Contenzioso

Rifiuto del lavoratore a trasferirsi nella nuova sede e licenziamento disciplinare: profili di legittimità

di Enrico De Luca e Luca Cairoli

Con ordinanza 4404/2022 del 10 febbraio, la Cassazione torna a esprimersi circa i profili di legittimità del licenziamento (per giusta causa) intimato al lavoratore sul presupposto del grave inadempimento legato al rifiuto di assoggettarsi al trasferimento ad altra sede. Con l'ordinanza in commento, la Suprema Corte ha stabilito che, anche in ipotesi di trasferimento che violi l'articolo 2103 del codice civile, il lavoratore non è legittimato a non prestare la propria prestazione lavorativa quando il rifiuto violi il principio di buona fede.

L'ordinanza in commento trae origine da una complessa vicenda giudiziale instauratasi a seguito del licenziamento per giusta causa intimato da una nota compagnia telefonica a un suo dipendente che, a seguito di trasferimento motivato dalla soppressione dell'unità organizzativa di appartenenza, si era rifiutato di recarsi presso la nuova sede di lavoro.

Nel primo grado di giudizio, il Tribunale di Potenza aveva accolto le domande proposte dal lavoratore volte a impugnare il provvedimento datoriale di trasferimento nonché il successivo licenziamento, intimatogli per il rifiuto di raggiungere la nuova sede di lavoro.

Con sentenza 566 del 2011 la Corte d’appello di Potenza, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva invece ritenuto illegittimo il trasferimento e il conseguente licenziamento, con ordine al datore di lavoro di reintegrare il dipendente, sul presupposto che il datore di lavoro non si sarebbe comportato secondo buona fede e correttezza nella gestione delle conseguenze che erano derivate dalla soppressione della unità organizzativa di appartenenza, con conseguente legittimità del rifiuto del lavoratore di recarsi presso la nuova sede.

La società ricorreva dunque in Cassazione, la quale, con sentenza 28791/2017 cassava la sentenza impugnata rinviando alla Corte d’appello di Potenza in diversa composizione per procedere a nuovo esame, in quanto:

- la sentenza impugnata avrebbe dovuto limitarsi ad accertare la corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell'impresa e non avrebbe dovuto addentrarsi nel merito della scelta operata dall'imprenditore;

- il datore di lavoro aveva dimostrato la soppressione della sede di provenienza del lavoratore trasferito posta a base del trasferimento, mentre la Corte di merito, nel ritenere illegittimo il medesimo (e conseguentemente il licenziamento), era ricorsa ad argomenti che risultavano in un sindacato circa le scelte organizzative dell'imprenditore;

- il trasferimento del lavoratore presso altra sede, giustificato da oggettive esigenze organizzative aziendali, consente al medesimo di chiederne giudizialmente l'accertamento di legittimità, ma non lo autorizza a rifiutarsi aprioristicamente, senza un eventuale avallo giudiziario (conseguibile anche in via di urgenza) di eseguire la prestazione lavorativa richiesta.

La Corte d'appello di Potenza, con sentenza 207 del 14 febbraio 2020, in sede di rinvio, respingeva dunque l'appello proposto dal lavoratore avverso la pronuncia di primo grado, concludendo per l'illegittimità del rifiuto opposto dal lavoratore al raggiungimento della nuova sede e per la sussistenza della giusta causa di licenziamento.

In particolare, i giudici d'appello, a seguito della disposta cassazione, evidenziavano come, nel caso di specie, non poteva essere messa in dubbio «la sussistenza della riorganizzazione aziendale posta a base del mutamento della sede lavorativa imposta al lavoratore», trovando «riscontro positivo circa la veridicità della misura organizzativa formalmente esistente alla base del trasferimento del lavoratore».

Inoltre, nel motivare la propria decisione, i giudici d'appello richiamavano il principio di diritto secondo cui, in tema di trasferimento adottato in violazione dell'articolo 2103 del codice civile, l'inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore a eseguire la prestazione lavorativa, in quanto, in applicazione del disposto di cui all'articolo 1460, comma 2, del codice civile, il lavoratore può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario a buona fede e sia accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria.

Presupposto che, secondo il Collegio, non era riscontrabile nel caso di specie in quanto il rifiuto del lavoratore sarebbe stato opposto esclusivamente «come arma per vincere le resistenze datoriali nell'ambito di una trattativa economica», e finalizzato esclusivamente a «piegare» la volontà datoriale.

Per la cassazione di tale sentenza proponeva dunque ricorso il lavoratore.

La Corte di cassazione, con l'ordinanza in commento, ha confermato la decisione della Corte d'appello analizzando separatamente le due distinte rationes decidendi poste alla base della stessa, ritenute dagli ermellini come autonome l'una dall'altra e idonee a costituire il fondamento del dictum di rigetto dell'appello proposto dal lavoratore in seguito al rinvio disposto dalla medesima Corte.

In primo luogo, la Suprema Corte ha ritenuto che, una volta accertata la legittimità del trasferimento intimato dal datore di lavoro, i giudici d'appello ne abbiano correttamente fatto conseguire l'indebito rifiuto del lavoratore a recarsi presso la nuova sede e di conseguenza la giusta causa del licenziamento.

Alla medesima conclusione, prosegue la Corte, si sarebbe pervenuti anche prendendo in esame la vicenda alla stregua dell'articolo 1460 del Codice civile e considerando in ogni caso il rifiuto del dipendente di trasferirsi contrario ai canoni di correttezza e buona fede, giungendo dunque a confermare, anche per tale via, la legittimità del recesso datoriale.In merito alla seconda rationes decidendi, la Corte, richiamando precedenti pronunce, ricorda infatti che:

«In caso di trasferimento adottato in violazione dell'articolo 2103 del codice civile, l'inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa in quanto, vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell'articolo 1460 del codice civile, comma 2, alla stregua del quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede. La relativa verifica dovrà essere condotta sulla base delle concrete circostanze che connotano la specifica fattispecie nell'ambito delle quali si potrà tenere conto, in via esemplificativa e non esaustiva, della entità dell'inadempimento datoriale in relazione al complessivo assetto di interessi regolato dal contratto, della concreta incidenza del detto inadempimento datoriale su fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore, della puntuale, formale esplicitazione delle ragioni tecniche, organizzative e produttive alla base del provvedimento di trasferimento, della incidenza del comportamento del lavoratore organizzazione datoriale e più in generale realizzazione degli interessi aziendali, elementi questi che dovranno essere considerati nell'ottica del bilanciamento degli opposti interessi in gioco anche alla luce dei parametri costituzionali di cui agli articoli 35,36 e 41 della Costituzione».

Nel caso specifico, il rifiuto del lavoratore non è stato ritenuto conforme a correttezza e buona fede in quanto strumentalizzato all'intento di vincere le resistenze datoriali nell'ambito di una trattativa economica. Pertanto, anche prendendo in esame la vicenda per tale via, il recesso datoriale è stato ritenuto in ogni caso legittimo.

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