Contenzioso

Rassegna di Cassazione

di a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Accertamento sulla codatorialità
Danno non patrimoniale: onere della prova e presunzioni
Licenziamento disciplinare
Contestazione disciplinare e nuove circostanze
Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Accertamento sulla codatorialità

Cass. Sez. Lav., 15 giugno 2022, n. 19259

Pres. Doronzo; Rel. Piccone; Ric. A.I.F.M.C. S.p.A. + 1; Controric. C.L.

Lavoro subordinato – Codatorialità – Unica struttura organizzativa e decisionale – Unico centro di imputazione dei rapporti di lavoro – Sussiste – Uso promiscuo delle mansioni – Non necessità – Conseguenza – Licenziamento collettivo – Criteri di scelta – Inclusione di tutte le società collegate – Necessità

Lavoro subordinato – Tutela reintegratoria – Art. 18, comma IV, Stat. lav. – Calcolo indennità risarcitoria – Aliunde perceptum e percipiendum – Considerazione – Calcolo aritmetico – Importo superiore al tetto – Tetto massimo 12 mensilità – Sussiste

In base all'art. 18, comma 4, Stat. Lav., la determinazione dell'indennità risarcitoria deve avvenire attraverso il calcolo dell'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, a titolo di aliunde perceptum o percipiendum, e, comunque, entro la misura massima corrispondente a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, senza che possa attribuirsi rilievo alla collocazione temporale della o delle attività lavorative svolte dal dipendente licenziato nel corso del periodo di estromissione. In altri termini il computo dell'indennità risarcitoria deve essere eseguito in relazione all'importo complessivo delle retribuzioni perse e di quelle aliunde percepite o percepibili, e nessuna detrazione deve operarsi sull'indennità risarcitoria, che costituisce il risultato della operazione aritmetica descritta, volta a determinare il danno effettivamente subito dal lavoratore, sia pure entro il limite massimo normativamente imposto di dodici mensilità di retribuzione globale di fatto (i.e. se il risultato di questo calcolo è superiore o uguale all'importo corrispondente a dodici mensilità di retribuzione, l'indennità va riconosciuta in misura pari a tale tetto massimo; se il risultato del calcolo è inferiore alle dodici mensilità di retribuzione, l'indennità va riconosciuta in misura pari a questo minore importo).Nell'ambito di una procedura di riduzione del personale, l'applicazione dei criteri di scelta va effettuata con riferimento alle società che compongono il gruppo, laddove tra le medesime sussista un unico centro d'imputazione di interessi, a prescindere dal fatto che il singolo lavoratore abbia effettivamente svolto le proprie prestazioni in modo promiscuo per tutte le società collegate. Se tra le imprese del gruppo sussiste una sostanziale unicità quanto alle rispettive strutture aziendali, nel senso che esse convergono verso un unico centro decisionale, l'indagine sui presupposti selettivi dei lavoratori eccedentari deve ricomprendere tutta la popolazione aziendale delle imprese coinvolte. In tal caso, non è necessaria l'ulteriore verifica se il singolo lavoratore operava solo per la società titolare del rapporto di lavoro o anche per le altre società del gruppo.

