Rassegna di Cassazione
Licenziamento collettivo e criteri di scelta
Licenziamento illegittimo a seguito di illecita cessazione dell'attività aziendale
Legittimità di un patto di non concorrenza
Retrocessione di azienda affittata e trasferimento d'azienda
Licenziamento disciplinare
Licenziamento collettivo e criteri di scelta
Cass. Sez. Lav., 28 aprile 2022, n. 13352
Pres. Tria; Rel. Pagetta; Ric. C.V.; Controric. G.E. S.p.A.
Licenziamento collettivo – Criteri di scelta – Ambito di applicazione – Singolo reparto o settore dell'azienda – Ammissibilità – Condizioni – Obiettive esigenze aziendali – Necessità – Fungibilità dei lavoratori – Illegittimità
i fini della corretta applicazione del criterio delle esigenze tecnico-produttive per l'individuazione dei lavoratori da licenziare, poiché la comparazione delle diverse posizioni dei lavoratori deve essere effettuata nel rispetto del principio di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti al reparto oggetto di riduzione solo perché impiegati nel reparto stesso, se i lavoratori medesimi sono idonei – per pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti aziendali – ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta dei lavoratori da licenziare solo perché impiegati nel reparto soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalenti a quelle degli addetti ad altri reparti.
NOTA
La Corte d'Appello di Napoli, confermando la sentenza di primo grado, rigettava la domanda azionata da una dipendente al fine di accertare l'illegittimità del licenziamento intimatole all'esito di una procedura di licenziamento collettivo. In particolare, la Corte territoriale riteneva legittima la limitazione della platea dei lavoratori da licenziare ai soli dipendenti addetti ad un appalto pacificamente cessato, evidenziando altresì come la società avesse indicato le ragioni di tale limitazione nella lettera di avvio della procedura.La lavoratrice proponeva ricorso per Cassazione avverso tale sentenza, denunciando, inter alia, la violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5, L. 223/1991, per avere la Corte d'Appello errato nel ritenere legittimo, in difetto di accordo sindacale, il criterio dell'adibizione dei lavoratori all'appalto quale unico criterio di selezione del personale da licenziare. Peraltro, a tal proposito, la ricorrente evidenziava come dagli elementi fattuali acquisiti emergesse che il suo posto di lavoro non fosse intrinsecamente legato all'appalto cessato, giacché l'adibizione alla preparazione dei relativi pasti era frutto di una mera organizzazione interna che non instaurava alcuna specifica connessione con tale appalto.La Corte di Cassazione ritiene il motivo di ricorso fondato.La Corte d'Appello, infatti, aveva errato nel ritenere corretta la scelta datoriale per cui la lavoratrice era stata selezionata sulla base del solo criterio delle esigenze tecnico-organizzative e produttive della società, senza tener conto degli altri criteri di scelta di cui all'art 5, L. 223/1991, che in assenza di accordo sindacale avrebbero invece dovuto trovare piena applicazione.Tale decisione non è conforme alla consolidata giurisprudenza di legittimità in tema di delimitazione della platea dei lavoratori da licenziare agli addetti ad un determinato settore o reparto sulla base di oggettive esigenze aziendali. Ai fini della corretta applicazione di questo criterio, è altresì necessario che la comparazione dei lavoratori ai fini di individuare quelli da licenziare venga effettuata nel rispetto del principio di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. Pertanto, il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da licenziare ad un solo reparto se essi sono idonei – per pregresso svolgimento di attività lavorativa in altri reparti della società – ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti esclusi dalla procedura di licenziamento collettivo; di conseguenza, non è legittima la scelta dei lavoratori solo perché impiegati nel reparto soppresso o ridotto, trascurando invece il possesso di professionalità equivalenti a quelle di altri lavoratori addetti ad altri reparti (in senso conforme, Cass. 19105/2017, Cass. 203/2015, Cass. 9711/2011, Cass. 22824/2009, Cass. 22825/2009, Cass. 13783/2006).
Licenziamento illegittimo a seguito di illecita cessazione dell'attività aziendale
Cass. Sez. Lav., 4 maggio 2022, n. 14064
Pres. Raimondi; Rel. Di Paola; Ric. C.S.R.S.B. in liquidazione; Contr. S.V.
