Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Responsabilità ex art. 2087 c.c. del datore di lavoro e ripartizione dell'onere della prova
Licenziamento ritorsivo e onere della prova a carico lavoratore
Appalto e decadenza ex art. 32 Collegato Lavoro
Giusta causa e tipizzazione del CCNL: escluso il carattere vincolante
Trasferimento del lavoratore: forma libera e indicazione dei motivi non necessaria

Responsabilità ex art. 2087 c.c. del datore di lavoro e ripartizione dell'onere della prova

Cass. Sez. Lav., 30 giugno 2022, n. 20823

Pres. Raimondi; Rel. Pagetta; Ric. D.A. + altri; Controric. X. S.p.A.

Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro – Art. 2087 c.c. – Onere della prova del lavoratore – Esistenza del danno – Nocività dell'ambiente di lavoro – Nesso causale – Onere della prova del datore di lavoro – Adozione di tutte le misure necessarie

L'art. 2087 cod. civ. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro - di natura contrattuale - va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.

NOTA

Nel caso di specie, alcuni lavoratori agivano in giudizio al fine di sentir dichiarare la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. per il danno biologico dai medesimi subìto nello svolgimento della propria prestazione, chiedendone la condanna al relativo risarcimento. Il giudice di prime cure, in accoglimento della domanda, condannava la società datrice al pagamento del danno biologico differenziale derivato ai suddetti dipendenti dall'espletamento dell'attività di lavoro come in ricorso dedotta.A fronte del gravame interposto dalla società, la Corte d'Appello dell'Aquila, in riforma della decisione di primo grado, rigettava le istanze dei lavoratori e li condannava alla restituzione di quanto percepito in esecuzione della precedente sentenza. La Corte fondava la propria statuizione di rigetto, tra il resto, sulla considerazione che i lavoratori, sui quali ricadeva il relativo onere, non avevano offerto prova di una specifica omissione datoriale nella predisposizione di quelle misure di sicurezza, suggerite dalla particolarità del lavoro, dall'esperienza e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno.I lavoratori proponevano ricorso per la cassazione della sentenza d'appello, lamentando, inter alia, la violazione e falsa applicazione dei principi in materia di ripartizione dell'onere della prova e, nello specifico, del combinato disposto delle norme di cui agli artt. 1218, 2087 e 2697 cod. civ. per avere la decisione impugnata violato il principio per cui è sul datore di lavoro, debitore dell'obbligo di sicurezza, che grava l'onere della prova della non imputabilità del pregiudizio cagionato al lavoratore.Con la sentenza in commento, la Corte di legittimità ha parzialmente cassato la precedente decisione di merito, accogliendo, sul punto, il ricorso dei dipendenti. Precisamente, la Suprema Corte ha ritenuto errata la suddetta pronuncia nella parte in cui si affermava il principio secondo cui grava in capo ai lavoratori l'onere di dimostrare l'esistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione delle misure di sicurezza nei luoghi di lavoro e solo ove tale prova venga offerta sorge per il datore di lavoro il correlato onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi di qualsivoglia pregiudizio.Statuendo come da massima, la Corte ha chiarito che, invero, spetta ai lavoratori la dimostrazione del nesso di causalità tra le mansioni espletate e la nocività dell'ambiente di lavoro, restando, invece, a carico del datore di lavoro la prova di avere adottato tutte le misure di sicurezza - anche quelle c.d. innominate - esigibili in concreto.

Licenziamento ritorsivo e onere della prova a carico lavoratore

Cass. Sez. Lav., 6 luglio 2022, n. 21465

Pres. Doronzo; Rel. Amendola; Ric. G.A; Controric. C.C. S.p.A.

Lavoro subordinato – Licenziamento ritorsivo – Motivo illecito esclusivo e determinante – Necessità – Onere della prova del lavoratore – Sussistenza – Presunzioni – Ammissibilità

Per accogliere la domanda di accertamento della nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito, occorre che l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso. Dal punto di vista probatorio l'onere ricade sul lavoratore e può essere assolto anche mediante presunzioni, con la dimostrazione di elementi specifici, tali da far ritenere con sufficiente certezza il motivo ritorsivo.