NOTA

Nel caso di specie la Corte d'Appello di Cagliari ha parzialmente riformato la decisione del giudice di prime cure che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento della lavoratrice, intimato all'esito di procedura di licenziamento collettivo avviata dalla società datrice di lavoro, sulla base dell'esistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro in capo alla datrice e ad altra società del gruppo, condannando le società alla reintegra oltre al risarcimento del danno pari a 12 mensilità. Pur confermando la Corte d'Appello l'esistenza dell'unico centro di imputazione ravvisato dal giudice di prime cure e che – diversamente da quanto accaduto – in tal caso il licenziamento avrebbe dovuto giungere all'esito della verifica degli esuberi sulla platea dei dipendenti di entrambe le società, la stessa ha riformato la statuizione sulla reintegra confermando il solo risarcimento del danno. Contro la decisione della Corte d'Appello proponevano ricorso in Cassazione le società osservando – tra le altre cose – che la sentenza impugnata era da considerarsi errata per l'aver dichiarato la codatorialità tra le due imprese in assenza di analisi sull'effettivo uso promiscuo delle prestazioni della lavoratrice e sulla base della mera esistenza tra le due di rapporti di service e che nell'una società erano presenti strutture di gruppo sovraordinate ai responsabili dell'altra. Secondo le società inoltre la individuazione dei lavoratori da licenziare non poteva che avvenire sulla base delle esigenze tecnico-organizzative proprie della società datrice attesa la differenza dei due assetti produttivi. Ulteriore motivo di impugnazione proposto, poi, il fatto che la Corte avesse ritenuto che i compensi percepiti della lavoratrice oltre 12 mesi dopo la cessazione del rapporto non potevano intaccare il limite massimo delle 12 mensilità previsto per il risarcimento del danno.La Cassazione ha respinto le censure di cui sopra. Quanto alla prima doglianza ha confermato che la Corte territoriale ha correttamente valutato che il rapporto tra società aveva le connotazioni di una sostanziale unicità soggettiva ai fini per cui è causa. Ciò sulla base di plurimi dati probatori quali la gestione da parte di una sola società di quasi tutte le attività operative di volo in favore di entrambe, l'utilizzo di equipaggi misti, l'utilizzo da parte di ciascuna società sia di personale distaccato dall'altra sia di lavoratori precedentemente occupati dall'una società che risolvevano il loro rapporto per essere assunti ex novo dall'altra. Una volta stabilita l'unicità sostanziale della struttura, ha proseguito la Cassazione, non assume rilievo decisivo la censurata mancata verifica circa l'utilizzazione da parte di entrambe le società delle prestazioni del singolo lavoratore. Conseguenza di ciò è il necessario allargamento della procedura di licenziamento collettivo a entrambe le società, non essendo peraltro state dedotte e provate le asserite ragioni per la limitazione della platea rilevante ai soli dipendenti della società datrice. Quanto poi all'aliunde perceptum la Cassazione ha confermato il proprio consolidato principio di diritto secondo cui non rileva, per l'applicazione dello stesso, la collocazione temporale delle attività lavorative svolte dal dipendente licenziato nel corso del periodo di estromissione. Pertanto le retribuzioni percepite oltre i dodici mesi rilevano ai fini del calcolo del danno subito (e quindi dell'indennità risarcitoria, essendo la stessa corrispondente alla misura delle retribuzioni perse meno aliunde percetptum e percipiendum) ma, contrariamente a quanto richiesto da controparte, non determinano un abbassamento del limite massimo di 12 mensilità previsto per il risarcimento del danno. Pertanto pur non essendosi la Corte territoriale attenuta a tale principio nella decisione, ciò non ha comportato alcun errore poiché non esistono elementi in causa tali da far ritenere che l'applicazione di tale detrazione avrebbe portato ad una misura dell'indennità inferiore ai 12 mesi (ed anzi ne esistono a conferma che il danno parametrato alle retribuzioni perse con detrazione dell'aliunde supererebbe comunque tale soglia massima).

Danno non patrimoniale: onere della prova e presunzioni

Cass. Sez. Lav., 17 giugno 2022, n. 19623

Pres. Negri della Torre; Rel. Leo; Ric. B.C. +1; Controric. N.P. S.p.A.

Amianto – Eredi – Danno biologico – Danno non patrimoniale – Danno morale e/o esistenziale – Allegazione – Necessità – Presunzioni – Ammissibilità

Il danno non patrimoniale, quale danno conseguenza, va allegato e provato ai fini risarcitori – in quanto non può essere considerato in re ipsa –, ma ciò può avvenire anche mediante presunzioni poiché, costituendo il danno morale un patema d'animo e quindi una sofferenza interna del soggetto, esso, da una parte, non è accertabile con metodi scientifici e, dall'altra, come per tutti i moti d'animo, solo quando assume connotazioni eclatanti può essere provato in modo diretto, dovendo il più delle volte essere accertato in base ad indizi e presunzioni che, anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della configurabilità.

