Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Disdetta al contratto integrativo aziendale e diritto al premio
Nozione di mobbing
Trasferimento d'azienda invalido e transazione conclusa con il cessionario
Licenziamento collettivo e centro unico di imputazione del rapporto di lavoro
Licenziamento per giusta causa

Disdetta al contratto integrativo aziendale e diritto al premio

Cass. Sez. Lav., 5 aprile 2022, n. 11072

Pres. Tria; Rel. Boghetic; Ric. Omissis; Controric. Omissis S.p.A.

Contrattazione collettiva – Successione di contratti collettivi – Modifiche in peius per i lavoratori – Ammissibilità – Limite dei diritti quesiti – Sussiste

Nell'ipotesi di successione tra contratti collettivi le modificazioni "in peius" per il lavoratore sono ammissibili con il solo limite dei diritti quesiti, dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall'esterno come fonte eteronoma di regolamento concorrente con la fonte individuale, sicché le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole di cui all'art. 2077 cod. civ.), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo ed individuale.

Retribuzione – Art. 36 Cost. – Trattamenti retributivi accessori – Retribuzione di risultato – Sfera di garanzia costituzionale – Insussistenza

I trattamenti retributivi accessori, come la retribuzione di risultato, non rientrano nella sfera di garanzia dettata dall'art. 36 Cost., comprendendo la tutela costituzionale non tutto il complessivo trattamento contrattuale, bensì solo quello che è stato definito il c.d. minimo costituzionale.

