Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Danno alla salute del lavoratore e responsabilità del datore
Disdetta dell'accordo integrativo aziendale
Mobbing e condotte vessatorie
Licenziamento per giusta causa

Danno alla salute del lavoratore e responsabilità del datore

Cass. Sez. 6 L, 6 aprile 2022, n. 11227

Pres. Doronzo; Rel. Boghetich; Ric. C.F. S.p.A.; Controric. C.C.

Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro – Infortunio sul lavoro – Fattispecie: movimentazione dei carichi pesanti – Omessa adozione di misure protettive – Omesso controllo e vigilanza – Responsabilità ex art. 2087 cod. civ. – Sussistenza – Nesso causale – Onere della prova

Sussiste la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. nel caso in cui, pur in presenza di una direttiva datoriale che prescriva che la movimentazione dei carichi pesanti sia effettuata da una coppia di operai (e non da uno solo di essi), si accerti che il datore non abbia impedito fattivamente (ad esempio, sanzionando le violazioni) la movimentazione da soli dei carichi. L'omessa adozione delle idonee misure protettive e l'insufficiente controllo e vigilanza che di tali misure sia fatto effettivamente uso da parte del dipendente, costituisce inadempimento agli obblighi protettivi tale da esaurire il nesso eziologico dell'infortunio occorso al lavoratore, così da radicarne in via esclusiva la responsabilità.

NOTA

Nel caso di specie, un lavoratore adiva il Tribunale di Viterbo per sentir condannare la società sua datrice di lavoro al risarcimento dei danni dal medesimo subìti in conseguenza di un infortunio occorso sul lavoro. Il giudice di prime cure rigettava la suddetta domanda, mentre la Corte d'Appello di Roma, a fronte del gravame interposto dal dipendente, l'accoglieva, condannando la società datrice al pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, comprensiva del danno morale causato al lavoratore. La Corte d'Appello, in particolare, decideva facendo applicazione della norma in materia di riparto dell'onere probatorio dettata dall'art. 2697 cod. civ., la quale, in caso di domanda avente ad oggetto la condanna al pagamento del c.d. danno differenziale, prevede, ex art. 1218 cod. civ., che sia il datore di lavoro a dover dimostrare di aver adempiuto agli obblighi sul medesimo gravanti in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Rilevata, dunque, la mancanza di prova ex parte datoriale in tal senso, il Giudice del gravame riteneva sussistente la culpa in vigilando della società per non aver adeguatamente sorvegliato affinché lo spostamento di un carico pesante fosse effettuato da due lavoratori anziché – come era acceduto nella fattispecie – dal solo ricorrente, che, così, si era infortunato.Avverso tale decisione la società datrice proponeva ricorso per cassazione, lamentando, tra il resto ed in particolare, che la Corte d'Appello, nel decidere, avesse trascurato la circostanza che il datore di lavoro aveva fornito una precisa disposizione affinché i carichi pesanti fossero movimentati da due operai e che una tale direttiva veniva generalmente rispettata dai lavoratori, sorvegliati dai capi reparto, dovendo, di contro, ritenersi comportamento abnorme la condotta di un dipendente che violi le direttive aziendali nel momento in cui non sia sotto stretta vigilanza. Con l'ordinanza in commento, la Corte di legittimità ha confermato la precedente decisione di merito, rigettando il ricorso. Precisamente, pronunciandosi come da massima, la Suprema Corte ha ritenuto che il Giudice d'Appello avesse correttamente statuito e, pur dando atto della sussistenza di una direttiva datoriale che prescriveva che la movimentazione dei carichi pesanti dovesse essere effettuata da due operai (e non da uno solo), avesse correttamente accertato – sulla scorta delle risultanze istruttorie – la responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 cod. civ., per non aver impedito fattivamente – vigilando ed applicando sanzioni in caso di violazioni – la movimentazione dei carichi da parte dei singoli operai.

Disdetta dell'accordo integrativo aziendale

Cass. Sez. Lav., 6 aprile 2022, n. 11182

Pres. Tria; Rel. Pagetta; Ric. C.D. +5; Controricorrente A. S.p.A.

Accordo integrativo aziendale – Premio individuale – Disdetta accordo – Diritto a percepire il premio – Esclusione – Fonte eteronoma – Ratio

Nell'ipotesi di successione tra contratti collettivi, le modificazioni "in peius" per il lavoratore sono ammissibili con il solo limite dei diritti quesiti, dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall'esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (art. 2077 cod. civ.), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo ed individuale.

