Rassegna di Cassazione
Licenziamento collettivo e limitazione della platea dei lavoratori ad un unico reparto
Trasferimento del dipendente, presupposti
Aggressione riconducibile a rapporto personale nel tragitto casa-lavoro e infortunio in itinere
Utilizzo di videoregistrazioni per fini disciplinari
Licenziamento collettivo e limitazione della platea dei lavoratori ad un unico reparto
Cass. Sez. Lav., 9 novembre 2021, n. 32763
Pres. Raimondi; Rel. Cinque; P.M. Visonà; Ric. B. S.p.A.; Controric. M.F.
Licenziamento collettivo – Comunicazione di apertura della procedura – Obbligo di informazione – Dati incompleti o inesatti – Limitazione al controllo sindacale – Illegittimità – Effettivo controllo sindacale – Necessità
La comunicazione con cui il datore di lavoro dà inizio ad una procedura di licenziamento collettivo deve compiutamente adempiere l'obbligo di fornire ai sindacati le informazioni di cui all'art. 4, comma 3, L. 223/1991, in modo tale da consentire a questi ultimi di esercitare in modo trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla riduzione di personale, valutando la possibilità di misure alternative. Tale comunicazione è in contrasto con le norme imperative quando: a) i dati comunicati dal datore di lavoro siano incompleti o inesatti; b) la funzione sindacale di controllo e valutazione sia stata limitata; c) sussista un rapporto causale tra l'indicata carenza e la limitazione della funzione sindacale.
Licenziamento collettivo – Irregolarità della procedura – Indennità risarcitoria – Violazione dei criteri di scelta – Annullamento del licenziamento – Tutela indennitaria debole
Mentre la mera irregolarità della procedura di riduzione del personale produce soltanto conseguenze risarcitorie, la violazione dei criteri di scelta dà luogo all'annullamento del licenziamento con condanna alla reintegrazione del lavoratore e pagamento di un'indennità risarcitoria in misura non superiore alle dodici mensilità. Qualora la violazione della procedura incida sull'individuazione dei lavoratori da licenziare, comportando la mancata o arbitraria determinazione dei criteri di scelta, la tutela non potrà che essere quella reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, L. 300/1970.Licenziamento collettivo – Ristrutturazione di una unità produttiva o di un settore – Individuazione dei lavoratori da licenziare – Delimitazione ad un'unità produttiva o settore – Infungibilità – LegittimitàNel licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad una singola unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda, la comparazione, al fine di individuare i lavoratori da avviare alla mobilità, può essere limitata – ove sia giustificata dalle ragioni tecnico-produttive che hanno condotto alla scelta di riduzione del personale – agli addetti alle singole unità produttive interessate dalla ristrutturazione, dovendosi intendere come tali ogni articolazione dell'azienda che si caratterizzi per condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica e amministrativa ove si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale dell'attività, con esclusione delle articolazioni aziendali che abbiano funzioni ausiliari o strumentali. Tuttavia, tale limitazione è legittima soltanto qualora i lavoratori addetti all'unità produttiva o al reparto interessati dalla riduzione siano dotati di professionalità specifiche, infungibili rispetto a quelle dei colleghi addetti ad altri reparti.
NOTA
La Corte d'Appello di Firenze, confermando la sentenza del medesimo Tribunale, accertava l'illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore nell'ambito di un licenziamento collettivo in ragione della mancata specificazione, nelle comunicazioni di apertura e di chiusura della procedura medesima, dei motivi per cui la platea del personale da licenziare fosse stata limitata ai soli addetti al reparto esternalizzato, nonché poiché la comunicazione di apertura della procedura non indicava i motivi per cui il dipendente non avrebbe potuto essere impiegato in altre mansioni di pari livello.La società propone ricorso per Cassazione lamentando, innanzitutto, la violazione e falsa applicazione dell'art. 4, comma 3, L. 223/1991, sostenendo che la comunicazione di apertura della procedura di licenziamento collettivo fosse sufficientemente specifica e che la giurisprudenza di legittimità – nell'ipotesi di ristrutturazione di un solo reparto aziendale – ammette che la comparazione tra i lavoratori ai fini di identificare quelli da licenziare possa essere limitata al personale ivi addetto.La Suprema Corte ritiene il motivo infondato. Secondo la giurisprudenza ormai consolidata, la comunicazione di apertura della procedura di licenziamento collettivo deve adempiere compiutamente l'obbligo di fornire ai sindacati le informazioni richieste dalla legge, in modo da consentire a questi ultimi di esercitare un effettivo controllo sulla riduzione del personale. Poiché il controllo della decisione imprenditoriale di ridurre il personale è devoluto ai sindacati ex ante, ciò che conta è che la comunicazione di apertura sia in concreto idonea a rendere le organizzazioni sindacali