NOTA

La Corte d'Appello di Brescia, confermando la sentenza di primo grado, respingeva la domanda dei lavoratori volta all'accertamento del loro diritto a percepire la voce "ex premio aziendale individuale ad personam" anche dopo la disdetta, da parte della società, dell'accordo integrativo aziendale che lo prevedeva. In particolare, la Corte escludeva che tale voce costituisse un premio di carattere individuale incorporato nei contratti individuali e come tale insuscettibile di modifiche unilaterali, nonché che si trattasse di un diritto quesito, già entrato a far parte del patrimonio dei lavoratori, trattandosi di una mera pretesa – da parte dei lavoratori – alla stabilità nel tempo di norme collettive più favorevoli. Alla luce di ciò, il recesso della società dall'accordo integrativo determinava legittimamente la caducazione della fonte dell'obbligazione di erogare il premio.I lavoratori propongono ricorso per Cassazione denunciando, in primo luogo, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1462, 1363, 1364 e 1365 cod. civ., con riferimento all'accordo integrativo aziendale, in combinato disposto con il CCNL del settore commercio, posto che la lettura di queste ultime disposizioni renderebbe evidente che la parte fissa del salario riconosciuta ai lavoratori sia diventata indisponibile, con conseguente consolidamento del premio nel trattamento economico individuale.La Corte di Cassazione ritiene il motivo di ricorso infondato. Dopo aver ricostruito il significato e la portata dell'istituto mediante la disamina di più clausole contrattuali, il giudice di merito aveva, infatti, correttamente ritenuto che il premio di cui è causa non fosse incorporato nei singoli contratti individuali – e come tale insuscettibile di modifiche unilaterali – ma avesse invece natura collettiva – e quindi modificabile anche in peius in ipotesi di successione di contratti collettivi o di disdetta. Tale percorso interpretativo è conforme al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, nell'interpretazione del contratto collettivo, è necessario procedere al coordinamento delle varie clausole contrattuali, anche quando l'interpretazione possa essere compiuta sulla base del senso letterale delle parole, senza residui di incertezza, poiché l'espressione "senso letterale delle parole" deve intendersi come riferita all'intera formulazione letterale della dichiarazione negoziale e non già limitata ad una parte soltanto, dovendo il giudice collegare e confrontare fra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato, tenendo conto altresì del comportamento anche successivo delle parti (in senso conforme, Cass. 18969/2015, Cass. 19779/2014, Cass. 9755/2011, Cass. 3685/2010). Con un ulteriore motivo di ricorso, i lavoratori eccepiscono la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1322, 1373, 1340, 2095, 2103 cod. civ. e degli artt. 36 e 39 Cost., avendo la Corte territoriale erroneamente ritenuto che la retribuzione potesse essere modificata unilateralmente dalla società dando disdetta al contratto integrativo aziendale, rimanendo invece inalterato il contenuto della prestazione lavorativa.La Suprema Corte, richiamando il proprio consolidato orientamento, chiarisce che i trattamenti retributivi accessori, come la retribuzione di risultato, non rientrano nella sfera di garanzia dettata dall'art. 36 Cost., comprendendo la tutela costituzionale, non tutto il complessivo trattamento contrattuale, bensì solo quello che è stato definito il c.d. "minimo costituzionale" (in senso conforme, Cass. 944/2021, Cass. 20922/2018, Cass. 27138/2013, Cass. 162/2009, Cass. 15148/2008, Cass. 10465/2000, Cass. 3362/1992). Per l'effetto, avendo il premio in esame natura di trattamento accessorio di derivazione collettiva, non può ritenersi sussistente alcuna lesione al principio della retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost. per il solo fatto della soppressione del premio medesimo. Non residua neppure spazio per l'applicazione del principio di irriducibilità della retribuzione, che trova fondamento normativo nell'art. 2103 cod. civ., che implica che la retribuzione concordata al momento dell'assunzione non sia riducibile neppure a seguito di accordo tra il datore e il prestatore di lavoro e che ogni patto contrario è nullo in ogni caso in cui il compenso pattuito anche in sede di contratto individuale venga ridotto, salvo che, in caso di legittimo esercizio, da parte del datore di lavoro, dello "ius variandi" (in senso conforme, Cass. 19092/2017, Cass. 4055/2008, Cass. 16106/2003, Cass. 11362/2008, in motivazione).Infine, i lavoratori denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2077 cod. civ. in relazione all'accordo integrativo in oggetto, avendo la Corte di merito negato al premio la natura di diritto quesito, senza considerare che nel caso di specie venisse in rilievo una voce retributiva fissa, insensibile alla qualità e quantità di lavoro reso.La Corte non ritiene di accogliere neppure questo motivo di ricorso, ribadendo come nell'ambito del rapporto di lavoro sono configurabili diritti quesiti, che non possono essere incisi dalla contrattazione collettiva in mancanza di uno specifico mandato o di una successiva ratifica da parte dei singoli lavoratori, solo con riferimento a situazioni che siano entrate a far parte del patrimonio del lavoratore subordinato, come nel caso dei corrispettivi di prestazioni già rese, e non invece in presenza di quelle situazioni future o in via di consolidamento, che sono frequenti nel contratto di lavoro, da cui scaturisce un rapporto di durata con prestazioni ad esecuzione periodica o continuativa, autonome tra loro e suscettibili come tali di essere differentemente regolate in caso di successione di contratti collettivi (in senso conforme, Cass. 20838/2009, Cass. 18548/2009). Nel caso di specie, la Corte d'Appello aveva correttamente rilevato non soltanto che i lavoratori lamentavano la perdita di un corrispettivo per prestazioni che dovevano ancora rendere, ma altresì che l'emolumento in questione non aveva natura individuale e, pertanto, non era definitivamente acquisito dal lavoratore, con l'ulteriore conseguenza che a seguito di una successione di contratti collettivi ovvero di recesso dagli stessi, l'erogazione era legittimamente cessata, non configurandosi per il futuro alcun diritto quesito. 

Nozione di mobbing

Cass. Sez. Lav., 14 aprile 2022, n. 12280

Pres. Manna; Rel. De Marinis; Ric G.S.; Controric. A.U.S.L.U.

Mobbing – Intento persecutorio – Necessità

Non sussiste il mobbing in presenza di un insieme di decisioni non assunte contro il dipendente e del tutto scevre di quel carattere persecutorio che connota il mobbing.

