Contenzioso

Assenza ingiustificata equiparata alle dimissioni

di Antonino Cannioto e Giuseppe Maccarone

Assentarsi dal lavoro senza fornire alcuna giustificazione, per indurre la parte datoriale ad adottare il licenziamento per assenza ingiustificata, è da censurare. Si è così espresso il Tribunale del lavoro di Udine, in una sentenza depositata lo scorso 27 maggio. Si tratta di un'importante pronuncia che intercetta una sorta di prassi che si va sempre più diffondendo, ossia di assentarsi dal lavoro senza fornire alcuna giustificazione per indurre, così, il datore di lavoro a licenziare per assenza ingiustificata.

Al fine di evitare tali abusi, che comportano una ricaduta di ordine economico sia per il datore, sia per le finanze pubbliche, nel comportamento assunto dal prestatore (abbandono del posto di lavoro) è stata ravvisata la risoluzione di fatto del rapporto e ciò a prescindere dal rispetto delle procedure telematiche di cui all'articolo 26, del Dlgs 151/2015 (comunicazione telematica delle dimissioni); in tale comportamento, infatti, il Giudice ha ritenuto prevalente la sintomatica manifestazione della volontà di non dare più seguito al contratto di lavoro.

Si tratta - come cita la pronuncia – di atteggiamenti i quali lasciano presumere che l'intento perseguito sia quello di conseguire illegittimamente l'indennità Naspi, riconosciuta nella sola ipotesi di disoccupazione involontaria e che, pertanto, non viene corrisposta laddove la disoccupazione non sia tale. Il Tribunale friulano ha ripercorso l'evoluzione normativa che ha interessato la materia delle dimissioni e, nel contesto di una controversia tra una dipendente e il proprio datore, assistito e difeso dalla Studio legale de Berardinis e Mozzi, ha rigettato il ricorso presentato dalla lavoratrice contro la risoluzione del rapporto di lavoro – avente come causale “dimissioni” – comunicata dallo stesso datore al competente Centro per l'impiego.

Si ricorda che la normativa sulla formalizzazione delle dimissioni, più volte novellata negli anni, prevede oggi che le dimissioni stesse, nonché la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, debbano essere effettuate, a pena di inefficacia, con modalità esclusivamente telematiche (articolo 26, Dlgs 151/2015). Tale disposizione, pur ponendo rimedio al fenomeno delle cosiddette “dimissioni in bianco”, presenta tuttavia delle problematicità. Come rilevato anche dall'organo giudicante, l'articolo 26 del decreto da ultimo citato non può che disciplinare la sola ipotesi di una manifestazione istantanea della volontà risolutiva del lavoratore, rimanendo escluso dal suo campo applicativo il differente caso delle dimissioni implicite per comportamento concludente.

Inoltre, la previsione normativa che richiede al lavoratore di formalizzare in via telematica le dimissioni, non genera un'indiretta abrogazione dei principi contenuti negli articoli 2118 e 2119 del codice civile, relativi alla recedibilità del lavoratore. Secondo gli stessi non è necessario incardinare la volontà in un atto formale – quale può essere quello richiesto dall'articolo 26 del Dlgs 151/2015 – essendo sufficiente l'estrinsecazione della stessa in condotte dalle quali emerga l'effettivo volere del prestatore .

La sentenza in esame ha richiamato la legge delega 183/2014 – relativa al Jobs act – la quale non aveva trascurato l'ipotesi di risoluzione tacita del rapporto di lavoro; tant'è che il Legislatore delegante, nel fissare i principi e i criteri direttivi, aveva tenuto conto della «necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore». Tuttavia, tale inciso è rimasto totalmente inattuato dal Dlgs 151/2015, che si è limitato a regolamentare il solo istituto delle dimissioni telematiche.

Il quadro normativo così delineato impone una lettura complessiva che rispetti il principio costituzionale del limite della legge delegata. Sicché anche sotto tale profilo si rafforza la possibilità di affermare la sussistenza delle dimissioni di fatto.Paradossalmente, una diversa interpretazione imporrebbe al datore di farsi carico dei rischi di un licenziamento che potrebbe comportare un eventuale giudizio in caso di impugnazione da parte del lavoratore, nonché dei costi riferiti al ticket licenziamento. In tale circostanza, invero, ciò che rileva è la carenza di volontà del lavoratore di proseguire nel rapporto di lavoro.

Sono questi gli aspetti più innovativi messi in luce dalla giurisprudenza di merito, sui quali si auspica possa intervenire il legislatore per riportare l'intera situazione nel giusto alveo.

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