresa e la definizione dell'iniziativa disciplinare».

Il giudicato penale, dunque, rappresenta il termine massimo finale della sospensione ma non vincola l'amministrazione ad attendere l'irrevocabilità della sentenza penale (Cass. 12662/2019).

A conferma di ciò, gli Ermellini evidenziano come le modifiche apportate alla norma dal D. Lgs. n. 75/2017 (non applicabili alla fattispecie ratione temporis) – per cui il procedimento disciplinare può essere riattivato qualora l'amministrazione giunga in possesso di elementi nuovi e sufficienti per concludere il procedimento, ivi inclusi i provvedimenti giurisdizionali non definitivi – non hanno innovato la disciplina ma solo reso esplicita una regola già desumibile in via interpretativa dal testo previgente.

La Corte, infine, chiarisce che la facoltà di riattivare il procedimento disciplinare a prescindere dall'irrevocabilità della sentenza penale non vìola l'art. 27, co. 2, Cost., trovando applicazione anche in ambito di impiego pubblico contrattualizzato il principio per cui la presunzione di non colpevolezza «concerne le garanzie relative all'attuazione della pretesa punitiva dello Stato e non può essere applicato, in via analogica o estensiva, all'esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore suscettibile di integrare gli estremi del reato» se i fatti commessi siano gravi al punto di impedire la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro.

Sotto diverso profilo, la Corte ha riconosciuto la corretta applicazione del termine ex art. 55-ter (applicabile ratione temporis) entro cui assumere le determinazioni conclusive a seguito della riattivazione del procedimento disciplinare ed ha ritenuto legittimo l'accertamento dei fatti compiuto dal giudice di merito sulla base della documentazione prodotta e degli atti di indagine compiuti in sede penale.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©