effettivamente edotte ed evitare maliziose elusioni da parte del datore di lavoro (Cass., 21541/2006; Cass., 7225/2007; Cass., 2516/2012; Cass. 23526/2016).La Corte d'Appello, in applicazione di tali principi, ha ritenuto che la mancanza di specificazione circa le ragioni che impedivano di evitare il licenziamento con il trasferimento del dipendente in un altro reparto, nonché la carenza di indicazioni in merito all'autonomia dei reparti ed all'infungibilità delle mansioni svolte, si fossero tradotte in un'incompleta informazione con conseguente illegittimità della procedura e del licenziamento. Con un diverso motivo di ricorso, la società lamentava la violazione e falsa applicazione degli artt. 4, commi 3 e 12, e 5, commi 1 e 3, L. 223/1991, in ordine agli effetti dei suddetti vizi della comunicazione di apertura, nonché la violazione e falsa applicazione dell'art. 18, commi 4 e 5, L. 300/1970, in ordine alla tutela applicabile al licenziamento, sostenendo che i giudici di merito avessero erroneamente disposto la reintegrazione del lavoratore con pagamento della retribuzione dal licenziamento alla reintegrazione medesima, anziché condannare la società al mero pagamento di un'indennità risarcitoria di importo compreso tra le 12 e le 24 mensilità.La Corte di Cassazione ritiene anche questi motivi di ricorso infondati. Come più volte chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, mentre la mera irregolarità della procedura di licenziamento collettivo produce conseguenze risarcitorie, la violazione dei criteri di scelta dà luogo all'annullamento del licenziamento con condanna alla reintegrazione del lavoratore e pagamento di un'indennità in misura non superiore a 12 mensilità (Cass. 2587/2018; Cass. 19010/2018). Peraltro, qualora il vizio della comunicazione (di apertura e/o di chiusura) consista nell'insussistenza di elementi di fatto che incidano sulla corretta applicazione dei criteri di scelta, allora la violazione non sarà meramente formale, ma si riverbererà sui licenziamenti in modo sostanziale – comportando una lesione del diritto del singolo lavoratore alla conservazione del posto di lavoro – e la tutela applicabile non potrà che essere quella reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, L. 300/1970 (Cass. 19010/2018).Anche i suddetti principi erano stati applicati correttamente dai giudici di merito.Con un ulteriore motivo di ricorso, la società lamentava la violazione dell'art. 5, L. 223/1991, e degli artt. 1175 e 1375 cod. civ., relativamente all'applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare.A tal proposito, la Suprema Corte ribadisce, in via preliminare, la consolidata nozione di unità produttiva, definita come un'articolazione dell'azienda che sia caratterizzata «per condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica e amministrativa ove si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un elemento essenziale della attività, con esclusione delle articolazioni aziendali che abbiano funzioni ausiliari o strumentali» (Cass. 26376/2008; Cass. 13795/2012). La Corte continua chiarendo che la delimitazione della platea dei lavoratori da licenziare ad una sola unità produttiva o reparto aziendale è legittima soltanto qualora il progetto di ristrutturazione si riferisca soltanto a tale unità o reparto, purché il datore di lavoro indichi nella comunicazione di apertura di licenziamento collettivo sia le ragioni che limitino i licenziamenti a tale unità o reparto, nonché le ragioni per cui non sia possibile ovviare ai licenziamento con il trasferimento dei lavoratori ad un'altra unità o reparto (Cass. 4678/2015; Cass., 22178/2018; Cass. 32387/2019). Inoltre, affinché tale delimitazione sia legittima, gli addetti all'unità produttiva o al reparto oggetto di ristrutturazione devono essere dotati di professionalità specifiche e infungibili rispetto alle altre (Cass. 17177/2013; Cass. 203/2015; Cass., 19105/2017; Cass., 32387/2019).Nella fattispecie in esame, la procedura di licenziamento collettivo aveva interessato singole posizioni lavorative che non necessitavano di particolare addestramento né di speciali competenze rispetto ad altre posizioni, del medesimo livello contrattuale, non coinvolte nella procedura. La comparazione tra i lavoratori sarebbe, quindi, dovuta avvenire tra tutti i dipendenti con professionalità equivalenti inquadrati nello stesso livello, senza tener conto soltanto delle mansioni assegnate ma anche delle capacità professionali degli addetti alle mansioni da sopprimere e mettendo a confronto tutti coloro che fossero in grado di svolgere le mansioni proprie dei reparti esclusi dalla procedura di licenziamento collettivo. Tali aspetti avrebbero altresì dovuto emergere dalla comunicazione di apertura della procedura, in modo da consentire ai sindacati di verificare il nesso tra le ragioni che determinavano l'esubero e i lavoratori da licenziare (Cass., 2429/2012; Cass. 4678/2015).Come correttamente rilevato dai giudici di merito, nel caso in esame ciò non era stato fatto, con conseguente illegittimità dei licenziamenti.Per tutte le ragioni che precedono, il ricorso viene rigettato.