NOTA

La Corte di Appello di Brescia confermava la sentenza di primo grado che aveva rigettato le domande dei lavoratori finalizzate all'accertamento del diritto a percepire, anche dopo la disdetta dell'Accordo Integrativo Aziendale da parte della datrice di lavoro, la voce retribuiva denominata "ex premio aziendale individuale ad personam" e alla condanna della stessa datrice di lavoro al pagamento di quanto dovuto ai lavoratori con decorrenza dal giugno 2015.La Corte territoriale riteneva di escludere «che la suddetta voce retributiva costituisse, per effetto di novazione, un premio di carattere individuale, incorporato nei singoli contratti individuali e come tale insensibile a modifiche non consensuali, richiamando la giurisprudenza di legittimità consolidata circa la natura di fonte eteronoma delle disposizioni dei contratti collettivi, che dunque, in linea generale, non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali», precisando che «il tenore testuale dell'art. 22 del contratto aziendale A. 2007 non consentisse di ravvisare la volontà delle parti di mutare la natura collettiva del premio aziendale fisso in emolumento di natura individuale».I lavoratori impugnavano, quindi, la sentenza di secondo grado.La Suprema Corte rigetta il ricorso ritenendo immune da vizi l'iter argomentativo della Corte di Appello di Brescia, in quanto «il lavoratore non può pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva che più non esiste perché caducata o sostituita da altra successiva», anche in considerazione del fatto che «nessun contratto individuale (compresi quelli dei ricorrenti) ha previsto e disciplinato il premio aziendale fisso né risulta allegato (e provato) che i lavoratori ricorrenti abbiano trattato (o abbiamo dato incarico specifico all'organizzazione sindacale di trattare) con la società il diritto a percepire tale voce retributiva».La Corte di Cassazione precisa, inoltre, che «i trattamenti retributivi, come la retribuzione di risultato, e più in generale, i trattamenti accessori non rientrano nella sfera di garanzia dettata dall'art. 36 Cost., comprendendo la tutela costituzionale non tutto il complessivo trattamento contrattuale bensì solo quello che è stato definito il c.d. minimo costituzionale. Da tanto deriva che, venendo in rilievo un trattamento accessorio di derivazione collettiva, alcuna lesione al principio della retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost. può ritenersi consumata per il solo fatto della soppressione del premio in oggetto con riferimento ai lavoratori ai quali era stato erogato fino al momento della disdetta dell'accordo aziendale. Analogamente non vi è spazio per l'applicazione del principio di irriducibilità della retribuzione».

Mobbing e condotte vessatorie

Cass. Sez Lav., 8 aprile 2022, n. 11521

Pres. Manna; Rel. Sarracino; Ric. G.R.; Controric. L.L., A.C.

Mobbing – Elementi costitutivi – Condotte vessatorie – Intento persecutorio – Onere della prova – Necessità

Non è configurabile il mobbing in assenza di condotte datoriali emulative, pretestuose, persecutorie o tendenti all'emarginazione del lavoratore, di una sudditanza/sottomissione del lavoratore rispetto al superiore gerarchico e dell'intento persecutorio. Quest'ultimo, tra l'altro, segna il tratto distintivo tra le ipotesi di mera dequalificazione e quelle di mobbing in cui, sul piano strutturale, la dequalificazione costituisce solo il momento oggettivo dell'illecito datoriale, che va corroborato, sul piano soggettivo, da una volontà datoriale persecutoria.