Società pubblica in liquidazione – Licenziamento collettivo – Cessazione dell'attività contra legem – Illegittimità – Conseguenza – Illegittimità del licenziamento – Conseguenza – Tutela reintegratoria – Esclusione – Tutela indennitaria – Ammissibilità
In presenza di un'illecita cessazione dell'attività aziendale (nella specie, la cessazione dell'attività di gestione dei rifiuti era stata disposta in contrasto con la previsione di legge che imponeva la prorogatio dell'attività affidata al consorzio), da cui tragga origine una altrettanto illegittima procedura di mobilità, non può essere accordata ai lavoratori coinvolti la tutela reintegratoria, ma solo quella risarcitoria.
NOTA
La Corte di Appello di Napoli, in parziale riforma della pronuncia del Tribunale di Benevento, dichiarava nullo il licenziamento intimato ad un lavoratore all'esito di unaprocedura di mobilità, e, per l'effetto, condannava il datore di lavoro, un consorzio in liquidazione che gestiva il ciclo dei rifiuti regionale, alla reintegrazione del lavoratore nel posto precedentemente occupato, oltre al pagamento, in suo favore, di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto, nonché al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali, dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione.La Corte di merito, in particolare, confermava l'illegittimità del licenziamento sulla base della carenza di potere del Commissario liquidatore di procedere ad effettuare licenziamenti, stante la sussistenza di una proroga ex lege nella gestione ordinaria affidata allo stesso, contemporanea alle attività liquidatorie. Riteneva, dunque, che doveva escludersi che in capo al Commissario vi fosse il potere di procedere alla messa in mobilità ed ai licenziamenti, prevedendo, viceversa, la legge un procedimento complesso nel quale, in primo luogo, il Commissario liquidatore deve provvedere alla specifica definizione della dotazione organica necessaria in relazione ai residuali scopi operativi, alla copertura della pianta così disegnata anche con nuove assunzioni, e, infine, nel caso di esuberi rispetto alla dotazione, procedesse all'applicazione delle disposizioni in materia di ammortizzatori sociali in deroga. Conseguentemente, accertata l'illegittimità del licenziamento, accordava al lavoratore la tutela reintegratoria.La Cassazione, per quel che rileva, da un lato, ritiene immune da vizi l'iter logico-giuridico seguito dalla Corte d'Appello con riferimento all'accertata illegittimità del licenziamento, dall'altro lato, tuttavia, ritiene che la Corte territoriale abbia errato con riferimento alle conseguenze derivanti da tale accertamento.La Suprema Corte afferma, infatti, che «in presenza di un acclarato mancato svolgimento dell'attività di gestione del ciclo dei rifiuti, pur a fronte di un eventuale obbligo legale in tal senso, non poteva, nel caso, essere accordata la tutela reintegratoria, ma solo quella risarcitoria (avente, del pari, carattere sanzionatorio dell'altrui illecito), essendo l'impossibilità di disporre l'ordine di reintegra il derivato di una mera situazione di fatto, del resto cristallizzatasi, già al momento di emissione della pronunzia impugnata».
Conclusivamente, la Suprema Corte in parziale accoglimento del ricorso del consorzio, cassa la sentenza impugnata rinviando alla Corte d'Appello di Napoli, in diversa composizione, al fine di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Legittimità di un patto di non concorrenza
Cass. Sez. Lav., 28 aprile 2022, n. 13357
Pres. Bronzini; Rel. Pagetta; Ric. B.S.; Controric. B.P.F. S.p.A.
