Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa
Svolgimento di altra attività durante la malattia e licenziamento
Prestazioni ad alto contenuto intellettuale e subordinazione
Appalto e interposizione illecita di manodopera
Nozione di mobbing

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav., 26 aprile 2022, n. 13065

Pres. Raimondi; Rel. Amendola; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. B.V.

Licenziamento – Giusta causa – Art. 18 St. Lav. – Sanzione conservativa – Tipizzazione del CCNL delle condotte punite con sanzione conservativa – Clausole generali o elastiche – Potere del giudice di sussumere anche le condotte non testualmente previste – Sussistenza

In tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18 commi 4 e 5, come novellata dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l'illecito con sanzione conservativa anche laddove sia espressa attraverso clausole generali o elastiche. Tale operazione di interpretazione e sussunzione non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando tale operazione di interpretazione nei limiti dell'attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo.

NOTA

La Corte d'Appello di Bologna, confermando il provvedimento reso dal giudice di prime cure, giudicava illegittimo il licenziamento per giusta causa irrogato ad un lavoratore scoperto a villeggiare nel giorno di fruizione di un permesso ex L. 104/1992 richiesto, giorni prima, per assistere la madre diversamente abile.Secondo la Corte distrettuale la condotta assunta dal prestatore era sussumibile nell'alveo di una previsione conservativa prevista dal CCNL applicato, con conseguente diritto del dipendente al ripristino del rapporto di lavoro.Contro la pronuncia emessa dalla Corte di merito ha promosso ricorso in cassazione la Società lamentando l'erronea applicazione dell'art. 18, co. 4, St. lav., nella parte in cui accorda la tutela reale nelle ipotesi di sussunzione del fatto in una previsione conservativa specifica ed espressa, contenente tutti gli elementi soggettivi e oggettivi della condotta contestata, non potendo il giudice di merito ordinare il ripristino del rapporto sospingendo la fattispecie concreta in clausole conservative generali o aperte.Tuttavia, la Suprema Corte di Cassazione, in contrapposizione con il prevalente orientamento seguito dalla giurisprudenza di legittimità sin dall'entrata in vigore della cd. "Riforma Fornero" (L. 92/2012), ha evidenziato come: «In tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18 commi 4 e 5, come novellata dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l'illecito con sanzione conservativa anche laddove sia espressa attraverso clausole generali o elastiche.». Secondo la Corte, infatti: «Tale operazione di interpretazione e sussunzione non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando tale operazione di interpretazione nei limiti dell'attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo». 

Svolgimento di altra attività durante la malattia e licenziamento

Cass. Sez. Lav. 26 aprile 2022, n. 13063

Pres. Raimondi; Rel. Amendola; P.M. Visonà; Ric. F.I.S.F.; Controric. N.G.

Giusta causa – Lavoratore in malattia – Attività –lavorativa o non– svolta in costanza di assenza – Ritardato rientro in servizio – Pregiudizio alla guarigione – Onere della prova a carico del datore – Sussiste

La prova dell'incidenza della diversa attività lavorativa o extralavorativa nel ritardare o pregiudicare la guarigione ai fini del rilievo disciplinare è comunque a carico del datore di lavoro.