NOTA

La Corte d'Appello di Perugia, confermando la decisione del Tribunale di Terni, rigettava l'appello del lavoratore che domandava la condanna del proprio datore di lavoro al risarcimento del danno per il mobbing asseritamente subito che lo aveva – a dire del ricorrente – costretto al prepensionamento.In particolare la Corte d'Appello non riteneva sussistente un intento persecutorio del datore di lavoro poiché le difficili condizioni operative lamentate dal lavoratore risultavano preesistenti all'assegnazione dell'ultimo incarico, né la Corte ravvisava un favor nei confronti di un altro lavoratore assegnato al medesimo incarico a seguito della rinuncia da parte del ricorrente.Avverso tale decisione proponeva ricorso per Cassazione il dipendente lamentando che la Corte di Perugia, nel non ritenere integrata la fattispecie di mobbing, avesse solo parzialmente considerato gli aspetti fattuali della vicenda ed erroneamente valorizzato situazioni pregresse.La Suprema Corte ha ritenuto i motivi di ricorso inammissibili, in quanto inidonei ad inficiare la motivazione e il relativo percorso logico della Corte d'Appello di Perugia. Infatti, correttamente la Corte territoriale aveva valorizzato le condizioni preesistenti all'assegnazione dell'incarico al ricorrente e ritenuto che dall'insieme delle decisioni assunte dal datore di lavoro, giustificate da un punto di vista organizzativo della struttura aziendale, non emergesse, nei confronti del dipendente, alcun intento persecutorio che rappresenta un elemento costitutivo del mobbing. 

Trasferimento d'azienda invalido e transazione conclusa con il cessionario

Cass. Sez. Lav., 20 aprile 2022, n. 12622

Pres. Bronzini; Rel. Pagetta; Ric. T. S.p.a.; Contr. D.M.

Trasferimento d'azienda – Invalidità – Vicende del rapporto di lavoro con il cessionario – Irrilevanza – Transazione conclusa con il cessionario – Incidenza sul rapporto con il cedente – Esclusione

Soltanto un legittimo trasferimento d'azienda comporta la continuità di un rapporto di lavoro, che resta unico ed immutato esclusivamente nella misura in cui ricorrano i presupposti di cui all'art. 2112 c.c. che, in deroga all'art. 1406 c.c., consente la sostituzione del contraente senza il consenso del ceduto. Ed è evidente che l'unicità del rapporto venga meno qualora il trasferimento sia dichiarato invalido, stante l'instaurazione di un diverso e nuovo rapporto di lavoro con il soggetto (già, e non più, cessionario) alle cui dipendenze il lavoratore "continui" di fatto a lavorare. Ne consegue che la transazione conclusa tra il lavoratore e il cessionario non sia idonea a incidere sul rapporto con la società cedente, da ritenersi ancora in essere stante l'inefficacia della cessione del ramo d'azienda.

NOTA

La Corte d'Appello di Napoli, riformando la decisione del Tribunale, respingeva l'opposizione a decreto ingiuntivo avanzata dalla società datrice e confermava il provvedimento monitorio in favore del lavoratore avente ad oggetto il pagamento della retribuzione di ottobre 2015.La corte territoriale, infatti – premesso che era passato in giudicato l'accertamento circa l'inefficacia della cessione del ramo d'azienda, al quale era addetto il lavoratore – ha ritenuto che la transazione conclusa tra la cessionaria ed il lavoratore non aveva prodotto effetti sul perdurante rapporto di lavoro tra quest'ultimo e la cedente, con conseguente ritenuta fondatezza della domanda monitoria, essendo pacifico che il lavoratore non aveva espletato altra attività lavorativa nel periodo dedotto.Avverso tale decisione, la società datrice ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza impugnata laddove ha considerato irrilevanti nei confronti della cedente gli atti estintivi del rapporto di lavoro posti in essere tra il lavoratore ed il cessionario; in questa prospettiva, la società ricorrente ha sostenuto che la cessione di ramo d'azienda, pur inefficace, non avesse dato luogo ad una duplicità di rapporti di lavoro e che sussistesse un unico rapporto al quale riferire le vicende (modificative o estintive) successive alla cessione.La Corte di Cassazione ritiene la censura infondata e rigetta il ricorso.La Suprema Corte decide come da massima, dando quindi continuità ai più recenti approdi della medesima Corte (cfr. Cass. n. 29092/2019, Cass. n.16793/2020, Cass. n. 16792/2020, Cass. n.16710/2020) i quali, sulla scia della decisione a Sezioni Unite (n. 2990/2018), hanno ritenuto che la vicenda connessa ad una cessione di azienda dichiarata inefficace, in quanto non riconducibile alla disciplina dell'art. 2112 c.c., sia connotata da una «duplicità di rapporti: uno, di continuità giuridica, con il soggetto cedente, l'altro, di fatto, con il soggetto cessionario». Tali rapporti, prosegue la Corte di Cassazione, «riconoscono il diritto del lavoratore illegittimamente ceduto di ricevere, da parte del cedente, le normali retribuzioni, insuscettibili di decurtazioni per aliunde perceptum».