NOTA

La Corte di Appello di Catania, confermando integralmente la sentenza di primo grado, ha negato l'ipotesi di mobbing verticale ai danni del lavoratore, posto in essere dal suo diretto superiore (c.d. bossing), conseguentemente rigettando tutte le domande risarcitorie. La Corte territoriale ha accertato che dall'istruttoria non era emersa alcuna dequalificazione, neppure per effetto dello spostamento del lavoratore tra settori di pari dignità, trattandosi di mera redistribuzione di incarichi di analoga natura, né che si potevano considerare vessatori i procedimenti disciplinari attivati nei confronti del ricorrente. In via più generale, condividendo la sentenza di prime cure, la Corte territoriale ha escluso tanto condotte datoriali emulative, pretestuose, persecutorie o tendenti all'emarginazione del lavoratore quanto una "sudditanza/sottomissione" del lavoratore rispetto al direttore; al contrario, dall'istruttoria era emerso che il conflitto personale tra il ricorrente ed il suo superiore gerarchico in un'occasione era sfociato in un'aggressione del primo ai danni del secondo. Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione per violazione degli artt. 32 Cost., 2087, 1218, 1228 e 2049 cod. civ. in quanto «nelle condotte allegate fin dal ricorso introduttivo sarebbero state ravvisabili condotte datoriali vessatorie e consistenti in ipotesi di mobbing». Nello specifico, il ricorrente ha sostenuto che il giudice territoriale avrebbe operato una valutazione atomistica degli episodi dai quali sarebbe emersa, invece, se congiuntamente valutati, la condotta vessatoria datoriale. I giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso in quanto inammissibile, traducendosi nella sostanza in una richiesta di nuova valutazione del merito della controversia, rilevando che, al contrario, i giudici di merito hanno correttamente valutato le evidenze istruttorie. Infatti, se è vero che in linea astratta, come sostiene il ricorrente, pure comportamenti leciti possono, se del caso, assumere connotati vessatori, nondimeno nel caso in oggetto i giudici di merito hanno positivamente escluso che via stato intento vessatorio, persecutorio od emulativo nelle condotte datoriali per cui è causa. Nella pronunzia della Corte territoriale si è anzi espressamente escluso che le condotte datoriali siano state finalizzate alla mortificazione ed alla emarginazione del lavoratore. Nello specifico, la Corte, nel rigettare il ricorso, ha affermato che «la decisione resa in appello esclude il mobbing sulla base dell'argomentato rilievo del difetto di prova di volontà o idoneità persecutoria nelle condotte datoriali». La Corte ha poi concluso ricordando che «è proprio l'elemento psicologico dell'intento persecutorio a segnare il tratto distintivo tra le ipotesi di mera dequalificazione e quelle di mobbing in cui, sul piano strutturale, la dequalificazione costituisce solo il momento oggettivo dell'illecito datoriale, che va corroborato, sul piano soggettivo, da una volontà datoriale persecutoria». 

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav., 14 aprile 2022, n. 12321

Pres. Raimondi; Rel. Amendola; P.M. Visonà; Ric. Omissis; Controric. Omissis

Licenziamento per giusta causa – Sentenza penale – Acquisizione degli atti del processo penale – Necessità – Insussistenza

Il giudice civile può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale già definito, ponendo alla base della propria decisione gli elementi di fatto già acquisiti e sottoponendoli al proprio vaglio critico. A tal fine, non è tenuto a disporre l'acquisizione degli atti del procedimento penale qualora ritenga sufficienti le risultanze della sola sentenza e anzi, anche laddove la sentenza penale irrevocabile sia priva di efficacia extrapenale, il giudice civile deve tener conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale e la sentenza penale non irrevocabile costituisce in ogni caso fonte di prova che il giudice civile deve esaminare e dalla quale può trarre elementi di giudizio, sia pure non vincolanti, sui dati e circostanze ivi acquisiti con le garanzie di legge.

Licenziamento per giusta causa – Sentenza penale – Attesa dell'esito degli accertamenti svolti in sede penale – Legittimità – Principio di immediatezza – Violazione – Insussistenza

Quando il fatto che da luogo al procedimento disciplinare abbia anche rilievo penale, il principio di immediatezza della contestazione non è pregiudicato dall'intervallo di tempo necessario all'accertamento della condotta del lavoratore e non può considerarsi violato dal datore di lavoro che, avendo scelto di attendere l'esito degli accertamenti svolti in sede penale al fine di un corretto accertamento del fatto, contesti l'addebito solo quando i fatti appaiano ragionevolmente sussistenti.

Licenziamento per giusta causa – Tipizzazione della contrattazione collettiva – Valenza esemplificativa – Autonoma valutazione del giudice – Ammissibilità

L'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha valenza meramente esemplificativa e non preclude un'autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all'idoneità di un grave inadempimento o di un grave comportamento del lavoratore, contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venir meno il rapporto fiduciario che deve caratterizzare il rapporto di lavoro.

Licenziamento per giusta causa – Violazione doveri fondamentali – Mancata affissione codice disciplinare – Irrilevanza

Ai fini della validità del licenziamento intimato per motivi disciplinari, non è necessaria la preventiva affissione del codice disciplinare qualora alla base del recesso vi sia una violazione di norme di legge ovvero di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili senza necessità di specifica previsione da parte del codice disciplinare medesimo.