Trasferimento del dipendente, presupposti
Cass. Sez. Lav., 8 novembre 2021, n. 32506
Pres. Tria; Rel. Lorito; Ric. D.R.; Contr. S. S.p.A.
Trasferimento del dipendente – Art. 2103 c.c. – Presupposto – Ragioni organizzative e produttive – Necessità – Prova della inutilizzabilità nella sede originaria – Esclusione
L'art. 2103 c.c. richiede come unico presupposto di legittimità la sussistenza di "comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive", restando circoscritto il controllo giudiziale all'accertamento del nesso di causalità tra il provvedimento di trasferimento e le predette ragioni poste a fondamento della scelta imprenditoriale, senza che sia necessaria la prova dell'inevitabilità di tale scelta. Infatti, in tali casi non è ravvisabile un onere del datore di lavoro analogo a quello, invece, sussistente in caso di licenziamento per soppressione del posto di lavoro di provare l'inutilizzabilità del dipendente nella sede originaria in altra collocazione.
NOTA
La Corte d'Appello di Napoli confermava la sentenza di primo grado del Tribunale del medesimo luogo con cui era stata respinta la domanda di un lavoratore di accertamento dell'illegittimità del trasferimento disposto nei suoi confronti dal datore di lavoro, dalla sede di Napoli a quella di Milano. In particolare, la Corte territoriale rigettava le richieste del dipendente di essere reintegrato presso l'originaria sede di lavoro ed il risarcimento dei danni patiti, sul presupposto che: (a) le motivazioni addotte a sostegno del provvedimento datoriale – ovvero la significativa riduzione dell'attività nel settore in cui operava il lavoratore – erano coerenti con la lettera di comunicazione; (b) la posizione assegnata presso la sede di Milano era sostanzialmente equivalente a quella in precedenza rivestita; (c) il trasferimento era giustificato dalla diminuzione di fatturato della società, da cui era scaturita la necessità di riduzione dell'organico presso la sede di Napoli.Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso in Cassazione censurando la sentenza sotto diversi profili, in particolare, sostenendo che la Corte d'Appello non aveva sufficientemente indagato la motivazione alla base del trasferimento in quanto, a suo dire, la circostanza della riduzione dell'attività nel settore in cui operava il lavoratore risultava smentita da diverse circostanze oggettive, quali la assunzione di un nuovo dipendente proprio nel settore cui era addetto il ricorrente, dalle testimonianze acquisite al processo e dal conto economico che evidenziava un aumento nell'anno del trasferimento rispetto all'anno precedente.La Suprema Corte – nel confermare la statuizione della Corte d'Appello – osserva preliminarmente che l'art. 2103 c.c. richiede, quale unico presupposto di legittimità del trasferimento del dipendente, la sussistenza di «comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive».Da ciò ne consegue che – secondo la Cassazione – il controllo giudiziale resta circoscritto all'accertamento del nesso di causalità tra il provvedimento di trasferimento e le predette ragioni poste a fondamento della scelta imprenditoriale, senza che sia sindacabile il merito di tale scelta al fine di valutarne l'idoneità o inevitabilità.Per la sentenza, dunque, non è neppure ravvisabile un onere del datore – analogo a quello, invece, sussistente in caso di licenziamento per soppressione del posto di lavoro – di provare l'inutilizzabilità del dipendente nella sede originaria in altra collocazione.Su tali presupposti, la Suprema Corte ritiene che, con riferimento al caso di specie, la Corte distrettuale abbia fatto corretta applicazione della normativa in materia di trasferimento del lavoratore e dei principi in materia elaborati da consolidata giurisprudenza di legittimità, conseguentemente, rigetta il ricorso proposto dal lavoratore, confermando la legittimità del trasferimento disposto.
Aggressione riconducibile a rapporto personale nel tragitto casa-lavoro e infortunio in itinere
Cass. Sez. Lav. 3 novembre 2021, n. 31485
Pres. Berrino; Rel. Mancino; P.M. Mucci; Ric. B.T.; Controric. I.N.A.I.L.