Licenziamento collettivo e centro unico di imputazione del rapporto di lavoro

Cass. Sez. Lav., 11 aprile 2022, n. 11638

Pres. Doronzo; Rel. Cinque; Ric. M. S.p.A. e A. S.p.A.; Contr. D.F.

Gruppo di imprese – Codatorialità – Verifica dei requisiti – Necessità – Conseguenze – Licenziamento collettivo – Criteri di scelta – Perimetro di applicazione – Datrice di lavoro formale – Sussiste – Altre imprese del gruppo –Estensione

La configurazione di un unico centro di imputazione dei rapporti di lavoro comporta che la verifica degli esuberi – in relazione alla procedura collettiva attivata da una società del gruppo – debba essere effettuata tenendo conto della complessiva platea e, quindi, anche dei lavoratori in forza presso le altre società dell'accertato unico complesso aziendale e non solo di quelli della società formale datrice di lavoro.

NOTA

La Corte di Appello di Cagliari, sez. distaccata di Sassari, confermava la sentenza del Tribunale di Tempio Pausania con la quale, dopo aver accertato la sussistenza di un unico complesso aziendale tra le due società convenute in giudizio, aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore ricorrente all'esito di una procedura di licenziamento collettivo attivata dall'impresa formale datrice di lavoro del lavoratore, con condanna di entrambe le società, in solido, alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro oltre al pagamento dell'indennità risarcitoria prevista dall'art. 18, comma 4, L. n. 92 del 2012, a cui rinvia l'art. 5, comma 3, della l. n. 223 del 1991 (norma che disciplina i licenziamenti collettivi) e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali.La Corte di merito, in particolare, confermava la valutazione del giudice di prime cure circa la configurabilità di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro tra le due società – atteso che la messa in mobilità del lavoratore faceva riferimento alla situazione occupazionale comprensiva del personale dipendente dell'altra società convenuta che, all'epoca dell'avvio della mobilità, era stata già acquisita e controllata al 100% dalla prima impresa – e osservava che tale circostanza comportava la necessità che la verifica degli esuberi, in relazione alla procedura collettiva attivata dalla formale datrice di lavoro, dovesse essere effettuata tenendo conto della complessiva platea e, quindi, anche dei lavoratori in forza all'altra società e non solo di quelli della formale datrice di lavoro.Per la cassazione della sentenza di appello le due società hanno proposto un unico ricorso sulla base di quattro motivi di censura.La Cassazione, per quel che rileva, ritiene che la Corte d'Appello abbia fatto corretta applicazione del consolidato principio di cui in massima in tema di configurabilità di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro, precisando, altresì, che «la procedura per la dichiarazione di mobilità di cui all'art. 4 della legge n. 223 del 1991, necessariamente propedeutica all'adozione dei licenziamenti collettivi, è intesa a consentire una seria verifica dell'effettiva necessità di porre fine ad una serie di rapporti di lavoro in situazioni di sofferenza dell'impresa, e, proprio in vista di tale risultato, il comma terzo del citato art. 4 individua con estrema ampiezza i contenuti della comunicazione che il datore di lavoro è tenuto a fornire alle organizzazioni sindacali, emergendo, in particolare, che l'ambito della verifica che congiuntamente dovranno operare il datore di lavoro e le organizzazioni sindacali abbraccia l'impresa nel suo complesso e può estendersi anche a posizioni lavorative che, al momento, non risultano comprese nel trattamento di integrazione salariale, con la conseguenza che la prospettiva di mobilità, rimettendo in discussione gli equilibri complessivi dell'azienda, coinvolge tutte le posizioni lavorative, senza che sia configurabile, quindi, una necessaria coincidenza tra collocandi in mobilità e lavoratori sospesi in cassa integrazione guadagni straordinaria, ciò in specie ove si verifichino sopravvenienze rispetto alle situazioni che determinarono l'esubero del personale sospeso». Con riguardo al caso di specie, la Suprema Corte ritiene che l'iter valutativo compiuto dalla Corte territoriale in merito alla sussistenza del centro unico di interessi sia immune da censure, in quanto la sentenza impugnata ha ritenuto che gli accertati elementi di collegamento fra le società avessero travalicato, per caratteristiche e finalità, le connotazioni di una mera sinergia fra imprese consociate per sconfinare in una compenetrazione di mezzi e di attività, sintomatica della sostanziale unicità soggettiva ai fini per cui è causa. Infatti, la Corte di merito, sulla base di plurimi dati probatori, è pervenuta alla qualificazione della sostanziale unicità della struttura aziendale, valorizzando la mera apparenza della pluralità di soggetti giuridici a fronte di un'unica sottostante organizzazione di impresa, intesa come unico centro decisionale, nonché l'utilizzo diretto del personale di entrambe le compagnie da parte di una delle due.Secondo la Cassazione, dunque, conseguenza ineludibile della configurabilità, nel caso in esame, di un unico soggetto datoriale è la necessità che la procedura collettiva attivata dalla società datrice del lavoratore licenziato coinvolgesse i lavoratori in forza non solo presso tale società, ma anche presso l'altra impresa, cioè tutti i lavoratori dell'unico complesso aziendale risultante dalla integrazione delle due società, non essendo stati ritualmente dedotti e comprovati i presupposti per la delimitazione della platea dei lavoratori da licenziare al solo organico della datrice di lavoro.Conclusivamente, la Suprema Corte rigetta il ricorso e condanna le imprese ricorrenti al pagamento delle spese di lite.  