NOTA

La Corte d'Appello di Roma, respingendo il reclamo proposto dal lavoratore, confermava la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato a seguito di una sentenza di condanna penale che aveva accertato la responsabilità del dipendente per tentata truffa perché, con artifici e raggiri, aveva indotto una persona anziana in errore, facendosi consegnare documenti, buoni fruttiferi, libretto postale e polizza vita, per poi procedere all'apertura di un libretto postale cointestato con la persona offesa su cui aveva versato somme provenienti da altro libretto intestato a quest'ultima e all'attivazione di una postepay a sé esclusivamente intestata.Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione avverso tale sentenza, lamentando, innanzitutto, la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 5, L. 604/1966, in materia di onere della prova, del principio di autonomia del processo civile rispetto a quello penale, nonché degli artt. 112, 115, 116, 230 e 146 cod. proc. civ. in materia di onere e valutazione delle prove ai fini dell'accertamento della sussistenza delle condotte contestate. In particolare, il ricorrente lamentava che i Giudici di merito avessero ritenuto provate le condotte contestate sulla base della sola analisi della sentenza penale di condanna, senza alcuna valutazione diretta dei mezzi di prova assunti nel giudizio penale. Sul punto, la Suprema Corte ritiene la sentenza impugnata conforme al principio consolidato per cui il giudice civile può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale già definito, ponendo alla base della propria decisione gli elementi di fatto già acquisiti e sottoponendoli al proprio vaglio critico. A tal fine, non è tenuto a disporre l'acquisizione degli atti del procedimento penale qualora ritenga sufficienti le risultanze della sola sentenza (in senso conforme, Cass. 15353/2012, Cass. 22200/2010, Cass. 15826/2010, Cass. 2968/1982) e anzi, anche laddove la sentenza penale irrevocabile sia priva di efficacia extrapenale, il giudice civile deve tener conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale (in senso conforme, Cass. SS. UU. 18923/2021, Cass. SS. UU. 1768/2011) e la sentenza penale non irrevocabile costituisce in ogni caso fonte di prova che il giudice civile deve esaminare e dalla quale può trarre elementi di giudizio, sia pure non vincolanti, sui dati e circostanze ivi acquisiti con le garanzie di legge (in senso conforme, Cass. 4493/2010, Cass. 23612/2004, Cass. 3626/2004).Con un separato motivo di ricorso, il lavoratore denunciava la violazione e/o falsa applicazione del principio di immediatezza della contestazione disciplinare ex art. 7, L. 300/1970, per avere la Corte d'Appello ritenuto la contestazione tempestiva nonostante essa fosse intervenuta a distanza di oltre quattro anni dai fatti di causa.Sul punto, la Suprema Corte conferma il proprio orientamento, applicato correttamente dal giudice di merito, secondo cui, quando il fatto che da luogo al procedimento disciplinare abbia anche rilievo penale, il principio di immediatezza della contestazione non è pregiudicato dall'intervallo di tempo necessario all'accertamento della condotta del lavoratore e non può considerarsi violato dal datore di lavoro che, avendo scelto di attendere l'esito degli accertamenti svolti in sede penale al fine di un corretto accertamento del fatto, contesti l'addebito solo quando i fatti appaiano ragionevolmente sussistenti (in senso conforme, Cass. 27069/2018, Cass., 5057/2016).Con un ulteriore motivo di ricorso, il dipendente denuncia la violazione o falsa applicazione del CCNL, sostenendo che le condotte contestate fossero suscettibili di essere punite con una sanzione meramente conservativa. Anche in questo caso, la Corte di Cassazione condivide la decisione dei giudici di merito, secondo cui la tentata truffa a danno di un cliente lede irrimediabilmente il rapporto fiduciario, indipendentemente dalla previsione contrattuale, che non vincola il giudice. Invero, l'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha valenza meramente esemplificativa e non preclude un'autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all'idoneità di un grave inadempimento o di un grave comportamento del lavoratore, che sia contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venir meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (in senso conforme, Cass. 13412/2020, Cass. 27004/2018, Cass. 2830/2016, Cass. 4060/2011, Cass. 5372/2004).Con l'ultimo motivo di ricorso, il lavoratore eccepisce la violazione dell'art. 7, L. 300/1970, e del CCNL, per avere la Corte d'Appello ritenuto superflua l'affissione del codice disciplinare presso la sede lavorativa della società.Anche tale motivo viene rigettato, essendo la sentenza impugnata conforme al consolidato orientamento della Corte di Cassazione secondo cui, ai fini della validità del licenziamento intimato per motivi disciplinari, non è necessaria la preventiva affissione del codice disciplinare qualora vi sia una violazione di norme di legge ovvero di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili senza necessità di specifica previsione da parte del codice disciplinare medesimo (in tal senso, Cass. 6893/2018, Cass. 22626/2013, Cass. 20270/2009, Cass. 16291/2004).

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