Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa
Infortunio del lavoratore e responsabilità del datore
Licenziamento collettivo, procedura
Trasferimento e rifiuto del lavoratore

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav., 9 maggio 2022, n. 14667

Pres. Raimondi; Rel. Boghetich; Ric. Z.A.; Controric. D.P. S.r.l.

Licenziamento – Giusta causa – Pluralità di fatti contestati –– Insussistenza di uno dei fatti contestati – Reintegrazione – Inapplicabilità – Mancanza di rilievo disciplinare – Presupposto

Nel caso di licenziamento disciplinare intimato per una pluralità di distinti e autonomi comportamenti, solo alcuni dei quali risultino dimostrati, l'insussistenza del fatto si configura qualora possa escludersi la realizzazione di un nucleo minimo di condotte che siano astrattamente idonee a giustificare la sanzione espulsiva, o se si realizzi l'ipotesi dei fatti sussistenti ma privi del carattere di illiceità.

NOTA

La Corte d'Appello di Venezia, in riforma del provvedimento di primo grado, giudicava legittimo il licenziamento irrogato ad un lavoratore che aveva reso false attestazioni nell'esecuzione della propria prestazione lavorativa e, al contempo, aveva insultato il proprio datore di lavoro. Secondo la Corte distrettuale, infatti, ferma restando la ricorrenza di entrambe le circostanze contestate, anche la presenza di una sola di esse non poteva in ogni caso giustificare l'applicazione del rimedio reintegratorio in ragione della ricorrenza materiale del fatto contestato.Contro la statuizione resa dal Collegio di merito ha promosso ricorso in Cassazione il lavoratore chiedendo, in sostanza, l'applicazione del rimedio reintegratorio in ragione dell'insussistenza di larga parte delle circostanze addebitate alla parte lavoratrice.La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, ha evidenziato come: «nel caso di licenziamento disciplinare intimato per una pluralità di distinti e autonomi comportamenti, solo alcuni dei quali risultino dimostrati, l'insussistenza del fatto si configura qualora possa escludersi la realizzazione di un nucleo minimo di condotte che siano astrattamente idonee a giustificare la sanzione espulsiva, o se si realizzi l'ipotesi dei fatti sussistenti ma privi del carattere di illiceità, con la necessità di operare, comunque, una valutazione di proporzionalità tra la sanzione e i comportamenti dimostrati». Nel caso di specie, secondo i giudici di legittimità, non ricorrendo fatti privi di rilievo disciplinare, la tutela reintegratoria debole non poteva trovare applicazione potendo, al più, essere disposta l'applicazione del rimedio indennitario nell'astratta e non provata ipotesi in cui il recesso fosse risultato sproporzionato. 

Infortunio del lavoratore e responsabilità del datore

Cass. Sez. Lav., 29 aprile 2022, n. 13640

Pres. Bronzini; Rel. Di Paolantonio; Ric. Z.L.; Controric. M.I.U.R.

Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro – Art. 2087 cod. civ. – Infortunio sul lavoro – Esistenza, entità del danno, nocività dell'ambiente di lavoro, nesso causale – Onere della prova del lavoratore – Adozione di tutte le misure necessarie – Impossibilità della prestazione per causa a lui non imputabile – Onere della prova del datore di lavoro

Incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la mattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi. La nocività dell'ambiente di lavoro altro non è che il fattore di rischio, circostanziato in ragione della modalità della prestazione lavorativa, sicché gli oneri di allegazione e di prova che gravano sul lavoratore non possono prescindere dalle caratteristiche della situazione rappresentata e vanno delimitati tenendo conto anche del principio, che discende dalla natura contrattuale della responsabilità, secondo cui la parte che subisce l'inadempimento non è tenuta a dimostrare la colpa del contraente inadempiente dato che, ai sensi dell'art. 1218 cod. civ., è il datore di lavoro, debitore dell'obbligo di sicurezza, a dover dimostrare che l'impossibilità della prestazione alla quale è tenuto o la non esatta esecuzione della stessa derivano da causa a lui non imputabile.