NOTA

La Corte d'Appello di Milano annullava il licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore condannando la datrice di lavoro a reintegrarlo e a corrispondergli una indennità risarcitoria commisurata a 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, dedotto quanto percepito aliunde, oltre al pagamento dei contributi assistenziali e previdenziali.La Corte d'Appello riteneva che «l'asserita simulazione della malattia da parte di N.» fosse stata smentita dalla «documentazione medica prodotta dal medesimo", precisando, "quanto all'addebito secondo cui le condotte contestate avrebbero comunque pregiudicato e rallentato la guarigione del lavoratore", che "di ciò fosse il datore di lavoro ad essere onerato della prova e che ... non appare sufficiente il riferimento alle condotte così come contestate e documentate dalle foto e dai video tratti da Facebook, trattandosi di video e foto inerenti ad attività extralavorativa che non appare di per sé incompatibile o in grado di aggravare lo stato patologico del N.».La datrice di lavoro impugnava la sentenza di secondo grado.La Suprema Corte rigetta il ricorso ricordando che, in tema di licenziamento disciplinare per lo svolgimento di altra attività – lavorativa o non – durante l'assenza per malattia del lavoratore, il proprio orientamento consolidato è fermo nel ritenere che «non sussiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto per il dipendente di prestare altra attività, anche a favore di terzi, in costanza di assenza per malattia, sicché ciò non costituisce, di per sé, inadempimento degli obblighi imposti al prestatore d'opera (ab imo, Cass. n. 2244 del 1976, con un postulato mai smentito dalla giurisprudenza successiva; tra molte: Cass. n. 1361 del 1981; Cass. n. 2585 del 1987; Cass. n. 381 del 1988; Cass. n. 5833 del 1994; Cass. n. 15621 del 2001; più di recente, v. Cass. n. 6047 del 2018, la quale osserva che il lavoratore assente per malattia "non per questo deve astenersi da ogni altra attività, quale in ipotesi un'attività ludica o di intrattenimento, anche espressione dei diritti della persona")».La Corte di Cassazione precisa, però, che «il compimento di altre attività da parte del dipendente assente per malattia non è circostanza disciplinarmente irrilevante ma può anche giustificare la sanzione del licenziamento, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifichi obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, sia nell'ipotesi in cui la diversa attività accertata sia di per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza dell'infermità addotta a giustificazione dell'assenza, dimostrando quindi una sua fraudolenta simulazione, sia quando l'attività stessa, valutata in relazione alla natura ed alle caratteristiche della infermità denunciata ed alle mansioni svolte nell'ambito del rapporto di lavoro, sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore», in quanto «durante il periodo di sospensione del rapporto determinato dalla malattia permangono in capo al lavoratore tutti gli obblighi non inerenti allo svolgimento della prestazione; tra gli altri, anche gli obblighi di diligenza e fedeltà di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c., oltre che gli obblighi di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c.».Di fatto il lavoratore dovrebbe astenersi da quei comportamenti che potrebbero «ledere l'interesse del datore di lavoro alla corretta esecuzione dell'obbligazione principale dedotta in contratto, argomentando che la mancata prestazione lavorativa in conseguenza dello stato di malattia del dipendente in tanto trova tutela nelle disposizioni contrattuali e codicistiche in quanto non sia imputabile alla condotta volontaria del lavoratore medesimo che operi scelte idonee a pregiudicare l'interesse datoriale a ricevere regolarmente detta prestazione».In tema di licenziamento per giusta causa del lavoratore assente per malattia, il quale sia stato sorpreso nello svolgimento di altre attività, la prova dell'incidenza della diversa attività lavorativa o extralavorativa nel ritardare o pregiudicare la guarigione ai fini del rilievo disciplinare è, dunque, a carico del datore di lavoro, il quale non può limitarsi a fornire la prova che il lavoratore abbia svolto in costanza di malattia altra attività, anche a favore di terzi, in quanto tale comportamento non costituisce, di per sé, inadempimento degli obblighi imposti a quest'ultimo, ma deve anche provare «in relazione alla contestazione disciplinare, o che la malattia era simulata ovvero che la diversa attività posta in essere dal dipendente fosse potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio. Solo in tal modo non potrà realizzarsi una surrettizia inversione dell'onere probatorio stabilito per legge in caso di licenziamento».

Prestazioni ad alto contenuto intellettuale e subordinazione

Cass. Sez. Lav., 22 aprile 2022, n. 12919

Pres. Bronzini; Rel. Pagetta; Ric. I.G. S.p.A.+1; Controric. A.S.

Lavoro subordinato – Rivendicazione lavoro subordinato – Prestazioni ad elevato contenuto intellettuale – Eterodirezione attenuata – Indici sussidiari – Inserimento nell'organizzazione aziendale – Rilevanza

In ordine alla qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, in presenza di prestazione con un elevato contenuto intellettuale, è necessario verificare se il lavoratore possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve o attenuata, alle direttive, agli ordini e ai controlli del datore di lavoro, nonché al coordinamento dell'attività lavorativa in funzione dell'assetto organizzativo aziendale, potendosi ricorrere altresì, in via sussidiaria, a elementi sintomatici della subordinazione quali l'inserimento nell'organizzazione aziendale, il vincolo di orario, l'inerenza al ciclo produttivo, l'intensità della prestazione, la retribuzione fissa a tempo senza rischio di risultato.