NOTA

Il Tribunale di Massa, in parziale accoglimento del ricorso degli eredi di un lavoratore diretto ad ottenere il risarcimento del danno biologico, morale ed esistenziale subito dal congiunto in seguito all'esposizione all'amianto, condannava la società al risarcimento dei danni non patrimoniali, con l'esclusione del danno morale e/o esistenziale.Le eredi del lavoratore hanno fatto ricorso per cassazione impugnando la sentenza emessa dalla Corte d'appello di Genova che aveva confermato la sentenza di primo grado, lamentando la «violazione o falsa applicazione degli artt. 2, 3, 32 Cost; 2043, 2059, 2087, 2727 e ss del c.c. per avere la Corte di Appello negato il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale vantato dalle ricorrenti, nella specie escludendo la sussistenza del danno morale e/o esistenziale, ritenendo non applicabile il ricorso alle presunzioni, anche semplici; e ciò, senza considerare che (a mente della sentenza 24217/17 della sezione lavoro della Cassazione), il danno da paura di ammalarsi può essere provato attraverso le presunzioni e deve essere risarcito».La Corte di legittimità ha accolto il ricorso ricordando il consolidato orientamento secondo il quale «in caso di violazione dell'art. 2087 c.c., il risarcimento del danno non patrimoniale, nella cui sfera deve essere ricondotto il danno morale, data la natura unitaria del primo, è dovuto soltanto qualora sia fornita la prova della sussistenza del pregiudizio, che può essere offerta anche tramite presunzioni. Pertanto, il danno non patrimoniale, quale "danno- conseguenza", va allegato e provato ai fini risarcitori - in quanto non può essere considerato in re ipsa -, ma ciò può avvenire anche mediante presunzioni, poiché, costituendo il danno morale un patema d'animo e quindi una sofferenza interna del soggetto, esso, da una parte, non è accertabile con metodi scientifici e, dall'altra, come per tutti i moti d'animo, solo quando assume connotazioni eclatanti può essere provato in modo diretto, dovendo il più delle volte essere accertato in base ad indizi e presunzioni che, anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità». Ciò premesso, la Corte ha cassato la sentenza rilevando che nella specie sono state allegate le basi del ragionamento inferenziale per pervenire, attraverso il ricorso alle presunzioni, alla configurazione del danno morale personalizzato, costituito dall'offesa della personalità morale del lavoratore, sottoposto quotidianamente a pericolo per la propria incolumità, da cui, all'evidenza, è derivata una lesione - autonoma rispetto al danno biologico - di diritti inviolabili della persona.

Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav., 14 giugno 2022, n. 19178

Pres. Doronzo; Rel. Patti; Ric. D.L.; Controric. B.T.I. S.p.A.

Licenziamento – Fattispecie: auto-approvazione di ore di straordinario, timbratura in ingresso e pausa pranzo – Giusta causa – Sussistenza – Addetto alla gestione del personale e amministratore di sistema – Mansioni – Interesse dell'impresa – Rilevanza

È legittimo il licenziamento per giusta causa dell'addetto alla gestione del personale e amministratore di sistema in ipotesi di auto-approvazione, senza la previa autorizzazione del responsabile di riferimento, delle proprie ore di straordinario, timbrature in ingresso e pause pranzo, ciò integrando grave violazione dell'obbligo di diligenza ai sensi dell'art. 2104 c.c., il cui contenuto è variabile secondo le peculiarità del singolo rapporto ed apprezzabile in base ai due distinti parametri della natura della prestazione ovvero dalla complessità delle mansioni svolte - anche con riferimento all'assunzione di responsabilità alle stesse collegata -, nonché dell'interesse dell'impresa, e, dunque, al raccordo della prestazione con la specifica organizzazione imprenditoriale in funzione della quale è resa.