NOTA

Nel caso di specie, una dipendente di un istituto di istruzione pubblico adiva il Tribunale di Milano per sentir dichiarare la responsabilità del M.I.U.R. per il danno subìto a seguito di un infortunio sul lavoro, con conseguente condanna al relativo risarcimento. Il giudice di prime cure rigettava il ricorso, ritenendo non assolto l'onere della prova gravante sulla lavoratrice, per non avere quest'ultima fornito alcuna descrizione delle condizioni dei luoghi né della dinamica dell'infortunio.A fronte del gravame interposto dalla lavoratrice, la Corte d'Appello di Milano confermava la pronuncia di primo grado, rigettando le domande della ricorrente sulla base delle medesime argomentazioni svolte dal Tribunale.La lavoratrice proponeva ricorso per cassazione lamentando, tra il resto, la violazione e falsa applicazione delle norme in materia di ripartizione dell'onere della prova e, nello specifico, che, essendo pacifica la dinamica dell'infortunio - diversamente da quanto ritenuto dai Giudici del merito - non era suo onere descrivere le condizioni dei luoghi di lavoro e lo stato di manutenzione dei beni che vi si trovavano, mentre gravava sul Ministero l'onere di provare di aver adottato tutte le misure, nominate o innominate, necessarie alla tutela della salute e della sicurezza dei dipendenti.Con l'ordinanza in commento, la Corte di legittimità ha parzialmente cassato la decisione di merito, accogliendo, sul punto, il ricorso. La Suprema Corte ha ritenuto che il Giudice d'appello non avesse fatto corretta applicazione dei principi in tema di responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. e di riparto degli oneri di allegazione e prova nelle azioni finalizzate ad ottenere il risarcimento dei danni patiti a seguito di infortunio verificatosi in occasione dello svolgimento della prestazione lavorativa. Statuendo come da massima, la Corte ha, dunque, chiarito che spetta a chi lamenti di aver subìto un pregiudizio alla propria salute in ambito lavorativo l'onere di provare sia l'esistenza e l'entità di tale danno che il nesso eziologico tra il medesimo e l'ambiente di lavoro, restando, invece, a carico del datore la prova di avere correttamente adempiuto a tutti gli obblighi imposti dalle norme in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e che l'infortunio eventualmente verificatosi sia conseguenza di una causa al medesimo non imputabile. 

Licenziamento collettivo, procedura

Cass. Sez. Lav., 4 maggio 2022, n. 14057

Pres. Bronzini; Rel. Esposito; Ric. princ. e Controric. Incident. K.S.M. S.p.A.; Controric. e Ric. Incident. G.G.

Licenziamento collettivo – Comunicazione ex art. 4, comma 9, L. 223/1991 post modifica – Termine di 7 giorni – Carattere cogente e perentorio – Mancato rispetto – Invalidità del recesso

In tema di licenziamento collettivo, il termine di sette giorni previsto dall'art. 4, comma 9 L. 223/1991, siccome modificato dalla L. 92/2012 per l'invio delle comunicazioni ai competenti uffici del lavoro ed alla Commissione regionale per l'impiego nonché alle organizzazioni sindacali, deve intendersi come cogente e perentorio, così come era stato interpretato il requisito della "contestualità" nel regime anteriore alla riforma del 2012. Il carattere cogente e perentorio del termine comporta in caso di violazione l'invalidità del licenziamento, a prescindere dalla circostanza che i lavoratori abbiano successivamente avuto conoscenza di tutti gli elementi che la comunicazione deve comunque avere ovvero che non sia stato dimostrato il danno derivante dalla mancata comunicazione.

