Contenzioso

Permessi per allattamento: niente buono pasto se si lavora per meno di sei ore

di Valeria Zeppilli

Nel pubblico impiego privatizzato, il lavoratore, per poter godere dei buoni pasto, deve osservare un orario di lavoro giornaliero effettivo pari almeno a sei ore o al numero di ore superiore eventualmente previsto dalla contrattazione collettiva.
L'affermazione, di per sé pacifica, può dare talvolta adito a dubbi interpretativi, come quello risolto dalla Corte di cassazione con un'ordinanza dei giorni scorsi (sezione lavoro, 25 maggio 2022, n. 16929).
I giudici di legittimità, infatti, sono stati chiamati a chiarire se i lavoratori che svolgono un orario giornaliero inferiore alle sei ore solo in quanto beneficiari delle disposizioni in materia di sostegno alla maternità e alla genitorialità poste dal decreto legislativo n. 151/2001 hanno diritto ai buoni pasto o se devono anche loro rinunciarvi.
Per la Corte, in tali casi vale la regola generale e l'attribuzione del buono pasto richiede, pertanto, lo svolgimento di almeno sei ore effettive di lavoro giornaliero. Ad aver fatto sorgere la questione, a ben vedere, è stato lo stesso decreto 151 che, all'articolo 39, equipara i periodi di riposo cc.dd. per allattamento alle ore lavorative. Tuttavia, come rilevato dai giudici, nel farlo la medesima norma specifica espressamente che l'equiparazione è limitata agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro. I buoni pasto, invece, restano al di fuori di tale ambito di rilevanza, avendo il solo fine di compensare l'estensione dell'orario di lavoro favorendo il recupero delle energie psico-fisiche dei lavoratori mediante l'attribuzione di un'agevolazione di carattere assistenziale.
Il riconoscimento dei buoni pasto, insomma, non ha alcuna valenza retributiva e, pertanto, rispetto ad essi non rileva in nessun modo la circostanza che le ore di permesso riconosciute ai genitori nel primo anno di vita dei figli siano assimilate a quelle di lavoro ai fini della retribuzione.
Ciò posto, non è possibile validamente sostenere – come fatto nel caso di specie dagli interessati – che i permessi di fatto consentono l'uscita dal luogo di lavoro, in quanto comunque ciò non attribuisce agli stessi natura di pausa per pranzare. Né tantomeno è possibile fare leva sul fatto che il d.p.c.m. 18 novembre 2005, all'articolo 5 lettera c), stabilisce che i buoni pasto sono utilizzati anche se l'orario di lavoro non prevede una pausa per il pasto. Si tratta infatti di una norma che si limita a individuare in che cosa consiste tale emolumento esclusivamente in relazione all'affidamento pubblico della loro gestione ad appaltatori esterni, con la conseguenza che l'irrilevanza della corrispondenza con pause pranzo vale solo a tali fini e non può vincolare la contrattazione collettiva nella definizione dei requisiti necessari per l'attribuzione del buono.

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