NOTA

Nel caso di specie, una lavoratrice adiva l'Autorità Giudiziaria al fine di sentir dichiarare l'illegittimità del licenziamento disciplinare irrogato dalla società datrice per aver utilizzato la propria utenza di amministratore del sistema operativo aziendale per l'inserimento in esso, in auto-approvazione - ossia senza la previa autorizzazione del responsabile di riferimento - delle ore di straordinario, di una timbratura in ingresso nonché di una pausa pranzo dalla medesima effettuate.La Corte d'Appello di Roma, decidendo a fronte del reclamo - rispettivamente, principale e incidentale - delle due parti, rigettava l'impugnazione della lavoratrice. Precisamente, la Corte, ravvisata la piena consapevolezza e volontarietà dei comportamenti ascritti alla lavoratrice, ne escludeva la coincidenza con quelli sanzionati in via conservativa dal CCNL applicato, ritenendoli idonei, anche in ragione della loro pluralità, gravità e intenzionalità, ma soprattutto in considerazione delle mansioni svolte dalla dipendente, a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario tra le parti.Per l'annullamento di tale decisione, proponeva ricorso alla Suprema Corte la lavoratrice, lamentando, tra il resto, la violazione e falsa applicazione dell'art. 2014 c.c. nonché dell'art. 18 della L. 300/1970 ed asserendo la sussistenza di una prassi aziendale che avrebbe dovuto giustificare la condotta della medesima, con conseguente insussistenza del fatto contestato, sotto il profilo dell'antigiuridicità, per irrilevanza disciplinare.A fronte di suddetta censura, con l'ordinanza in commento, la Corte di legittimità ha confermato la precedente decisione di merito. Precisamente, la Suprema Corte, ribadita la nozione di «uso aziendale» – consistente nella «reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti», tale da «agire sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale» – reputava inconferente ai fini del decidere il rilievo della lavoratrice in punto di esistenza di una prassi conforme alle condotte dalla medesima tenute, ritenendo, invece «centrale» valutarne la conformità all'obbligo di diligenza ex art. 2104 c.c., anche in considerazione della natura della prestazione svolta. Ritenuto, dunque, dimostrato che la ricorrente aveva svolto «mansioni di gestione del personale e amministratore di sistema, dalla cui utenza aveva proceduto alla detta auto-approvazione, pure essendo edotta della spettanza dell'autorizzazione alle richieste, così da sé medesima approvate, alla propria responsabile», la Corte decideva come da massima, rigettando il ricorso.

Contestazione disciplinare e nuove circostanze

Cass. Sez. Lav., 15 giugno 2022, n. 19314

Pres. Doronzo; Rel. Ponterio; Ric. A.A. S.p.A.; Controric. C.M.G.

Contestazione disciplinare – Immutabilità – Difese del lavoratore – Circostanze nuove – Irrilevanza

Il fatto contestato ben può essere ricondotto ad una diversa ipotesi disciplinare (dato che, in tal caso, non si verifica una modifica della contestazione, ma solo un diverso apprezzamento dello stesso fatto), ma l'immutabilità della contestazione preclude al datore di lavoro di far poi valere, a sostegno della legittimità del licenziamento stesso, circostanze nuove rispetto a quelle contestate, tali da implicare una diversa valutazione dell'infrazione anche diversamente tipizzata dal codice disciplinare apprestato dalla contrattazione collettiva, dovendosi garantire l'effettivo diritto di difesa che la normativa sul procedimento disciplinare, di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7, assicura al lavoratore incolpato