NOTA

La Corte di Appello di Palermo, in parziale accoglimento del ricorso proposto dalla datrice di lavoro e in parziale riforma della pronuncia di primo grado, previa declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato, all'esito della procedura di mobilità, con lettera del 2.11.2017 dalla datrice di lavoro, dichiarava risolto, a far data dal recesso, il rapporto di lavoro instaurato con il lavoratore, e condannava la datrice di lavoro al pagamento, in favore dello stesso, di una indennità pari a diciotto mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori di legge.La Corte territoriale riteneva di «negare l'applicabilità (quale criterio legale per la selezione della platea dei lavoratori da licenziare, siccome contrario a quello stabilito dall'art. 5 I. 223/1991) dell'anzianità convenzionale riconosciuta nel verbale di conciliazione in data 19 luglio 2012 (…) in quanto inopponibile agli altri lavoratori e alterante il riferimento all'anzianità di servizio da intendere, ai sensi e per gli effetti dell'art. 5 citato, quale anzianità aziendale maturata all'interno dell'unico datore di lavoro K.S.M. s.p.a», ravvisando, invece, «l'illegittimità del licenziamento per la violazione delle prescrizioni comportamentali di tempestiva ed esauriente comunicazione all'Ufficio del lavoro, alla Commissione regionale per l'impiego e alle associazioni di categoria dell'elenco dei lavoratori licenziati, effettuata con la nota del 7 agosto 2017, anteriore ai primi licenziamenti intimati priva della specificazione del numero e dei nominativi dei soggetti licenziati» in quanto tal nota risultava «inidonea, sotto i profili di trasparenza informativa, completezza contenutistica e di rispetto della rigida scansione procedimentale, a consentire un adeguato controllo alle parti sociali e alle amministrazioni interessate) non costituendo essa reale provvedimento terminale della procedura collettiva».Avverso tale decisione la datrice di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione.La Corte di Cassazione ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte territoriale, peraltro, conforme all'orientamento consolidato della Suprema Corte secondo cui «in tema di licenziamenti collettivi, il requisito della contestualità della comunicazione del recesso al lavoratore e alle organizzazioni sindacali e ai competenti uffici del lavoro, richiesto a pena d'inefficacia del licenziamento medesimo, non può che essere valutato, in una procedura temporalmente cadenzata in modo rigido ed analitico, e con termini molto ristretti, nel senso di una necessaria ed ineliminabile contemporaneità delle due comunicazioni la cui mancanza può non determinarne l'inefficacia, solo se sostenuta da giustificati motivi di natura oggettiva, da comprovare dal datore di lavoro (Cass. n. 1722/09; Cass. 16776/09; Cass. n. 7490/11)».Sul punto la Corte di Cassazione precisa, infatti, che «la contestualità fra comunicazione del recesso al lavoratore e comunicazione alle organizzazioni sindacali e ai competenti uffici del lavoro dell'elenco dei dipendenti licenziati e dei criteri di scelta, richiesta, a pena di inefficacia del licenziamento, dall'art. 4, nono comma I. 223/1991, si giustifica al fine di consentire alle organizzazioni sindacali (e, tramite queste, anche ai singoli lavoratori) il controllo sulla correttezza nell'applicazione dei menzionati criteri da parte del datore di lavoro, anche al fine di sollecitare, prima dell'impugnazione del recesso in sede giudiziaria, la revoca del licenziamento eseguito in loro violazione: con la conseguenza che la funzione di tale ultima comunicazione implica che non possa accedersi ad una nozione "elastica" di contestualità, riferita anche alla data in cui il licenziamento abbia effetto, dovendosi ritenere irragionevole che, per non incorrere in una decadenza dal termine stabilito dall'art. 6 L. 604/1966, il lavoratore debba impugnare il licenziamento senza la previa conoscenza dei criteri di scelta (Cass. n. 8680/15; Cass. 22024/15)».Conclusivamente la Suprema Corte rigetta il ricorso della datrice di lavoro. 