Patto di non concorrenza – Legittimità – Oggetto esteso – Esclusione – Territorio e corrispettivo determinati – Sussistenza
È legittimo il patto di non concorrenza con il quale la Banca inibisca per tre anni al Gestore Private – a fronte di un compenso annuale pari a 10.000 euro da corrispondersi in corso di rapporto in due rate semestrali senza minimo garantito – lo svolgimento di tutte le attività direttamente o indirettamente riconducibili a quelle attribuite o svolte presso la Banca in una regione determinata o in una diversa assegnata al dipendente al momento della cessazione del rapporto. Un siffatto patto è conforme ai limiti del dettato normativo di cui al 2125 cod. civ. nella misura in cui:– rispetto all'oggetto, la suddetta formulazione non è tale da comprimere l'esplicazione della concreta professionalità del lavoratore con compromissione di ogni sua potenzialità reddituale, sostanziandosi nell'impossibilità di svolgere le attività connesse alla gestione dei portafogli finanziari;– rispetto al limite territoriale, la suddetta formulazione è da ritenersi sufficientemente determinata; – rispetto al corrispettivo, deve ritenersi determinato e congruo.
NOTA
La Corte d'appello di Trieste, in riforma della sentenza di primo grado, respingeva la domanda con la quale l'ex dipendente di una banca con mansioni di Gestore Private aveva chiesto l'accertamento dell'illegittimità del patto di non concorrenza stipulato con il suo ex datore di lavoro e il conseguente diritto a continuare a svolgere, anche dopo le rassegnate dimissioni, le mansioni svolte precedentemente, anche in favore di altre imprese e istituti del settore e, in subordine, la riduzione nel limite di giustizia della penale pattuita. Avverso la sentenza della Corte di appello, ricorreva l'ex dipendente in Cassazione, ritenendo che il patto di non concorrenza non fosse valido sotto il profilo dell'ampiezza del sacrificio imposto al lavoratore, della congruità del corrispettivo, e della determinatezza e determinabilità di quest'ultimo oltre che dell'ambito territoriale di operatività del patto.
La Cassazione rigetta il ricorso, decidendo come da massima sopra riportata.
Retrocessione di azienda affittata e trasferimento d'azienda
Cass. Sez. Lav., 27 aprile 2022, n. 13186
Pres. Bronzini; Rel. Leone; Ric. B.L.; Controric. N.F.+3
Affitto d'azienda – Retrocessione dell'azienda per cessazione dell'affitto – Applicabilità dell'art. 2112 cod. civ. – Prosecuzione dell'attività precedente l'affitto con immutata organizzazione dei beni aziendali – Necessità
In materia di trasferimento d'azienda, la disciplina dell'art. 2112 cod. civ. si applica anche nell'ipotesi di cessazione del contratto di affitto d'azienda e conseguente retrocessione della stessa all'originario cedente, purché quest'ultimo prosegua l'attività già esercitata in precedenza, mediante l'immutata organizzazione aziendale, con onere della prova a carico di chi invoca gli effetti dell'avvenuto trasferimento
NOTA
La fattispecie oggetto del giudizio riguarda un'operazione di retrocessione di azienda a seguito della cessazione del relativo affitto e l'applicabilità della disciplina del trasferimento d'azienda ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., che prevede la continuazione del rapporto di lavoro dei dipendenti con il cessionario ed il mantenimento di tutti i diritti che ne derivano.In particolare, la Corte d'appello di Bologna, riformando parzialmente la sentenza del Tribunale di Parma, escludeva che la cessione dei soli beni strumentali (per effetto dell'affitto) integrasse un trasferimento di ramo d'azienda e dunque l'assunzione della ricorrente presso l'affittuario, avvenuta successivamente a detto trasferimento, risultava estranea al fenomeno successorio delineato dalla norma. Anche nell'ipotesi della successiva retrocessione dell'azienda affittata, proseguiva la Corte territoriale, non poteva essere invocato l'obbligo di mantenimento della occupazione dei dipendenti, poiché l'applicazione di tale obbligo presuppone che l'impresa originariamente cedente, utilizzi l'azienda per svolgere l'attività già esercitata in precedenza.Avverso tale sentenza proponeva ricorso per Cassazione la lavoratrice.Per quel che qui interessa, la Suprema Corte respinge il motivo relativo all'applicazione delle garanzie previste in caso di trasferimento d'azienda, confermando la corretta applicazione da parte della Corte d'appello di Bologna del principio per cui trova applicazione la disciplina dell'art. 2112 cod. civ. e dunque l'automatico trasferimento della dipendente anche nell'ipotesi di cessazione del contratto di affitto d'azienda e conseguente retrocessione della stessa all'originario cedente, allorquando quest'ultimo prosegua l'attività già esercitata in precedenza, mediante l'immutata organizzazione aziendale, con onere della prova a carico di chi invoca gli effetti dell'avvenuto trasferimento.