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav., 21 aprile 2022, n. 12789

Pres. Raimondi; Rel. Boghetich; Ric. S.p.A; Controric. B.F.B.

Licenziamento per giusta causa – Illegittimità – Proporzionalità della sanzione espulsiva – Insussistenza – Valutazione dell'elemento psicologico – Rilevanza – Fattispecie: capotreno che fa troppe multe per eccesso di zelo

È illegittimo, in quanto sproporzionato, il licenziamento per giusta causa del capotreno che abbia commesso irregolarità applicando contravvenzioni a proprio piacimento con riferimento ai titoli di viaggio dei passeggeri e procurandosi un vantaggio economico. Tale condotta, posta in essere con una zelante intransigenza e senza l'intenzionalità di danneggiare l'azienda, non riveste infatti il carattere di grave violazione degli obblighi contrattuali. In linea di principio la valutazione della congruità della sanzione espulsiva deve essere effettuata tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda assegnandosi, innanzitutto, rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma pure all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente e dalla qualifica rivestita, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla sua particolare natura e tipologia.

NOTA

La Corte d'appello di Venezia, confermando la sentenza del Tribunale della medesima sede, accoglieva la domanda di annullamento del licenziamento per giusta causa intimato da una società di trasporti al proprio dipendente, con mansioni di Capotreno, che aveva riscontrato un notevole numero di irregolarità su titoli di viaggio dei viaggiatori (175 nel biennio 2014/2016) procurandosi un vantaggio corrispondente alle provvigioni superiori a quelle contrattualmente previste (pari a circa 400 euro in 2 anni).La Corte di appello rilevava che «da un punto di vista soggettivo, seppur era emerso uno "zelo non comune" del dipendente, inflessibile ed estremamente puntiglioso nell'elevare contravvenzioni, gli elementi probatori raccolti non consentivano di configurare una condotta dolosa o fraudolenta costituente reato con finalità esclusive di lucro né la malafede contro l'azienda ma semmai un comportamento di imprudenza, negligenza attestata da oggettivi errori nello svolgimento dell'attività di controllo dei biglietti, e la locupletazione di provvigioni (per somma modesta se spalmata nel biennio) era un effetto indiretto "dell'eccesso di zelo"; la violazione di norme regolamentari era sanzionata, dal CCNL di settore, con misura conservativa e, inoltre, non poteva ritenersi sussistente il dolo diretto finalizzato all'appropriazione di somme o a danneggiare l'azienda o i terzi, con conseguente applicazione del regime sanzionatorio dettato dall'art. 18 comma 4, della legge n. 300 del 1970».Avverso la sentenza della Corte di appello, ricorreva la società di trasporti in Cassazione, la quale rigetta il ricorso decidendo come da massima sopra riportata.

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