Trasferimento e rifiuto del lavoratore

Cass. Sez. 6 L., 3 maggio 2022, n. 13895

Pres. Esposito; Rel. Amendola; Ric. U.S.S.P.A.; Controric. F.V.;

Lavoro subordinato – Licenziamento disciplinare – Trasferimento presso altra sede – Rifiuto del lavoratore – Lontananza della nuova sede – Silenzio del datore sulle ragioni dello spostamento – Mancata applicazione del preavviso previsto dal CCNL – Rilevanza – Rifiuto conforme a buona fede – Recesso – Illegittimità

L'inottemperanza del lavoratore al provvedimento di trasferimento illegittimo deve essere valutata, sotto il profilo sanzionatorio, alla luce del disposto dell'articolo 1460, II comma, cod. civ. secondo il quale, nei contratti a prestazioni corrispettive, la parte non inadempiente non può rifiutare l'esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario a buona fede. La relativa verifica, in coerenza con le caratteristiche del rapporto di lavoro riconducibile all'alveo dei contratti a prestazioni corrispettive, deve essere condotta sulla base delle concrete circostanze che connotano la specifica fattispecie nell'ambito delle quali si potrà tenere conto, in via esemplificativa e non esaustiva, della entità dell'inadempimento datoriale in relazione al complessivo assetto di interessi regolato dal contratto, della concreta incidenza del detto inadempimento datoriale su fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore, della puntuale, formale esplicitazione delle ragioni tecniche, organizzative e produttive alla base del provvedimento di trasferimento, della incidenza del comportamento del lavoratore sulla organizzazione datoriale e più in generale sulla realizzazione degli interessi aziendali, elementi questi che dovranno essere considerati nell'ottica del bilanciamento degli opposti interessi in gioco anche alla luce dei parametri costituzionali di cui agli articoli 35, 36 e 41 della Costituzione.

NOTA

Nel caso di specie la Corte d'Appello di Firenze aveva confermato la sentenza con la quale era stata dichiarata l'illegittimità del licenziamento comminato alla lavoratrice la quale, a seguito di trasferimento pressa altra sede, dalla stessa considerato illegittimo, si era rifiutata di prendere servizio presso la nuova sede (Torino) offrendo però la propria prestazione sulla sede originaria (Firenze).Nel caso di specie la Corte aveva valorizzato tanto la lontananza della sede quanto la mancata osservanza da parte del datore di lavoro del preavviso previsto dal CCNL, salvo ragioni di urgenza ritenute non provate dalla Corte, trasferimento che, anzi, era stato del tutto improvviso e il fatto che il posto in questione era rimasto a lungo vacante sia prima del trasferimento che dopo il rifiuto della dipendente di eseguirlo.Contro tale decisione ha proposto ricorso in Cassazione la società datrice di lavoro sostenendo che il rifiuto della lavoratrice doveva ritenersi sproporzionato rispetto al preteso inadempimento datoriale.La Suprema Corte ha respinto le censure e rigettato il ricorso.In particolare la Cassazione ha rilevato che al rifiuto in questione debba applicarsi l'art. 1460 cod. civ., con la conseguenza che la parte non inadempiente non può rifiutare l'esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario a buona fede. Tale ultima verifica va effettuata con riferimento al caso concreto, con inclusione di elementi quali l'impatto sulle esigenze private e familiari del lavoratore, la puntuale, formale esplicitazione delle ragioni tecniche, organizzative e produttive alla base del provvedimento di trasferimento, l'incidenza del comportamento del lavoratore sulla organizzazione datoriale.Nel caso in esame gli elementi rilevati dalla Corte territoriale sono stati ritenuti coerenti con il rifiuto, almeno temporaneo, della lavoratrice a prendere servizio presso la nuova sede, soprattutto se si tiene conto del carattere improvviso del trasferimento e del silenzio sulle ragioni dello stesso.

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