Pertanto la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.
Licenziamento disciplinare
Cass. Sez. Lav., 2 maggio 2022, n. 13774
Pres. Raimondi; Rel. Patti; P.M. Mucci; Ric. M S.p.a.; Contr. L.V.
Licenziamento disciplinare – Addetta alla vendita che risponde in modo scortese e volgare ad un cliente – Giusta causa – Esclusione – Non proporzionalità – Sussistenza – Assenza di precedenti disciplinari – Rilevanza
È illegittimo, perché non proporzionato, il licenziamento irrogato all'addetta alle vendite che si sia rivolta ad un cliente in modo volgare e scortese nel periodo prenatalizio. Tale condotta non è così grave da giustificare il licenziamento disciplinare perchè non integra un notevole inadempimento, tenuto conto che l'episodio era isolato e non era stato notato dagli altri clienti o dai colleghi, che l'espressione utilizzata è parte del comune intercalare e la dipendente non era mai stata destinataria di ulteriori provvedimenti disciplinari.
Art. 18 legge 300/70 – Post riforma Fornero – Proporzionalità – Tipizzazione del CCNL delle condotte punite con sanzione conservativa – Previsioni elastiche – Potere del Giudice di sussumere anche le condotte non testualmente previste – Sussistenza – Ratio
In tema di illegittimità del licenziamento, con le modifiche apportate all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori dalla legge 92/2012, al giudice è chiesto di procedere ad una valutazione bifasica accertando in primis la sussistenza o meno della giusta causa (o del giustificato motivo di recesso) e, solo nel caso in cui la escluda, sussumendo – al fine di applicare la tutela reintegratoria di cui al comma 4 del citato articolo – la condotta addebitata al lavoratore, ed in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che la punisca con sanzione conservativa. Tale attività di sussunzione è possibile anche quando la previsione collettiva non si adatti precisamente alla condotta del dipendente perché sia espressa attraverso clausole generali o elastiche. In tali casi, la mancata precisa tipizzazione di alcune condotte tra quelle suscettibili di essere punite con una sanzione conservativa non è di per sé significativa della volontà delle parti sociali di escluderle da quelle meritevoli di una sanzione più lieve rispetto al licenziamento, ben potendo il Giudice riempire di contenuto siffatte previsioni astratte attribuendo alle stesse un significato socialmente condiviso. Tale operazione di interpretazione e sussunzione ad opera del Giudice non trasmoda infatti nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell'attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo.
NOTA
La Corte d'Appello di Brescia rigettava il reclamo della società datrice di lavoro avverso la sentenza di primo grado che ne aveva annullato il licenziamento per giusta causa intimato alla dipendente dal 2001 e l'aveva condannata alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria, commisurata alla retribuzione globale di fatto, dalla data del licenziamento a quella di reintegrazione. La corte territoriale, così come già il Tribunale, escludeva che il comportamento della lavoratrice – che si era rivolta in modo grevemente scortese, con espressione volgare, a un cliente che la richiedeva di un adempimento proprio del centro servizi cui la stessa era addetta e che, irritato dall'insolenza, non aveva completato un acquisto di modesto valore economico – integrasse la giusta causa contestata, in assenza di precedenti disciplinari della lavoratrice, considerato il contesto pre-natalizio di intenso afflusso di clientela in punti vendita della tipologia di quello gestito dalla società datrice e non compromettendo l'episodio isolato il vincolo fiduciario tra le parti, secondo una valutazione di proporzionalità. La Corte territoriale ha ritenuto, infine, corretta la sussunzione della violazione all'interno della fattispecie dell'art. 18 IV comma S.L. perché punibile con sanzione conservativa.Avverso tale sentenza la società datrice ha proposto ricorso in cassazione censurando, in particolare, la decisione per due motivi. Con il primo motivo, la società ha ritenuto erronea la sussunzione del fatto commesso dalla