NOTA

Nel caso di specie la Corte d'Appello di Genova aveva respinto la richiesta del lavoratore di dichiarare illegittimo il recesso intimatogli in quanto ritorsivo. Nella specie la Corte territoriale aveva valutato che il lavoratore, che allegava la natura ritorsiva del licenziamento, non ne avesse fornito sufficiente prova pur incombendo sullo stesso il relativo onere. In aggiunta la Corte aveva ritenuto che la continuazione del rapporto dopo il raggiungimento del diritto alla pensione del lavoratore per un periodo di sette mesi non era da considerarsi elemento sufficiente per ritenere, come invece sosteneva il lavoratore, che il datore di lavoro avesse dato assenso alla prosecuzione del rapporto di lavoro, rinunciando così alla facoltà di recesso (poi avvenuto).Contro la decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso in Cassazione il lavoratore osservando – tra le altre cose – che la sentenza impugnata era da considerarsi errata per aver violato i principi che governano l'onere della prova, dichiarando non provata – ad opera del lavoratore su cui era stato ritenuto gravare il relativo onere – la natura ritorsiva del licenziamento. In aggiunta il lavoratore sosteneva che il recesso fosse illegittimo in quanto si era ormai verificata la rinuncia del datore all'esercizio della relativa facoltà per raggiungimento dei requisiti per la pensione (in virtù della prosecuzione del rapporto per sette mesi dopo il momento in cui tali requisiti sono stati raggiunti).La Cassazione ha respinto le censure di cui sopra e il ricorso. Secondo la Suprema Corte, infatti, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi in materia di licenziamento ritorsivo e del relativo onere della prova, ritenendo correttamente che tale tipo di licenziamento possa essere rilevato e dichiarato dal giudice solo laddove l'intento ritorsivo del datore di lavoro abbia avuto efficacia determinante esclusiva del recesso con onere della prova che, pur potendo essere soddisfatto mediante elementi presuntivi, resta sempre in capo al lavoratore. La Corte ha poi avuto modo di confermare che, contrariamente a quanto affermato dal lavoratore il semplice trascorrere di un periodo di tempo apprezzabile successivamente al raggiungimento dell'età pensionabile non integra un requisito sufficiente a far ritenere che il datore di lavoro abbia rinunciato alla facoltà di intimare il licenziamento sulla base di tale motivo. Pur potendo, infatti, l'assenso del datore di lavoro alla proposta di prosecuzione del rapporto da parte del lavoratore essere desunto dal suo comportamento concludente, il semplice passaggio del tempo non è elemento a ciò sufficiente, dovendosi avere riguardo alla situazione complessiva e alla sussistenza di vari elementi presuntivi (nonché alla loro idoneità a consentire inferenze).

Appalto e decadenza ex art. 32 Collegato Lavoro

Cass. Sez. Lav., 23 giugno 2022, n. 20294

Pres. Esposito; Rel. Amendola; Ric. B.G.; Controric. C.L.I. S.r.l.

Appalto – Interposizione illecita – Costituzione di rapporto di lavoro con la committente – Comunicazione scritta equivalente a licenziamento – Assenza – Decadenza ex art. 32 Collegato Lavoro – Inapplicabilità

Il doppio termine di decadenza dall'impugnazione (stragiudiziale e giudiziale) previsto dal combinato disposto degli artt. 6, commi 1 e 2, legge n. 604/1966 e 32, comma 4, lett. d), legge n. 183/2010, non si applica all'azione del lavoratore - ancora formalmente inquadrato come dipendente di un appaltatore - intesa ad ottenere, in base all'asserita illiceità dell'appalto in quanto di mera manodopera, l'accertamento del proprio rapporto di lavoro subordinato in capo al committente, in assenza di una comunicazione scritta equipollente ad un atto di recesso.

NOTA

La Corte di Appello di Roma, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato inammissibile la domanda proposta dal lavoratore nei confronti della società, volta ad accertare l'esistenza di un rapporto di lavoro con la stessa, pur essendo formalmente assunto in qualità di socio lavoratore di varie cooperative di trasporto e facchinaggio. La Corte ha ritenuto sussistente la decadenza ex art. 32, comma 4, lett. d), l. n. 183 del 2010, argomentando che il lavoratore avrebbe dovuto procedere nei confronti della Società, che aveva assunto essere l'effettivo datore di lavoro, all'impugnativa stragiudiziale dei contratti di lavoro stipulati con soggetti diversi dalla predetta Società.Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il lavoratore per «violazione o falsa applicazione dell'art. 32, co. 4, della l. n. 183/2010, in relazione all'art. 6 l. n. 604/66, sostenendo l'inapplicabilità della disposizione che commina la decadenza all'ipotesi in cui non vi sia un provvedimento datoriale da impugnare e si chieda di accertare la sussistenza di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell'effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa».I giudici di legittimità hanno ritenuto il motivo fondato ritenendo di dover dare continuità al principio, di cui alla massima, affermato in precedenza (Cass. n. 40652 del 2021; Cass. n. 13194 del 2022).

Giusta causa e tipizzazione del CCNL: escluso il carattere vincolante

Cass. Sez. Lav., 27 giugno 2022, n. 20532

Pres. Tria; Rel. Pagetta; Ric. S.V.; Controric. P.I. S.p.A.

Giusta causa – Legittimità – Verifica – Gravità e proporzionalità della condotta – Tipizzazione della contrattazione collettiva – Valenza esemplificativa – Autonoma valutazione del giudice – Ammissibilità

In tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, ma la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 cod. civ.