Infortunio in itinere – Omicidio della lavoratrice nel tragitto casa-lavoro commesso dal partner – Occasione di lavoro – Esclusione – Diritto alla tutela assicurativa – Insussistenza
È esclusa la tutela assicurativa, previdenziale e solidaristica, nel caso in cui la causa violenta dell'evento occorso al lavoratore, sul luogo o sulle vie del lavoro, sia stata integrata dal comportamento doloso del terzo riconducibile ai rapporti personali tra l'aggressore e la vittima e, pertanto, del tutto estranei all'attività lavorativa, nel qual caso il collegamento tra evento lesivo e attività lavorativa, comprensiva del percorso da e per il lavoro, risulta basato su una mera coincidenza cronologica e topografica, tale da escludere la possibilità di ritenere configurata l'occasione di lavoro.
NOTA
La Corte d'appello di Bari, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda promossa dalla madre di una lavoratrice, volta ad ottenere la rendita ai superstiti per l'infortunio in itinere occorso alla figlia, aggredita e uccisa mentre si recava al lavoro. La Corte territoriale, premettendo che l'aggressione mortale dovesse ascriversi a un raptus passionale dell'aggressore, conosciuto dalla lavoratrice in chat, condannato a pena detentiva per omicidio premeditato, escludeva, nella specie, la configurabilità di un infortunio in itinere suscettibile di tutela assicurativa.Avverso tale sentenza ricorreva davanti la Corte di Cassazione la madre della lavoratrice sostenendo che i «fatti, come ricostruiti e non contestati, avrebbero dovuto far ritenere provata la vera e propria occasione di lavoro tra evento e percorso per recarsi al lavoro e non una mera coincidenza topografica e cronologica, per esservi tutti gli elementi dimostrativi della circostanza che la povera lavoratrice sarebbe stata ancora viva se quella mattina non si fosse recata al lavoro o non avesse percorso quella strada» e che era provato come l'attività lavorativa era la «specifica condizione che aveva reso possibile l'omicidio, in considerazione della particolarità dei luoghi poco frequentati al momento dello spostamento, dell'orario, di primissima mattina, e della conoscenza degli stessi da parte dell'omicida che, per tali ragioni, aveva potuto agire indisturbato e pianificare la sua azione delittuosa».La Corte di legittimità rigetta il ricorso considerando un precedente deciso dalle Sezioni Unite, ritenendo che «il discrimine per la protezione assicurativa del lavoratore aggredito nel percorso obbligato tra casa e sede lavorativa è dunque che il tragitto per o dalla sede lavorativa abbia semplicemente costituito il nesso di occasionalità necessaria con comportamenti del terzo sfociati in episodi delittuosi diretti a colpire vittime di un intento criminoso scelte a caso, agevolandoli o rendendoli possibili, mentre non costituisce evento protetto, meritevole della protezione assicurativa e solidaristica, la situazione di pericolo individuale che abbia esposto all'azione delittuosa dell'aggressore la sola vittima, per effetto dei rapporti interpersonali e, dunque, extra lavorativi». Secondo la Corte quindi «diversamente dalla prospettazione difensiva della ricorrente, che ravvisa l'occasione di lavoro nel tragico evento occorso alla giovane lavoratrice, la non estraneità dell'autore dell'efferato delitto e il movente personalizzato e non indiscriminato, diretto a colpire esclusivamente la vittima designata e non chiunque si fosse recato al lavoro quella mattina, hanno reciso qualsivoglia nesso con l'attività lavorativa e fatto assurgere a marginale il collegamento tra il tragico evento occorso e il tragitto obbligato».
Utilizzo di videoregistrazioni per fini disciplinari
Cass. Sez. Lav., 9 novembre2021, n. 32683
Pres. Raimondi; Rel. Cinque; P.M. Celeste; Ric. L.F. Controric. M. S.r.l.Licenziamento per giusta causa – Furto di merce aziendale – Utilizzo videoregistrazioni – Autorizzazione DTL per installazione di impianti di videosorveglianza precedente al 2015 – Clausola che vieta l'uso delle videoregistrazioni per fini disciplinari – Incompatibilità con nuovo art. 4 Stat. Lav. – Nullità della clausola – Legittimità dell' utilizzo delle videoregistrazioni – Sussiste
Quando l'illegittimità per contrasto alla legge sopravvenuta riguardi una singola clausola che, in relazione al contesto dell'atto in cui è inserita, si manifesti con profili di scindibilità e di autonomia, non vi è ragione per non applicare il principio "utile per inutile non vitiatur" e, quindi, ritenere il provvedimento ancora valido ed efficace e la clausola apposta "tamquam non esset".L'autorizzazione della Direzione Territoriale del Lavoro del 7.10.2014, non può reputarsi in ogni caso idonee, a rendere inutilizzabili le informazioni raccolte ai fini disciplinari perché la clausola che imponeva tale limite, da considerare autonoma e scindibile rispetto al contesto del provvedimento, doveva ritenersi successivamente caducata e, quindi, tamquam non esset, in quanto in contrasto con la disposizione di cui all'art. 4 legge n. 300 del 1970 come modificata con le novelle del 2015 (che qui ci interessa) e del 2016.