NOTA

Nel caso di specie la Corte d'Appello di Trieste aveva confermato la sentenza con la quale era stata dichiarata l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra la lavoratrice ricorrente e le società convenute in quanto la prima era risultata non essere un mero agente ma direttore vendite delle società, con piena integrazione nell'organico delle stesse. Il rapporto della lavoratrice veniva ascritto alla categoria dei quadri.Contro la decisione della Corte d'Appello proponevano ricorso in Cassazione le società osservando che la sentenza impugnata era da considerarsi errata per l'aver valorizzato il solo elemento dell'inserimento della lavoratrice nell'organizzazione aziendale senza analizzare minimamente la sussistenza di un potere direttivo in capo alle società e l'assoggettamento della lavoratrice allo stesso.La Suprema Corte ha respinto le censure di cui sopra.In particolare la Cassazione ha rilevato che la prestazione della lavoratrice fosse riconducibile a quelle ad elevato contenuto intellettuale e che, pertanto, l'indagine sulla sussistenza della subordinazione dovesse necessariamente verificare da un lato l'assoggettamento della lavoratrice, anche in forma lieve o attenuata, alle direttive, agli ordini e ai controlli del datore di lavoro e che, dall'altra, nello svolgere tale indagine il giudice potesse ricorrere a elementi sussidiari e sintomatici della subordinazione (quali, ad es. «l'inserimento nell'organizzazione aziendale, il vincolo di orario, l'inerenza al ciclo produttivo, l'intensità della prestazione, la retribuzione fissa a tempo senza rischio di risultato»). Il ricorso a tali indici è ancor più necessario, poi, con riferimento alla prestazione dirigenziale, caratterizzata da ampi margini di autonomia del lavoratore.Con riferimento al caso in esame la Cassazione ha confermato che la Corte territoriale si è correttamente attenuta a tali principi, valorizzando la presenza di indici sussidiari consistenti appunto nell'inserimento della lavoratrice nella compagine organizzativa della società, nell'affidamento alla stessa dell'ulteriore compito di cd area manager che implica un rapporto di sovraordinazione rispetto ad altri dipendenti e nel fatto che sia prima che dopo il ruolo rivestito dalla lavoratrice veniva occupato da lavoratori dipendenti.La Suprema Corte ha quindi rigettato il ricorso con riferimento al motivo di cui sopra ma ha accolto il secondo, consistente nella contestazione dell'attribuzione della qualifica di quadro, poiché sulla stessa non risultava essere stato svolto alcun accertamento. 

Appalto e interposizione illecita di manodopera

Cass. Sez. Lav., 27 aprile 2022, n. 13182

Pres. Doronzo; Rel. Piccone; Ric. A.C.; Controric. B.N.L. S.p.A.

Appalto – Labour intensive – Interposizione illecita di manodopera – Autonoma organizzazione del lavoro – Impiego di mezzi propri – Assunzione del rischio d'impresa – Genuinità – Sussistenza – Intuitus personae nella scelta dei dipendenti – Irrilevanza

Affinché possa configurarsi un genuino appalto di opere o servizi ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 1, è necessario verificare, specie nell'ipotesi di appalti ad alta intensità di manodopera (cd. "labour intensive"), che all'appaltatore sia stata affidata la realizzazione di un risultato in sé autonomo, da conseguire attraverso una effettiva e autonoma organizzazione del lavoro, con reale sussistenza del potere direttivo e di controllo sui propri dipendenti, impiego di propri mezzi e assunzione da parte sua del rischio d'impresa, dovendosi, invece, ravvisare un'interposizione illecita di manodopera nel caso in cui il potere direttivo e organizzativo sia interamente affidato al formale committente, restando irrilevante che manchi, in capo a quest'ultimo, l'"intuitus personae" nella scelta del personale, atteso che, nelle ipotesi di somministrazione illegale, è frequente che l'elemento fiduciario caratterizzi l'intermediario, il quale seleziona i lavoratori per poi metterli a disposizione del reale datore di lavoro.

