Contenzioso

Crediti prescritti dalla fine del rapporto di lavoro

di Ilario Alvino e Enrico D’Onofrio

La prescrizione dei crediti del lavoratore, dopo la legge Fornero, non decorre più in costanza di rapporto di lavoro. Questo, in sintesi, è il principio di diritto espresso nella sentenza 26246/2022, pubblicata ieri, con la quale la Corte di cassazione si è pronunciata su una delle questioni più controverse tra quelle generate dalla riforma delle tutele contro i licenziamenti invalidi realizzata dapprima con la legge Fornero (legge 92/2012, che ha riscritto l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori) e poi dal Jobs act (Dlgs 23/2015).

La questione devoluta alla Corte, di fondamentale rilevanza applicativa, può essere così sintetizzata: la prescrizione relativa ai crediti di lavoro decorre sin dal momento della maturazione del diritto (e quindi anche nel corso del rapporto di lavoro) oppure il dies a quo va identificato nella data di cessazione del rapporto?

La Corte costituzionale, nella sentenza 63/1966, aveva escluso la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro in ragione della particolare situazione psicologica (cosiddetto “metus”) in cui versa il lavoratore e che avrebbe potuto condurlo a non esercitare i suoi diritti per timore di subire un licenziamento.

Nella sentenza 143/1969 e, soprattutto, nella 174/1972 (emessa dopo l’entrata in vigore dello statuto dei lavoratori), la Corte costituzionale prendeva atto dell’esistenza di rapporti di lavoro dotati di una stabilità “reale” garantita dalla tutela reintegratoria, applicabile quale che fosse il vizio che rendeva invalido il licenziamento. In questi casi, il differimento della decorrenza della prescrizione al termine del rapporto non era più giustificato e, quindi, il credito poteva estinguersi per prescrizione anche in costanza di rapporto.

Tale impostazione è stata confermata nei decenni a seguire dalla unanime giurisprudenza di merito e di legittimità fino all’entrata in vigore della legge 92/2012 e, successivamente, del decreto legislativo 23/2015, quando parte della giurisprudenza e della dottrina (non senza autorevoli voci contrarie) aveva ritenuto che la reintegrazione nel posto di lavoro avesse ormai assunto un ruolo residuale e, quindi, non esplicasse più un’adeguata efficacia dissuasiva.

Il dibattito aveva ingenerato molti dubbi applicativi. Dubbi ai quali ha fornito risposta la Suprema corte, secondo cui, per effetto delle summenzionate riforme, il termine di prescrizione decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei diritti che non fossero già prescritti al momento di entrata in vigore della legge 92/2012. Ciò perché, pur mancando una predeterminazione certa dell’ambito di applicazione dei diversi regimi sanzionatori del licenziamento illegittimo, la tutela reintegratoria avrebbe assunto carattere “recessivo”. Affermazione, questa, che tuttavia appare dissonante rispetto ai recenti arresti della Cassazione, con i quali è stato notevolmente ampliato il ventaglio delle ipotesi di reintegrazione nel posto di lavoro rispetto alle più risalenti interpretazioni.

La prima e più immediata conseguenza applicativa di tale principio è che qualunque datore di lavoro è, già oggi, esposto a potenziali controversie per crediti del lavoratore sorti sin dal luglio 2007, senza poter eccepire la prescrizione e, in aggiunta, con notevoli difficoltà nel reperimento di elementi utili all’impostazione delle difese. Inoltre, la prescrizione dei crediti non decorrerà sino alla cessazione del rapporto di lavoro e maturerà, salvo particolari casi, solo decorsi cinque anni dall’estinzione. Ciò imporrà alle aziende di rimeditare i tempi di conservazione dei documenti e di sottoporre i rapporti di lavoro a periodici controlli della regolarità dei trattamenti retributivi erogati ai dipendenti.

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