NOTA

La Corte d'Appello di Milano, confermando la sentenza resa dal giudice di primo grado, giudicava illegittimo il licenziamento irrogato al dipendente che aveva richiesto il rimborso di alcune spese sanitarie per importi estremamente ingenti.Secondo la Corte distrettuale, la società non aveva espressamente contestato al lavoratore la non veridicità della documentazione a supporto delle molteplici richieste di rimborso, essendosi limitata a circoscrivere l'addebito al solo importo smisurato delle somme pretese. Pertanto, essendo le richieste di rimborso avanzate dal prestatore conformi al plafond concordato con la Società (pari ad un massimo di 50.000€) e non avendo l'azienda contestato e provato la falsità delle spese addotte, il licenziamento doveva considerarsi illegittimo, con conseguente diritto della parte lavoratrice al ripristino del rapporto di lavoro.Contro la pronuncia resa dal giudice di seconde cure ha promosso ricorso in Cassazione l'azienda lamentando un'erronea interpretazione, da parte del Collegio di merito, del principio di immutabilità della contestazione, da intendersi non in senso formalistico ma sostanziale, essendo possibile impiegare, a fondamento del recesso, anche le ulteriori circostanze fattuali emerse in sede di giustificazioni.Nel rigettare il ricorso, la Suprema Corte di Cassazione ha ribadito il principio riportato nella massima.

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav., 10 giugno 2022, n. 18844

Pres. Raimondi; Rel. Michelini; Ric. e intimata nel Ricorso successivo C.A.I. S.p.A.; Controric. A.M. +2; Intimata e Ric. successiva A.S.A.I. S.p.A. in a.s.

Licenziamento collettivo – Criteri di scelta – Reparto soppresso o ridotto – Comparazione con addetti ad altre unità produttive – Necessità – Possesso di professionalità equivalente – Rilevanza – Necessità

La selezione del personale in esubero deve avvenire sulla base di oggettive esigenze aziendali, tenuto conto della dotazione di professionalità specifiche, infungibili rispetto alle altre.

NOTA

La Corte di Appello di Roma rigettava i reclami proposti dalle società cedente e cessionaria per la riforma della sentenza del Giudice di primo grado che aveva dichiarato illegittimo, per violazione dei criteri di scelta e della cosiddetta quota di riserva, il licenziamento intimato ai lavoratori, con comunicazione del 31 ottobre 2014, nell'ambito di una procedura di licenziamento collettivo, con condanna della cessionaria alla reintegrazione dei lavoratori nel posto di lavoro, ed al pagamento, in solido fra cedente e cessionaria, di un indennizzo, in favore dei lavoratori, pari a dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, ed al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal licenziamento alla reintegrazione, oltre accessori e spese di lite.La Corte territoriale riteneva «illegittima l'applicazione dalla datrice C.A.I. s.p.a. (i.e. società cedente), nella seconda procedura di mobilità avviata, dei criteri di scelta previsti in base agli accordi sindacali del 12 luglio e 24 ottobre 2014, in specifico riferimento al criterio g (soppressione posizione di lavoro) senza comparazione con altri lavoratori come loro impiegati presso la sede di Fiumicino e senza mantenimento della quota di riserva ai sensi dell'art. 10, comma 4, l. 68 del 1999».Avverso tale decisione la società cedente ha proposto ricorso per cassazione.La Suprema Corte ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte territoriale secondo cui veniva «accertato come la società datrice nulla abbia dedotto in ordine all'infungibilità delle precedenti mansioni della lavoratrice, da questa specificamente allegate».Sul punto la Corte di Cassazione precisa, infatti, che «devono essere considerate, qualora il lavoratore lo deduca espressamente, anche le altre mansioni in precedenza svolte in diversi uffici aziendali, dovendo la nozione di fungibilità e di professionalità essere intesa con riferimento non soltanto alle mansioni attuali, ma anche assolte presso altre unità, che abbiano reso il lavoratore idoneo anche per queste altre, per acquisita esperienza e per pregresso svolgimento».In sostanza, la comparazione delle diverse posizioni dei lavoratori deve essere effettuata nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede e la datrice di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli addetti ad un reparto se costoro sono idonei – per pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda – ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti.Conclusivamente la Suprema Corte rigetta il ricorso della datrice di lavoro.

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