NOTA
La fattispecie oggetto della sentenza in commento riguarda il licenziamento per giusta causa di un dipendente, confermato sia in primo grado che dalla Corte d'Appello di Bari. In particolare, a seguito della mancanza di alcuni prodotti emersa dalle normali verifiche di inventario, la società datrice di lavoro effettuava ulteriori controlli a mezzo delle telecamere di sicurezza installate e scopriva la sottrazione furtiva di merce aziendale da parte del dipendente. La Corte territoriale ha ritenuto legittimo il licenziamento in quanto (i) l'installazione delle telecamere era stata autorizzata dalla Direzione Provinciale del lavoro e i dipendenti erano stati debitamente informati nel pieno rispetto dell'art. 4 Stat. Lav., (ii) gli addebiti contestati al lavoratore erano stati confermati in sede istruttoria e (iii) la condotta del dipendente era idonea a giustificare il licenziamento per giusta causa.Il dipendente ricorreva per cassazione, lamentando, per quel che qui interessa, la violazione dell'art. 4 Stat. Lav., poiché il verbale di autorizzazione della Direzione provinciale del lavoro prevedeva che le immagini registrate non potessero essere utilizzate in nessun caso per eventuali accertamenti sull'obbligo di diligenza da parte dei lavoratori né per l'adozione di provvedimenti disciplinari.La Corte di Cassazione, in merito a tale motivo, ha innanzitutto osservato che il verbale di autorizzazione recava la data del 7 ottobre 2014, era dunque precedente alla riforma dell'art. 4 Stat. Lav. del 2015 e 2016 (d.lgs. 14 settembre 2015, n. 15 e d.lgs. 24 settembre 2016, n. 185), che ammette l'impiego di impianti audiovisivi e di altri strumenti per la tutela del patrimonio aziendale e l'utilizzo delle informazioni così raccolte a tutti fini connessi al rapporto di lavoro purché ne sia stata data adeguata informativa al lavoratore. Pertanto, prosegue la Suprema Corte, la questione di diritto da affrontare concerne la «interferenza che può aversi tra una autorizzazione amministrativa alla utilizzabilità degli impianti, rilasciata prima della novella legislativa dell'art. 4 della legge n. 300 del 1970, con limiti precisi relativamente all'uso delle informazioni e, in particolare, per l'adozione dei provvedimenti disciplinari, ed il nuovo dettato della normativa, vigente al momento dell'adottato licenziamento, che consente, invece, l'utilizzabilità delle informazioni a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro.». In tali ipotesi, ritiene la Cassazione, una nuova autorizzazione è necessaria solo allorché questa risulti, nel suo contenuto sostanziale, in contrasto con il nuovo testo legislativo, rendendo illegittima l'autorizzazione stessa. Diversamente, quando il contrasto riguardi una sola clausola occorre verificare l'inscindibilità o meno della stessa dal resto dell'atto in cui è inserita. Se la clausola risulta autonoma e scindibile, in virtù del principio generale di conservazione degli atti giuridici, è possibile ritenere il provvedimento ancora valido ed efficace e la clausola come non apposta. Nel caso di specie, conclude la Corte di Cassazione, la clausola che limita l'utilizzabilità delle informazioni raccolte tramite le telecamere è da ritenersi scindibile rispetto alle altre clausole dell'autorizzazione – in ragione della mancata trascrizione integrale del testo del verbale di autorizzazione da parte del ricorrente che non permette di valutare un'eventuale inscindibilità – e, dunque, tamquam non esset in quanto in contrasto con il testo dell'art. 4 Stat. Lav. come modificato dalla novella legislativa. Pertanto, la Suprema Corte, integrata in tal senso la motivazione del Corte d'Appello di Bari e ritenendo anche gli altri motivi di ricorso non meritevoli di accoglimento, rigetta il ricorso.