lavoratrice nella previsione della tutela reintegratoria a fronte della previsione di recesso "senza preavviso" per ogni ipotesi di «grave» violazione degli obblighi (tra cui quelli di «usare modi cortesi col pubblico») di cui all'art. 220 del CCNL di riferimento e, in ogni caso, per l'assenza di una specifica previsione della contrattazione collettiva di sanzione conservativa in cui far rientrare la violazione della lavoratrice. Con il secondo motivo, la ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell'art. 18, quarto e quinto comma della l. 300/1970, per l'erronea applicazione della tutela reintegratoria attenuata, in luogo di quella indennitaria forte, sulla base di una valutazione di proporzionalità, in difetto di riconduzione della violazione della lavoratrice ad una specifica previsione contrattuale collettiva di sanzione conservativa, neppure espressamente indicata. La Suprema Corte, esaminati congiuntamente i suddetti motivi di ricorso, li ritiene infondati e rigetta il ricorso.La Corte di Cassazione, ripercorrendo prima di tutto il quadro dei provvedimenti disciplinari del CCNL di riferimento alla luce della condotta addebitata alla lavoratrice, osserva che la corte territoriale ha compiuto un accertamento «in concreto» della gravità del comportamento contestato alla lavoratrice e che, in esito a tale accertamento (considerato quindi il contesto di verificazione dell'episodio, rimasto isolato, neppure offensivo del cliente, né notato da altri clienti o colleghi, e tenuto conto del pregresso comportamento della lavoratrice conforme ai doveri e alle regole professionali), lo ha ritenuto «non grave», secondo un giudizio di proporzionalità della sanzione dell'illecito, evidenzia la Suprema Corte, «istituzionalmente» rimesso al giudice di merito (Cass. 10 dicembre 2007, n. 25743; Cass. 22 marzo 2010, n. 6848). A fronte di tale accertamento la sanzione disciplinare non può quindi essere quella esplusiva del licenziamento disciplinare senza preavviso ai sensi delle previsioni del CCNL di riferimento e neppure del recesso per giustificato motivo soggettivo, poiché, osserva la Suprema Corte, «la violazione disciplinare non grave neppure integra un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, a norma dell'art. 3 della legge 604/1966».Ciò rilevato, la Suprema Corte passa quindi ad esaminare se il comportamento, ritenuto non grave della lavoratrice, di violazione dell'obbligo di «usare modi cortesi col pubblico», possa essere sussunto in una sanzione conservativa, come ritenuto dalla corte territoriale. Sul punto, la Corte di Cassazione ribadisce i principî indicati nella massima (già espressi dalla medesima Corte con la sentenza n. 11665 dell'11 aprile 2022), ricordando in particolare che «al giudice è demandato di interpretare la norma collettiva non solo per stabilire se si possa ritenere sussistente o meno una giusta causa o un giustificato motivo di recesso ma anche per individuare la tutela in concreto applicabile, laddove la fattispecie punita con una sanzione conservativa sia delineata dalla norma collettiva attraverso una clausola generale – graduando la condotta con riguardo ad una sua particolare gravità ed utilizzando nella descrizione della fattispecie espressioni che necessitano di essere riempite di contenuto – rientra nel compito del giudice riempire di contenuto la clausola utilizzando standard conformi ai valori dell'ordinamento ed esistenti nella realtà sociale in modo tale da poterne definire i contorni di maggiore o minore gravità».Alla luce dei principî sopra richiamati, la Corte di Cassazione conferma quindi la decisione della Corte d'Appello di Brescia, affermando che il comportamento della lavoratrice sopra delineato, ben possa essere sussunto nell'ipotesi, prevista dal CCNL di riferimento, del lavoratore che «esegua con negligenza il lavoro affidatogli», ipotesi quest'ultima «espressa con norma elastica» e appunto sanzionata dalla previsione collettiva applicabile «in via conservativa con la multa, nei limiti di attuazione del principio di proporzionalità già eseguito dalle parti sociali attraverso detta previsione».Per un approfondimento si veda Guida al lavoro n. 21/2022.