NOTA

La Corte d'Appello di Perugia confermava la sentenza di primo grado, con la quale era stata rigettata la domanda del lavoratore finalizzata alla declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli dalla datrice di lavoro in data 5 dicembre 2017.In sostanza, la Corte territoriale confermava la legittimità del licenziamento irrogato al lavoratore, il quale rivestiva il ruolo di direttore dell'ufficio postale ed aveva «sottratto la somma di € 1.000,00 dalla cassa dell'ufficio per consegnarla al fratello G.S., in assenza di un rapporto finanziario in essere tra quest'ultimo e la società P.I.», e lasciato «il giorno precedente, in violazione delle regole aziendali, la somma di € 13.500,00 (dalla quale era stato prelevato l'importo di 1.000,00 euro, consegnato poi al fratello) nella parte inferiore della cassaforte, anziché riporla nella parte superiore, munita di "ritardatore", e quindi in assenza della garanzia rappresentata dal meccanismo di c.d. time delay».La Corte d'Appello riteneva, «premessa la natura sostanzialmente incontestata dei fatti oggetto di addebito», che «gli stessi fossero idonei a determinare la lesione del vincolo fiduciario anche in ragione della posizione del S. di Direttore dell'Ufficio Postale», escludendo «riconducibilità della fattispecie accertata alle ipotesi di cui all'art. 54, capo III lett. f) oppure, capo IV lett. n) (del CCNL applicato) sanzionate con misura conservativa».Il lavoratore impugnava la sentenza di secondo grado.La Suprema Corte rigetta il ricorso ricordando che, in tema di licenziamento disciplinare, il proprio orientamento consolidato è fermo nel ritenere che «la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare; quale evento "che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto", la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici (v., tra le altre, Cass. n. 6498/2012)».La Corte di Cassazione precisa, inoltre, che la Corte territoriale aveva correttamente valutato «le concrete circostanze della vicenda ed in particolare la posizione apicale rivestita dal S. nell'ambito dell'ufficio, la assenza presso P.I. di una prassi scriminante la condotta di appropriazione, la carenza di prova del dedotto stato di necessità riferito al fratello del S. così come della intenzione del S. di restituire la somma», ritenendo che «la condotta addebitata giustificava il venir meno dell'elemento fiduciario e configurava giusta causa di licenziamento ai sensi dell'art. 2119 cod. civ.» e facendo, quindi, «riferimento alle previsioni del contratto collettivo, con argomentazione aggiuntiva, destinata ad avvalorare la valutazione di gravità della condotta e la conseguente applicazione della sanzione espulsiva».

Trasferimento del lavoratore: forma libera e indicazione dei motivi non necessaria

Cass. Sez. Lav., 28 giugno 2022, n. 20691

Pres. Manna; Rel. Casciaro; Ric. S.P.; Controric. A.S.P. T.

Trasferimento del dipendente – Forma libera – Motivi – Obbligo di indicazione nel provvedimento datoriale – Obbligo datoriale di risposta – Insussistenza – Contestazione – Onere della prova in giudizio a carico del datore di lavoro – Sussistenza

Il provvedimento di trasferimento non è soggetto ad alcun onere di forma e non deve necessariamente contenere l'indicazione dei motivi, né il datore di lavoro ha l'obbligo di rispondere al lavoratore che li richieda, salvo che sia contestata la legittimità del trasferimento, avendo in tal caso il datore di lavoro l'onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato, non potendo limitarsi a negare la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione e richiesta probatoria della controparte.

NOTA

La Corte d'Appello di Palermo, in riforma della sentenza resa all'esito del primo grado di giudizio, giudicava legittimo il trasferimento di un lavoratore disposto per ragioni organizzative, nonostante la mancata enunciazione dei motivi all'interno del provvedimento datoriale.Secondo la Corte distrettuale, il datore di lavoro non era affatto obbligato a comunicare in forma scritta il trasferimento né, tantomeno, a specificare le motivazioni sottese alla determinazione adottata, avendo tuttavia il solo onere di provare in giudizio l'effettività delle ragioni organizzative o produttive addotte.Contro la pronuncia resa dal giudice di seconde cure ha promosso ricorso in cassazione il lavoratore lamentando l'erroneità della statuizione nella parte in cui ha ritenuto insussistente un obbligo di motivazione in capo al datore di lavoro nell'ipotesi in cui venga disposto il trasferimento del prestatore.Tuttavia, nel rigettare il ricorso, i giudici di legittimità hanno ribadito come, in realtà: «il provvedimento di trasferimento non sia soggetto ad alcun onere di forma e non debba necessariamente contenere l'indicazione dei motivi, né il datore di lavoro abbia l'obbligo di rispondere al lavoratore che li richieda, salvo che sia contestata la legittimità del trasferimento, avendo in tal caso il datore di lavoro l'onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato».

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