NOTA

Nel caso di specie, una lavoratrice adiva il Tribunale di Roma per sentir dichiarare la sussistenza di un'ipotesi di interposizione illecita di manodopera in relazione all'attività dalla medesima svolta nell'ambito di un contratto di appalto di servizi di assistenza informatica stipulato tra la società propria datrice di lavoro e una banca committente.I giudici del merito rigettavano la suddetta domanda. La Corte d'Appello di Roma, in particolare, riteneva che non fosse stata fornita in giudizio alcuna prova circa la eterodirezione ed eterorganizzazione del lavoro da parte dei responsabili della committente, ed evidenziava, tra il resto, come l'appartenenza alla banca dei locali e dei computers utilizzati assumesse scarso rilievo a fronte del know-how offerto e della tipologia dei servizi resi dalla società appaltatrice.Avverso la decisione della Corte d'Appello la lavoratrice proponeva ricorso per cassazione, lamentando l'erronea applicazione della disciplina di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003 nonché dell'art. 1655 c.c. per avere la decisione impugnata ritenuto configurabile nella fattispecie un appalto lecito in luogo di una somministrazione di lavoro illecita, denunziando, tra il resto, l'erronea interpretazione della succitata normativa con specifico riguardo alle modalità di esplicazione del potere direttivo della società appaltatrice rispetto all'attività prestata dai propri dipendenti nonché alla sussistenza di un rischio d'impresa in capo a quest'ultima.Con l'ordinanza in commento, la Corte di legittimità ha confermato la precedente decisione di merito, rigettando il ricorso. Precisamente, la Suprema Corte ha ritenuto corretta la statuizione del Giudice d'Appello che ‘ ritenuta provata l'autonomia della ricorrente e del suo team di lavoro nell'esaudire le richieste della banca committente, stante anche la prestazione di attività di assistenza informatica altamente specialistiche, nonché la sussistenza di un rischio d'impresa gravante sulla società appaltatrice ‘ escludeva la configurabilità di un'ipotesi di interposizione illecita di manodopera e, decidendo come da massima, ha, altresì, precisato che quest'ultima ricorre soltanto allorché «l'appaltante-interponente non solo organizza, ma dirige anche i dipendenti dell'appaltatore, rimanendo sull'interposta solo compiti di gestione amministrativa del rapporto senza una reale organizzazione della prestazione lavorativa».

Nozione di mobbing

Cass. Sez. Lav., 27 aprile 2022, n. 13183

Pres. Doronzo; Rel. Piccone; Ric. D. L. N.; Controric. S.p.A.Dequalificazione – Mobbing – Intento persecutorio – Necessità – Onere di allegazione e prova a carico del lavoratore – Sussiste

Ai fini della configurabilità di una ipotesi di mobbing non è condizione sufficiente l'accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione.

NOTA

La Corte d'Appello di Roma ha confermato integralmente la decisione del Tribunale di Velletri che aveva respinto la domanda di un lavoratore di superiore inquadramento e risarcimento del danno da mobbing posto in essere sia dal suo precedente datore di lavoro, che dal suo attuale, presso il quale era transitato per trasferimento d'azienda, non sussistendo gli elementi identificativi dello stesso. La Corte, quanto al richiesto inquadramento superiore, ha ritenuto l'insufficienza degli elementi probatori offerti reputando, in particolare, inidonea l'affermazione del ricorrente relativa alla peculiare rilevanza del lavoro svolto, trattandosi di valutazione di parte in assenza di ulteriori elementi di specificazione in ordine alla declaratoria richiesta onde provare l'espletamento di mansioni superiori. La Corte d'appello ha altresì escluso che, l'assegnazione ad un diverso settore della Società, affiancata da altri compiti di maggiore responsabilità e importanza, potesse configurare il lamentato demansionamento, precisando che la qualifica di partenza doveva reputarsi comunque quella originaria di inquadramento e non quella superiore invocata, ed ha concluso, quindi, anche per il difetto di prova in ordine al lamentato mobbing in assenza di elementi identificativi dello stesso.Il ricorrente ha proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza per violazione degli artt. 1218, 1175 e 1176 c.c., e dell'art. 113 c.p.c., in relazione all'art. 2103 c.c., comma 1, all'art. 2087 c.c. e all'art. 41 Cost. in materia di demansionamento e mobbing, «per l'erroneità dell'iter motivazionale della decisione di secondo grado, assumendo che incomba sul datore di lavoro l'onere di dimostrare l'esatto adempimento degli obblighi di natura datoriale ai sensi dell'art. 2103 c.c.». La Corte ha rigettato il ricorso in quanto ha rilevato che la Corte territoriale avesse, con motivazione ampia ed esaustiva, effettuato il noto accertamento trifasico inerente alle mansioni, reputando frutto di mera valutazione soggettiva del ricorrente la riconducibilità delle stesse ad un livello superiore; in particolare il giudice di secondo grado ha correttamente compiuto il procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell'inquadramento del ricorrente, sviluppandolo nelle tre fasi successive, consistenti nell'accertamento in fatto delle attività lavorative concretamente svolte, nell'individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra i risultati di tali due indagini. Infine, ai fini della configurabilità di una ipotesi di mobbing, ha affermato che, come rilevato da costante giurisprudenza, «non è condizione sufficiente l'accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione e tale disegno è stato escluso, in fatto, dalla Corte d'appello con valutazione che, esente da vizi logici, non può essere rivista in sede di legittimità».

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